logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

M. Mancia, "La personalità di Wittgenstein e il suo rapporto con il pensiero di Freud", in: M. Mancia (a cura di), Wittgenstein & Freud, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, Euro 13

 

<<Stanotte ho capito la mia totale nullità. Dio ha voluto mostrarmela. Ho continuato a pensare a Kierkegaard, convinto che il mio stato fosse quello di timore-tremore >>.

Con queste parole Ludwig Wittgenstein commentava nel gennaio 1922 un proprio sogno. Da esso ho voluto prendere spunto per alcune brevi note sull’importante contributo dato da Mauro Mancia alla comprensione delle complesse relazioni che Wittgenstein ha intrecciato con la psicoanalisi nel corso della propria vita. "Wittgenstein & Freud" è il volume pubblicato da Bollati Boringhieri e curato dall’illustre neurofisiologo e psicoanalista milanese, sul cui saggio "La personalità di Wittgenstein e il suo rapporto con il pensiero di Freud" mi soffermerò nel seguito per dei brevi commenti.

Ma ritorniamo al sogno. Esso viene descritto dal filosofo austriaco in un periodo in cui la Sorge dell’esperienza religiosa ( di cui sin dai primi anni di Cambridge egli aveva parlato con Bertrand Russell) era stata significativamente esclusa nel Tractatus (1921) dalle cose suscettibili di indagine filosofica: sul bisogno di Assoluto dell’uomo bisognava solo tacere.

Nel sogno sua sorella Hermine lo elogia per la sua eccezionale intelligenza. Il senso di colpa che egli prova per questa lusinga è tale che si sveglia tormentato dal rimorso per questo ‘vacuo’ compiacimento. Si sente moralmente schiacciato dal peso della propria nullità di creatura di fronte all'onnipotenza ed alla perfezione di Dio. Prova allora quel 'timore e tremore', a cui egli fa cenno nel commento sopra riportato, e si fa il segno della croce. Alzatosi a fatica dal letto per guardarsi allo specchio, è spaventato dal suo stesso volto. Spegne a questo punto la luce, ma toccando inavvertitamente il filo della corrente è colpito da una scossa elettrica. Il dolore fisico è quasi un sollievo dall’angoscia interiore.

Questo sogno di Wittgenstein, fino a poco tempo fa "inedito", è stato pubblicato in tedesco da Haymon nel 2005 nel libro dal titolo "Licht und Schatten", a cura di Ilsa Somavilla. Mauro Mancia, nel suo studio, ha raccolto quelle osservazioni sulla psicoanalisi che Wittgenstein aveva sparso qua e là in varie sue opere, conferendo loro un’importanza e una rilevanza per gli sviluppi futuri dell’epistemologia psicoanalitica.

Innanzitutto Mancia sottolinea come Wittgenstein contestasse a Freud la teoria secondo cui la funzione del sogno fosse riconducibile unicamente alla soddisfazione allucinatoria del desiderio. In realtà, proprio il sogno da lui descritto (e che ho parafrasato prima) illustra il ruolo dell’angoscia nelle produzioni oniriche, angoscia che viene filosoficamente ricondotta alla formulazione kierkegaardiana e quindi interpretata come espressione della percezione della propria nullità creaturale. Se è vero come dice Mancia che <<Wittgenstein mette in dubbio perfino che il sognare sia un modo di pensare e che cioè abbia un linguaggio>>, ciò che ci dà lo stesso filosofo relativamente al proprio sogno ci fornisce un esempio di come la posizione di Wittgenstein fosse in realtà più variegata, caratterizzata non solo da un’estrema attenzione al linguaggio onirico, ma anche dal riconoscere al sogno una polisemia tale che, come dice Mancia, <<le interpretazioni di un sogno sono molteplici e che quando un sogno è interpretato è inserito in un contesto in cui cessa di essere enigmatico>>. Quindi è la traducibilità in discorso cosciente l’unica operazione che consente la pensabilità del sogno.

Nel sogno di Wittgenstein prima riportato il senso di colpa che coglie il filosofo ‘mentre sogna’ di essere lusingato dalla sorella, sembra far riferimento, come nota Mancia, a tratti di personalità fortemente narcisistici la cui consapevolezza in Wittgenstein è stata coniugata con una forte conflittualità più o meno inconscia. <<Nella mia vita c’è una tendenza a fondare questa vita sul fatto che io sono molto più intelligente degli altri>> annota il filosofo nei suoi diari. Ed in una lettera alla sorella Helene: <<Nella tua ultima lettera scrivi che io sono un grande filosofo. Certo, lo sono, e tuttavia da te non voglio sentirlo dire. Chiamami ricercatore della verità e sarò contento (…). Chiaro, lo devo ammettere, la mia grandezza a volte sorprende persino me stesso e non riesco a comprenderla nonostante l’enorme grandezza della mia capacità di comprensione>>. Ma, aggiunge Mancia, <<la sua parte narcisistica e autoidealizzante è responsabile di paure persecutorie nella solitudine>>. Mancia fa anche riferimento ad una capacità depressiva che emerge dagli scritti e dalle lettere di Wittgenstein, che ,in particolare durante il periodo di prigionia a Cassino, avrebbe mitigato quei sentimenti di colpa così pervasivi da spingerlo più volte a pensare al suicidio. Aggiungerei che questa capacità depressiva, che è alla base della creatività del geniale filosofo, mitigherebbe in definitiva quel ‘narcisismo distruttivo’ (secondo la nozione di Rosenfeld) che renderebbe conto di quelle condotte sado-masochistiche di cui la biografia di Wittgenstein è piena. Si pensi ad es. all’esperienza dell’insegnamento elementare nell’Austria rurale che sembrava assolvere ad un compito chiaramente auto-punitivo e che significativamente si concluse con quel passaggio all’atto di tipo sadico per cui Wittgenstein subì un processo per maltrattamento ai danni di un suo scolaro. Anche il sollievo provocato dal dolore fisico che Wittgenstein sperimenta dopo il sogno del 1922 rientra in questa dinamica psichica per cui le esperienze dolorose, come scrisse a Keynes nel 1925, sono quelle salutari per <<far del bene al mio carattere>>.

Il rapporto con l’Assoluto può fare simmetricamente da pendant rispetto alla personale problematica narcisistica. In Dio sembra essere collocata una relazione con un oggetto onnipotente interiorizzato, in perenne conflitto con parti di sé distruttive e miranti all’autoannichilamento. E’ possibile che in questo inestinguibile conflitto scaturisse in Wittgenstein un ‘timore-tremore’ di essere scoperto nelle sue parti più fragili, autodistruttive, quelle stesse che, come sosteneva Viktor Tausk (1919), qualsiasi educazione cerca di nascondere, insegnando ai bambini <<a usare una falsa apparenza per nascondere le vere intenzioni>>. Così a Dio, per Tausk, i genitori delegano quell’<<onniscienza che essi stessi si sono alienati; la possibilità di ingannare l’incomprensibile essenza di Dio rimane per lungo tempo fuori discussione>> (Tausk, 1919). Da qui anche le accuse che Wittgenstein mosse alla psicoanalisi come pratica ‘irreligiosa’ e ‘pericolosa’. <<Evidentemente>> come afferma Mancia <<a Wittgenstein la psicoanalisi sollevava delle forti angosce e paure di essere destabilizzato rispetto alle proprie figure genitoriali interne, cioè a quelle rappresentazioni che caratterizzavano la propria religiosità (intesa in senso laico come religione dei padri)>>.

Un altro punto su cui si sofferma Mauro Mancia è il rapporto tra filosofia e morale negli scritti di Wittgenstein, particolarmente in quelli autobiografici. Nei suoi diari il filosofo collega autoconoscenza e senso morale del peccato: <<Conosci te stesso e vedrai che tu sei comunque e sempre un povero peccatore. Ma io non voglio essere un povero peccatore e cerco in ogni modo di scappare>>. Ed in un altro frammento dei suoi diari: <<Come è difficile conoscere se stessi, confessarsi onestamente ciò che si è (…) conoscere se stessi è terribile, perché in pari tempo si riconosce (…) la propria inadeguatezza>>. Come giustamente Mancia riporta nel suo scritto, Wittgenstein era dominato dalla convinzione, per certi versi ossessiva, delle capacità auto-curative della propria filosofia. <<Logica ed etica>> aveva scritto Weininger (1904), uno degli autori di formazione di Wittgenstein, <<sono sostanzialmente la stessa cosa: un dovere verso se stessi>>. Ed il filosofo austriaco riprende questo concetto in una lettera a Russell: <<Forse riterrà che questo mio modo di pensare me stesso non sia altro che una perdita di tempo: ma come potrò mai essere un logico prima di essere un umano?! La cosa di gran lunga più importante è fare i conti con me stesso!>>. Il dovere di fare i conti con se stesso, con la propria natura e con le parti di sé in conflitto: questo sembra muovere l’ambiguo rapporto di Wittgenstein con Freud e con la psicoanalisi. Rapporto beninteso carico di polemica virulenza, come quando Wittgenstein accusa di spiegazione mitologica la concezione freudiana dell’inconscio e dei sogni, contestando il principio del determinismo psichico che produrrebbe una perniciosa confusione tra cause e ragioni. E’ chiaro che il filosofo austriaco assumeva in questa polemica il punto di vista delle scienze ‘esatte’ che producono leggi causali suscettibili di verifiche sperimentali, senza porsi il dubbio se questo ‘paradigma’ scientifico potesse adeguarsi anche alle scienze umane che come la psicoanalisi interpretano delle motivazioni anziché formulare delle ipotesi che ‘spieghino’ tali motivazioni. Ma Mancia ammette che certe critiche di Wittgenstein alla psicoanalisi freudiana non sono del tutto ingiustificate: se pensiamo ad es. che altri psicoanalisti hanno ugualmente contestato l’idea che il sogno si riduca esclusivamente all’appagamento di un desiderio, oppure se consideriamo che le scienze cognitive attuali vedono nel lapsus non il prodotto dell’inconscio, bensì di un errore di trasmissione dal pensiero al linguaggio.

Questi miei richiami alle osservazioni di Mauro Mancia sulla personalità di Wittgenstein non vorrei che ingenerassero nei lettori il timore che lo psicoanalista milanese abbia fatto opera di ‘psicografia’, nel dedurre a partire dalle dinamiche profonde della personalità del filosofo la portata ed i limiti delle tesi wittgensteiniane sullo statuto scientifico della psicoanalisi. La finezza dell’approccio di Mancia sta nel non confondere i due piani e nel non tentare pericolose ibridazioni tra di essi.

In conclusione, la pregevolezza di questo contributo di Mancia su Wittgenstein sta nel mantenere ben distinti , da una parte, la comprensione, da un vertice psicoanalitico, della personalità del filosofo e, dall’altra, il valore delle sue tesi sulla psicoanalisi che possono benissimo stare su un terreno di confronto serrato con quelle di Freud, aventi pari dignità di fronte al ‘tribunale’ della moderna epistemologia della psicoanalisi.

Giuseppe Leo

Psichiatra – Lecce

assepsi@virgilio.it

LINKS

TORNA ALL'INDICE DEL MESE

CERCHI UN LIBRO?

CERCHI UNA RECENSIONE?

FEED-BACK:
SUGGERIMENTI E COLLABORAZIONI

Se sei interessato a collaborare — o se vuoi fare segnalazioni o inviare suggerimenti e commenti — non esitare a scrivere al Responsabile di questa Rubrica, Mario Galzigna, che si impegna a rispondere a tutti coloro che lo contatteranno.


spazio bianco
POL COPYRIGHTS