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Intervista a Carlo Loeb: la scoperta degli psicofarmaci

A cura di Francesco Bollorino e Lisa Attolini.

 

Come era la psichiatria che lei ricorda da studente di psicologia e poi da giovane specializzato? Ovvero come era la psichiatria prima dell’avvento degli psicofarmaci moderni?

Intanto devo dire che i malati ricoverati nella Clinica delle Malattie nervosi e mentali, nella corsia di psichiatria erano moltissimi, la corsia era affollatissima e c’era un ricambio abbastanza notevole; il fatto è che le possibilità terapeutiche, e noi sentivamo molto questo anche sul piano personale, erano molto modeste. Io ricordo che proprio all’inizio, la terapia per i depressi era il laudano e avevamo una serie notevole di malati che fecevano una quantità abbondante di gocce di laudano e devo dire che una piccola quantità migliorava, anche notevolmente, non guariva, ma migliorava. E poi l’altra possibilità che esisteva per i malati più importanti era solo l’elettroshock. Ed è per questo che forse è venuto un certo orientamento antielettroshock, non da noi in effetti, ma in molti altri punti di ricovero l’elettroshock era l’unica terapia e quindi era l’unica che veniva applicata.

Veniva usata sia per i depressi che per gli schizorenici?

Esatto per tutti e due ma direi per qualunque malato psichico ad eccezione forse di alcuni casi particolari, però avendo un malato che non guariva e che soffriva e avendo come unica possibilità questa ad un certo punto il ragionamento, anche un po’ grossolano, del "proviamo a vedere se" era la cosa che senz’altro veniva fatta.

Ma io, come già le avevo accennato, io non capisco questa opposizione all’ellettroshock; a parte il fatto che, come lei sa bene, nella letteratura internazionale sia in Inghilterra che negi Stati Uniti, una serie di articoli in questi ultimi 10-15 anni precisano le indicazioni e l’utilità dell’ellettroshock terapia, ma quello che io non capisco a questo proposito è un’opposizione direi aprioristica, cioè l’eletroshock fa male, distrugge il cervello, l’ellettroshock è una specie di qualcosa che si oppone alla corretta prassi medica; ecco tutto questo io non lo capisco perché allora bisognerebbe opporsi a tutti gli interventi sull’addome che tirano fuori l’intestino e che ne fanno di tutti i colori ma è tutto fatto allo scopo, e con l’esperienza che le cose poi funzionano. Non c’è dubbio che l’elettroshock terapia nei depressi gravi, anche se i farmaci hanno ristretto in modo notevole l’indicazione per l’eletroshock terapia, è ancora in qualche caso la terapia, che a mio avviso, deve esere attuata, nell’interesse del malato. Quindi quello che io non riesco a capire è un’opposizione preconcetta e aprioristica: la terapia esiste, ci devono essere delle indicazioni, ci devono essere dei limiti ben precisi determinati da eventuali effetti collaterali e se tutto questo ha poi un’indicazione ben precisa, deve essere attuata senza nessuna limitazione, ripeto in rapporto solo con gli effetti terapeutici che questa terapia può avere. Quindi a mio giudizio, ancora oggi l’elettroshock terapia in determinati ammalati depressi gravi è una terapia che deve essere attuata e che ha un effetto veramente notevole riguardo all’ammalato.

Ecco lei parlava, a proposito della situazione che sta descrivendo, dell’esperienza di giovane neurologo, di una situazione di pochi strumenti; in pratica come notavate essere l’evoluzione dei quadri di tipo psicopatologico in questa situazione di scarsi strumenti?

Cioè i pazienti tendevano alla cronicità maggiormente? Avevano delle risoluzioni spontanee? Oppure rimanevano bloccati in una fase di semiacuzie con delle punte? Insomma lei parlava di sensazione di impotenza?

Non c’è dubbio che gli ammalati psichici e quella anche può essere una causa per cui poi l’elettroshock veniva utilizzato, era un sentimento, veramente molto sentito così personalmente coinvolgente, di impotenza, di non riuscire a fare quello che teoricamente doveva essere fattto per questi pazienti. I malati avevano un’evoluzione cronicizzante e quindi si poteva fare molto, molto poco. Fortunatamente devo dire che tutto questo è durato per me personalmente, solo 4 anni perché subito dopo sono cominciati ad affiorare i farmaci.

Ecco cominciamo come fosse proprio una specie di storia avventurosa: cioè lei era in un punto di osservazione particolare, molto raffinato: una clinica universitaria importante, con un direttore famoso, la più importante d’Italia. Quali sono stati i primi sentori che qualcosa stava cambiando? Come vi è cominciata a guiungere, prima ancora di avere in mano le medicine, la notizia che l’industria stava studiando qualcosa?

 

Intanto c’erano i dati di letteratura qualche accenno era già cominciato.

Chi è che ne parlava? Quali erano le zone del mondo dove se ne incominciava a parlare?

In Europa soprattutto; meno in America direi da quello che io ho potuto constatare. Direi in Francia e in Germania soprattutto e venivano notizie certamente abbastanza documentate a un certo momento o comunque inizali secondo cui i farmaci potevano avere una certa azione. Alcuni farmaci erano già stati individuati.

E quali sono stati i primi farmaci a comparire?

Il serbasile, la reserpina, la Rawolfia serpentina; è il primo ed è quello che noi abbiamo utilizzato io credo nel 1950, 51,52. Io ricordo ancora lo stato d’animo nostro, che veramente è da sottolineare; era una cosa che ci coinvolgeva emotivamente, finalmente potevamo fare qualcosa, questo in fondo era la sensazione interna di ciascuno di noi ed io ricordo, ancora ho in mente alcune ammalate, erano tutte ammalate piuttosto giovani che erano in stato maniforme e avevamo utilizzato per loro il serbasile ed erano modificate in maniera sostanziale, in maniera notevole, erano sedate, meno motoriamente e psichiatricamente agitate e l’unico inconveniente che ci colpì anche quello molto sul piano personale era che avevano tutte più o meno degli effettti collaterali, extrapiramidali effettivamente molto importanti. E quindi questo era quello che ci tratteneva dall’utilizzare certi dosaggi però gli effetti sulla situazione psichica erano veramente estremamente importanti.

E poi arriviamo proprio al momento rivoluzionario, all’arrivo dei neurolettici e degli antidepressivi. Voi avete avuto la fortuna in Clinica di poter fare della sperimentazione prima ancora che i farmaci arrivassero in commercio, come è nata prima di tutto questa possibilità e che cosa è successo?

Io però vorrei ancora utilizzare il ricordo della cloropromazina perché mi sembra estremamente importante, perché la cloropromazina che noi credo, se ricordo bene abbiamo utilizzato nel 1953, 54 qualche anno dopo o pochissimi anni dopo la reserpina, aveva un effetto antiansioso e antipsicotico, sicuramente notevole e per noi maggiore di quello della reserpina. Anche qui però c’erano gli inconvenienti, per i dosaggi che noi impiegavamo i disturbi extrapiramidali erano molto importanti, riuscivamo a mentenere un certo dosaggio che dava un’entità di disturbi un po’ più limitata e i risultati erano senz’altro buoni.

Ma che effeto vi ha fatto vedere i pazienti cambiare?

La domanda non è casuale: io che sono abbastanza anziano ma non anzianissimo e sono stato suo allievo, la dottoressa che potrebbe essere mia figlia siamo vissuti in un mondo in cui era sottointeso che esistevano una serie di classi di farmaci per certi tipi di malattie, quindi noi non abbiamo mai sperimentato l’inizio. A noi quello che veramente ci incuriosisce è l’effetto che vi ha fatto dare per la prima volta la cloropromazina e veder cosa succedeva. Cioè è un po’ proprio come in altre situazioni in cui nasce un nuovo farmaco ma completamente nuovo; perché non è un nuovo antiischemico ma che comunque si sostituisce ad un altro antiischemico, può esser più buono o meno buono ma l’effetto è conosciuto. Qui stiamo parlando di zero e improvvisamente qualcosa.

Ma non solo questo, ma di un farmaco i cui effetti si potevano vedere nel giro di un giorno o due; questo era la cosa che ci colpiva soprattutto, non è che dovessimo aspettare 20 giorni o 30 giorni. Venti o trenta giorni si dovevano aspettare magari per vedere gli efffetti più completi, ma gli effetti più sostanziali di sedazione, di antiansia della cloropromazina si vedevano in due-tre giorni. Quindi non c’è dubbio che l’impatto personale, di partecipazione alla situazione terapeutica era notevolissima. Ma vi potrei dire questo, non era una cosa, come si può dire personale e nascosta di ciascuno, era un colloquio tra tutti noi veramente di tipo entusiasta nei riguardi di queste possibilità terapeutiche: " Finalmente possiamo fare qualche cosa".

La sensazione che noi abbiamo avuto, e ne abbiamo parlato spesso tra di noi nell’ambito di questo progetto, è che la nascita degli psicofarmaci, abbia in qualche modo cambiato radicalmente la psichiatria nella misura in cui ha reso più gestibile il malato rispetto al passato. Cioè ho l’impressione che l’esistenza dei manicomi aveva un senso nella misura in cui la gestibilità del malato in una situazione prefarmaciologica era a volte difficile; la presenza degli psicofarmaci ha reso inutile l’asilum, ma non inutile il ricovero; l’asilum in senso buono.

In senso cronico! Ma certamente, non c’è il minimo dubbio di questo, sono perfettamente d’accordo anch’io, non c’è dubbio che questa possibilità apriva degli orizzonti anche nei riguardi dell’aspetto di gestione pratica di questi ammalati; di fatti noi mandavamo a casa con la terapia e poi continuavamo a controllarli; nella gran parte dei casi anche a casa continuavano la terapia ed erano tutti contenti, i parenti, lo stesso ammalato non faceva nessuna opposizione alla possibilità di prendere la terapia.

Io immagino per capirci che i famosi 5 fogli sono diminuiti in maniera incredibile, cioè i ricoveri da qua verso Quarto per ragioni cliniche sono sicuramente scesi.

Questo sicuramnete realmente, era veramente una nuova finestra aperta sulla terapia dei malati psichici.

Adesso passiamo agli antidepressivi; poco tempo dopo è giunta notizia anche di questi.

È nel 55, 56 praticamente, e noi qui in Clinica abbiamo avuto la possibilità per primi in Italia di utilizzare questa terapia. L’aveva utilizzata prima di noi solamente Coun in Isvizzera; e con Coun siamo rimasti in contatto. Era un medico di un ospedale psichiatrico, credo fosse direttore di un ospedale psichiatrico in Isvizzera. Noi qua in Italia siamo stati i primi e non c’è dubbio che anche questo è stato un’impressione personale estremamente valida e importante, nel senso che i malati depressi che prima facevano praticamente l’elettroshock , facevano questa terapia, sono migliorati e guariti dall’episodio in maniera totale con dosaggi che poi abbiamo pubblicato, tra 150 e 300 mg die e non solo, ma vedendo che alcuni ammalati non guarivano con 150 mg al giorno, aumentando la dose, guarivano. Questo era un dato importante e non c’era alcun effetto collaterale, praticamente. O effetti collaterali minimissimi e quindi anche questo ci ha aperto un orizzonte estremamente importante. Io ricordo che abbiamo pubblicato il lavoro su una rivista italiana e poi in un congresso di neuropsichiatria francese ed eravamo tra i primissimi in Europa perché ancora non era diffuso e caso strano, lasciatemelo dire, la conclusione del nostro lavoro era che il G 22 355 come si chiamava allora l’imipramina, il tofranil non aveva ancora nome tofranil, perch’è è stato dato ovviamente dopo dalla casa farmaceutica e aveva solo quella sigla, e dicevo che l’utilizzazione di questa sostanza aveva ridotto l’indicazione dell’elettroshock, ma notevolemente, per cui i malati depressi facevano praticamente questo tipo di terapia da quel momento e l’elettroshock terapia è stata estremamente ridotta ai soli casi gravissimi e comunque che non guarivano con l’imipramina.

Arrivati a questo punto, voi avete fatto la sperimentazione, poi c’è stato il passaggio alla neuropsichiatria più diffusa. Come è stato il contatto che voi avete avuto con i colleghi che non conoscevano queste nuove terapie?

Su questo io intanto posso ricordare l’inizio del problema che lei pone e cioè questo. Cerdo fosse la prima volta, almeno in Italia, che succedeva nel congresso di psichiatri di genova del 1959, congresso nazionale della Società Italiana di Psichiatria, organizzato proprio qui in Clinica, una serata che cominciò alla nove di sera e durò fino a mezzanotte, sulla teraia della depressione. Questo per merito di Cornelio Fazio. Devo dire che era la prima volta che una cosa di questo genere in un congresso veniva fatta alla sera dopo cena; ma la quantità di persone che venne fu enorme tanto è vero che non stava nell’aula della Clinica tutta e alcuni erano fuori o nei dintorni per sentire senza poter aver posto nell’aula. E la seduta durò almeno tre o quattro ore e molti fecero osservazioni, obbiezioni però, alla fine, anche se non avevano mai sperimentato il farmaco tutti rimasero estremamente colpiti dalla possibilità di affrontare il problema in questo modo. Per quanto riguarda poi l’aspetto più pratico e al di fuori della clinica non c’è dubbio che forse all’inzio c’e stata qualche incertezza o remora però una volta che al malato veniva assegnata la terapia seppure con qualche incertezza la terapia veniva seguita anche nell’ambito dei medici al di fuori della clinica e nel giro di pochi mesi tutti si accorsero che gli effetti erano veramente sostanziali e non ci fu più nessuna difficoltà.

Lei in fondo ha vissuto questo mezzo secolo di psichiatria, lei è d’accordo che questi giorni, questi due grandi episodi dell’arrivo degli psicofarmaci abbiano veramente come dire modernizzato in senso realistico e medico la pratica psichiatrica e in fondo aperto una strada che prima proprio non esisteva, in pratica questo momento, cioè la scoperta di sostanze che erano neuroattive che potevano agire in una certa maniera. È noto che la scoperta è stata casuale, cioè non è che c’era dietro una ricerca specifica come si fa adesso sul recettore o quant’altro come si fa adesso. Le belle scoperte della medicina fatte mentre si faceva un’altra cosa. Però questo momento io ho l’impressione che è stato uno spartiacque perché ho l’impressione che da quel momento tutta la psichiatria è stata un’altra cosa. Molto più medica e è diventata una disciplina che a differenza di altre specialità talvolta cura e guarisce. Con gli psicofarmaci, molti malati, non tutti, i nostri malati guariscono mentre molte specialità anche la neurologia, spesso osserva cura ma non riesce a guarire.

Anche se ora un po’ è cambiato anche nell’ambito dell aneurologia. Comunque non c’è dubbio che è vero quello che dice ma direi che abbiamo tutti sentito che l’orizzonte che aprivano questi nuovi farmaci era un orizzonte etrsemamente importante e anche coinvolgente; direi però che era importante ed è stato detto all’inizio, in quei momenti in quei mesi era importante stabilire che non si poteva dare un farmaco in maniera direi così alla moda cioè senza ver fatto uno studio accurato del malato, senza averlo sottoposto ad un’indagine clinica veramente approfondita senza aver compreso la sua sofferenza e senza aver fornito un supporto il più possibile valido per la sua sofferenza. Quindi i farmaci hanno aperto una strada nuova e senza dubbio importante che però non deve far dimenticare che precedentemente al farmaco esiste un certo tipo di lavoro clinico, un supporto psicologico e di comprensione del malato che assolutamente non può essere eliminato anzi che deve essere rinvigorito ancora se possibile.

Non a caso i seguaci del biologiscmo del terzo millenio adesso stanno facendo marcia indietro e stanno parlando sempre di più di terapia integrata. Prima pensavano di trovare soluzioni dicendo facciamo degli esami, curiamo la deplezione dei D2, ti do questo farmaco, non ti parlo nemmeno, scoprendo che giustamente come dice lei il paziente non guariva che non bastava scoprire la deplezione dei D", D3, D4 con esami raffinatisimi, si sno resi conto che con i malti, come diceva giustamentelei, bisogna prima di tutto parlargli, e poi se mai dare le medicine.

Non bisogna nemmeno cadere a mio giudizio nell’altro eccesso di parlare solo e di dire che la depressione è un elemento del tutto personale e di visione delle cose di un certo tipo e senza dare i farmaci e solo le parole. In effetti, come diceva lei, la cosa deve essere integrata, ci devono essere tutti questi elementi e non ce ne può essere uno solo specialmente nella depressione, io parlo ovviamente in questo momento di questo.

Vorrei aggiungere ancora una cosa. Nel 1960, un anno dopo il congresso del congresso nazionale di psichiatria c’è stata una riunione sulla depressione a Rapallo indetta dalla Clinica delle Malattie nervose e mentali di Genova, in questa occasione fece la sua comparsa il prof Ugo Cerletti: era la prima volta che lo vedevo, non lo avevo mai visto. Un oratore eccezionale, ma la cosa più interessante è che, ovviamente lui era l’inventore dell’elettroshock, ma la cosa più interessante per cui volevo ricordare questo era che cominciò a parlare, cioè intervenì in discussione e cominciò dicendo:"Io non sono sostenuto dalla ditta elettroshock", un’ironia veramente importante e nessuno di noi all’epoca era sostenuto, ma c’erano ovviamente le case farmaceutiche che facevano capolino. Fu molto spiritoso e fu molto applaudito.

Cosa disse in quell’occasione Cerletti che in fondo aveva pensato di aver trovato una cura importante, "non ci sono dati per poter dire come funziona ma ho notato che funziona sicuramente bene in certe forme di depressione e alcune forme di schizofrenia" queste erano le sue conclusioni.

Di fatti lui sostenne in quell’occasione che i farmaci bisognava controllare come potevano agire agli effetti che avevano ma che per certe depressioni l’elettroshock era la cosa migliore da utilizzare.

Qui c’è ancora la sua scrivania.

Fino a poco tempo fa c’era ancora il macrotomo cioè lo strumento per tagliare le fette del cervello, di tutto un cervello. Perché all’inizio, in fondo Cerletti, come tutti i neurologi di allora era un istopatologo del sistema nervoso. Lui studiava soprattutto l’epilessia e del resto l’elettroshock è venuto proprio fuori da quello. Lui voleva studiare l’epilessia e le alterazioni neurologiche in determinate aree cerebrali dovute alle crisi epilettiche e era per questo che era venuto fuori l’ellettroschok, indurre una crisi epilettica e vederne le alterazioni. Poi le cose sono evolute.


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