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Michael McKeon, The Secret History of Domesticity. Public, Private, and the Division of Knowledge, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2006, pp. xxvii + 874

Il tema del rapporto tra pubblico e privato è stato centrale negli anni Sessanta e Settanta. Commisto in Italia a quello del rapporto tra Stato e Chiesa, fu enfatizzato dagli slogans del movimento giovanile ("la fantasia al potere") e femminista ("il personale è politico"). La psicoanalisi, che aveva esordito come indagine degli aspetti più taciuti del privato pretendendo di affrontarli nello spazio chiuso e protetto del setting, fu costretta a ripensamenti radicali dall’insostenibilità di tale pretesa; e in Italia più che altrove fu spinta a rivedere alcuni suoi assunti teorici e il suo assetto istituzionale sottoponendo a critica l’istituto dell’analisi didattica e ridefinendo sia il rapporto tra il fatto privato della cura e quelli pubblici della ricerca e della formazione, sia il rapporto tra la sua organizzazione societaria e lo Stato. Io stesso partecipai negli anni Settanta a questo composito processo in modi di cui resta traccia nei miei due lavori Mito e realtà del ritorno a Freud (1973) e Per una psicoanalisi politica (1974) e nel lavoro realizzato in collaborazione con altri Il potere della psicoanalisi (1975); è dunque comprensibile che abbia accolto il libro di McKeon, nel quale il suddetto tema ha tanta parte, con un interesse che mi ha spinto a recensirlo senza lasciarmi spaventare dalla sua mole: oltre settecento pagine di testo, più di cento di note, centoquattro tavole di cui diciotto a colori, il tutto in una nonostante la sua mole: oltre settecento pagine di testo, più di cento di note, centoquattro tavole di cui diciotto a colori, il tutto in una splendida e curatissima veste editoriale...

Michael McKeon ha insegnato letteratura inglese presso la Boston University e la insegna ora presso la Rutgers University. E’ autore di vari saggi e di due libri. Nel primo, Politics and Poetry in Restauration England (Harvard University Press 1975) analizza il poema di John Dryden Annus Mirabilis opponendosi alle correnti della "critica accademica che considerano l’espressione "poesia politica" come (…) una contraddizione in termini" (p. 1) e intendono la poesia come genere artistico autonomo. Nel secondo, The Origins of the English Novel (The Johns Hopkins University Press 1987, insignito del premio della Società James Russel Lowell per lo studio delle lingue moderne), approfondisce la propria critica al concetto di genere mostrando come, per comprendere l’origine e l’evoluzione del romanzo inglese, sia necessario liberarsi dalla camicia di forza di quel concetto e affrontare lo studio del romanzo con un metodo che, riferendosi ad Hegel, ma soprattutto ai Grundrisse di Marx, definisce dialettico. Ha poi dato seguito al suddetto studio curando il volume Theory of the Novel (The Johns Hopkins University Press 2000) ove ha raccolto scritti classici e saggi critici sull’argomento corredandoli di un’introduzione, note e commenti.

Il poderoso lavoro che recensisco riprende i precedenti, ma se ne differenzia perché in esso lo studio del romanzo inglese non è il fine, ma uno, e non l’unico, mezzo per affrontare un argomento più ampio e di universale interesse.

Nell’ introduzione l’A. dichiara infatti che il suo "non è assolutamente un libro sulla storia del romanzo" (p. xxi), bensì su "un processo di divisione della conoscenza che si afferma nei secoli XVI, XVII e XVIII" (p. xvii) e si esprime nella costituzione delle due categorie distinte del pubblico e del privato (p. xviii) fino a realizzare una particolare forma di esistenza, designata in inglese con il termine "domesticity", vissuta soprattutto dalle donne.

L’A. si serve dello stesso brano dei Grundrisse di Marx sulla divisione del lavoro che aveva già utilizzato in The Origins of the English Novel (pp. 15-19 ) per definire il suddetto processo come "dialettico", ovvero, secondo quanto aveva scritto nell’introduzione a Theory of the Novel (p. xvii), come un processo di "scoperta che si svolge dividendo insiemi (wholes) in parti e mostrando la presenza di insiemi nelle parti". Ora però apporta tre completamenti a questa definizione.

In primo luogo, precisa che quel processo comprende, oltre quello della divisione, altri tre momenti: la distinzione, la separazione e la riflessività. Le parti, nella fattispecie il pubblico e il privato, coesistono più o meno distinte in un insieme per poi dividersi pervenendo a una separazione dopo la quale ciascuna si ritrova riflessa all’interno dell’altra formando con essa un nuovo insieme.

In secondo luogo, avverte che il processo fatto di distinzione, divisione, separazione e della stessa riflessività avviene più volte e attraversa più settori dell’esperienza: istituzionale, familiare, religioso, soggettivo, sessuale ecc..

In terzo luogo, chiarisce che intende la globalità del processo di conoscenza come domestication, ovvero come rendere non solo prossimo, familiare e noto, ma anche innocuo e controllabile, quanto stava nell’insieme.

Su queste premesse passa a descrivere il concreto svolgimento storico del processo.

Egli articola la parte I del libro in sei capitoli, il primo dei quali, intitolato "La devoluzione dell’assolutismo", inizia definendo la forma storica dell’insieme che assume come punto di partenza del processo. Dopo alcuni cenni alla forma dell’insieme nel mondo greco e romano e alle sue prime divisioni (pp. 3-9), egli identifica tale forma nella civiltà romanica del Sacro Romano Impero vigente "fino al Rinascimento" in cui "la Cristianità e l’organizzazione sociale feudale incoraggiarono a pensare la relazione tra pubblico e privato in termini di analogia" e in cui "la morale cristiana permeava ogni aspetto e campo del pensiero e dell’azione" (p. 9).

Fa poi risalire la prima divisione attuata all’interno di questa forma dell’insieme a Machiavelli. Sostiene infatti che questi, ne Il principe, avrebbe separato la politica, ovvero il pubblico, "dalle considerazioni di ordine religioso e morale", ovvero dal privato, teorizzando la radicale autonomia dello Stato (p. 23). Mette però in luce anche qui il momento della riflessività: all’interno dello stesso trattato, il pubblico e il privato ritornano indivisi in quanto Machiavelli fa dipendere quell’autonomia dalla virtù di un singolo. Inoltre egli nei Discorsi avrebbe fatta propria la tradizione del repubblicanesimo classico attuando nell’insieme una seconda divisione consistente nella separazione delle libertà individuali dal potere sovrano; ma proprio per ciò pubblico e privato si ritroverebbero indivisi nell’insieme del suo pensiero.

L’A. mostra come questi due Machiavelli operano nella storia inglese, in particolare nel momento delle Guerre civili: il primo sostenendo l’assolutismo del regno degli Stuart e della Restaurazione e il secondo il movimento delle libertà repubblicane, in una dialettica che attraversa i diversi settori dell’esperienza sopra specificati e che egli ricostruisce negli altri cinque capitoli della prima parte.

Le parti II e III illustrano il senso di domestication di questo percorso storico della conoscenza, come esso volga a rendere prossimo e controllabile quanto stava perso e confuso nell’unità della suddetta forma storica dell’insieme: l’una soffermandosi sull’utilizzazione di ciò che è profano, familiare e cosciente per riportare a significati accessibili e controllabili l’oscurità arcana non solo del sacro e del pubblico, ma anche di quanto v’è di più segreto nel privato, ovvero del non cosciente; l’altra soffermandosi sulla sua utilizzazione in un ambito più circoscritto e propriamente letterario costituito in particolare dal romanzo inglese del secolo XVIII da Defoe alla Austen, e ponendo l’accento sulla costruzione in tale ambito della forma di esistenza della domesticity.

Il libro di McKeon – quanto mai ricco di dottrina, di analisi acute e di nessi suggestivi - attinge il suo materiale a uno specifico campo, quello della letteratura e della cultura angloamericana, sul quale non ho la competenza per esprimermi. Nel riassunto che precede mi sono perciò limitato a descriverne l’impianto teorico e lo svolgimento generale: se ciò non ne rende la ricchezza, basta per discuterne alcuni temi centrali che non interessano solo lo studioso di quel campo.

Tali temi vanno colti al di là della discrezione con cui l’A. li propone, quasi che la "segretezza" cui egli fa riferimento nel titolo come appartenente alla storia della formazione della domesticity appartenesse anche al suo discorso, anzitutto alla stessa formulazione del suo argomento.

Egli avverte che esso non è il romanzo; ma non è neppure, come sostiene, la divisione della conoscenza. E’ invece la conoscenza stessa, e non la conoscenza in generale, bensì quella di uno specifico oggetto. Quale sia questo oggetto è segnalato dall’aprirsi del libro con il brano di Marx sul processo di formazione della categoria lavoro a partire dall’insieme dell’attività materiale produttiva.

L’A. afferma che, citando quel brano, intende addurre un esempio dell’uso del metodo dialettico sulla cui analogia studiare il fenomeno della formazione delle categorie pubblico e privato a partire da un insieme iniziale, ma segnala anche i limiti dell’analogia: ciò cui egli si rivolge non è il lavoro, ma la divisione tra pubblico e privato come momento della conoscenza di un insieme iniziale che, a sua volta, non è l’attività materiale produttiva, ma un altro insieme, un "macroinsieme", "una totalità sociopolitica ed etico epistemologica a priori" situata in un passato mitico e pensata come Dio (p. 324), nella specifica forma che assume nella civiltà romanica.

Il fatto che egli segnali tali limiti dell’analogia indica che, citando Marx all’inizio del libro, ha voluto, più che rendersi disponibile un esempio, determinare in contrapposizione a lui il tipo e l’oggetto della conoscenza su cui verte il suo lavoro.

Forse ha avuto presente la lettera al padre del 1837 nella quale Marx dichiarava la propria intenzione di acquisire una conoscenza della "realtà spirituale" avente la stessa concretezza e attendibilità di quella dimostratasi possibile rispetto alla realtà naturale e lamentava al riguardo un fallimento; quello stesso che lo avrebbe portato a considerare tale realtà come sovrastruttura e a ritenere esaurito il compito della critica alla religione. Citando Marx all’inizio del suo lavoro, l’A. avrebbe dunque inteso dire di avere voluto raccogliere quell’intenzione; inizia a quel modo non solo per rendersi disponibile un’analogia, e tanto meno per affermare una propria appartenenza, ma per significare che la conoscenza su cui verte il suo libro non ha per oggetto la realtà naturale o i processi economici, ma la suddetta "realtà spirituale".

L’A. conferma questa sua intenzione quando presenta la propria ricerca come una storia della formazione della categoria del privato. La formazione di tale categoria altro non è infatti che il primo atto di una conoscenza, ovvero la chiara e distinta presa di coscienza dell’esistenza della suddetta realtà, della concretezza della res cogitans in tutta la sua estensione di sentimenti, affetti, pulsioni, immagini, ideazioni: l’A. non usa mai i termini "vita psichica" o "realtà non cosciente", ma è indubbio che essi indichino il più sostanziale contenuto dell’altro termine, "privato", protagonista del suo lavoro.

Egli non esplicita neppure la funzione politica che attribuisce alla propria ricerca su questo argomento.

Tale funzione risiede anzitutto nel fatto che la sua descrizione del processo storico di separazione dalla forma che il "macroinsieme" assume nella civiltà romanica equivale a una critica della religione; e che, se il termine a quo di tale critica è quella forma, il termine ad quem ne è quell’integralismo religioso affermatosi attraverso il Neoconservatorismo nell’America in cui egli scrive che considera l’estrazione del privato da quel "macroinsieme" in cui stava incastonato, protetto e controllato come il motivo fondamentale della decadenza della modernità.

Tale funzione risiede anche nel fatto che l’A. conclude la sua ricostruzione del percorso storico di conoscenza del privato con la descrizione della particolare forma del privato costituita dalla domesticity.

Egli concepisce questa forma quale risultato di un percorso di conoscenza inteso come domestication, ovvero come rendere noto e controllabile ciò che stava ignoto e confuso nel "macroinsieme", e più specificamente come una familiarizzazione del politico. Rispetto a ciò sono notevoli le sue pagine (pp. 623-626) sul Robinson Crusoe di Defoe nelle quali descrive la presa di possesso da parte di Robinson dell’isola come ricostruzione dell’organismo statuale in un’esperienza individuale e soggettiva. Tuttavia, attraverso l’analisi di altri testi, quali la Pamela di Richardson e soprattutto Orgoglio e pregiudizio della Austen, egli presenta (p. 692 ss.) la domesticity come una forma di esistenza femminile tipica della società borghese; ovvero di quella forma che negli anni Sessanta è stata contestata dal movimento femminista cui l’A. fa rapido cenno (p. 716) e che l’integralismo religioso vuole restaurare contro quanti conducono oggi in America una dura lotta per i diritti delle donne. Ricostruendo la storia segreta di tale forma egli sembra quindi proporsi il fine politico di fornire uno strumento alla lotta contro quell’integralismo; e il fatto che abbia dedicato il libro a tre figure femminili che rappresentano il suo passato il suo presente e il suo futuro, e lo concluda con il suddetto cenno al femminismo e alla nota formula "il personale e politico", segnala anche il saldarsi di un interesse pubblico con un interesse personale e affettivo.

Se si colgono questi contenuti, non del tutto dichiarati, ma sostanziali, del libro, si è indotti a interrogarsi sulla funzionalità della teoria della conoscenza delineata dall’A. rispetto alle sue intenzioni politiche più o meno esplicite.

Nel concludere il libro, egli critica quanti imputano ai romanzi della Austen e alla domesticity in generale di non tenere conto del mondo che sta oltre i confini domestici del sentimento privato. Egli imputa loro "una mancanza di consapevolezza della storia che si sedimenta nella domesticity e fa di questa un vigoroso tentativo non di separarsi dal mondo, ma di assorbirlo e incorporarlo nel proprio campo virtuale permettendo di riscoprire nell’interiorità i termini essenziali del problema della divisione tra pubblico e privato e di prospettare la possibilità di successive divisioni" (p. 715).

Concordiamo sulla necessità di valutare una data forma storica tenendo conto dei progressi che essa realizza rispetto al passato e sulla necessità di conoscere la preistoria di quella forma per poterla superare. Tuttavia restano, come lo stesso A. riconosce, le "debolezze ideologiche della domesticity" (p.716). Più esattamente, resta che la forma di esistenza femminile chiusa nello spazio della domesticity rappresentata nei romanzi della Austen limita le possibilità delle donne esponendole alla depressione o all’isteria e spingendole nel XVIII e nel XIX secolo a cercare di evadere da tale spazio frequentando prima quello della terapia mesmeriana e poi il setting dell’analista; e in generale resta il fatto che quella forma comporta una negazione del privato.

E’ quindi legittimo interrogarsi sulla possibilità di una conoscenza, come quella delineata dall’A. che procede per via di divisione, distinzione, separazione e riflessività, di condurre oltre la negazione insita nella domesticity e di realizzare il fine politico al quale nell’intenzione dell’A. stesso quella conoscenza si salda.

L’interrogativo è reso più pressante dall’uso che egli fa dei due concetti di domestication e di riflessività.

Non v’è nel libro una netta distinzione tra conoscenza e domestication, anzi i due termini vi sono usati per lo più come sinonimi; e poiché il secondo termine comporta il riferimento a qualcosa di selvaggio, sorge il dubbio che l’A. consideri il "macroinsieme iniziale", e più specificamente quella parte di esso raccolta sotto il termine "privato", come selvaggio e dunque inconoscibile e da contenere in forme come appunto quella della domesticity. Questa non avrebbe perciò una giustificazione storica, ma biologica. Non comporterebbe alcuna "debolezza ideologica", alcuna negazione; e, se ne comportasse una, questa sarebbe implicita a priori nel concetto del processo di conoscenza come domestication e pertanto insormontabile.

In quanto alla riflessività, essa, come ho accennato, si riferisce al fatto che l’insieme di pubblico e privato si ripresenta all’interno di ciascuna delle due componenti che risultano da ciascuna loro separazione. L’A. sostiene che questo continuo riproporsi conduce a una sempre più netta definizione delle categorie del pubblico e del privato; ma ciò non toglie che la conoscenza che ne risulta partecipi di un eccesso di storicismo e possa caratterizzarsi come processo ripetitivo e interminabile, e perciò impotente a realizzare il fine politico della risoluzione della negazione insita nella domesticity.

Questo uso dei due suddetti concetti induce anche il sospetto che l’A. consideri il processo della conoscenza come mera esplicitazione di qualcosa già dato nel "macroinsieme" iniziale, realizzando così il paradosso per cui il tentativo di opporsi all’attuale forma dell’integralismo fa ricorso a un'altra forma di integralismo solo apparentemente liberale, quello di Dewey che concepiva la conoscenza, sulla base del concetto di organismo e sul modello dell’arco riflesso, quale processo di incarnazione nell’individuo di verità già date (rivelate) all’inizio. Come ho accennato, nell’impianto teorico e nella ricostruzione storica del libro hanno grande rilievo Marx e Machiavelli. Colpisce però che citando Marx all’inizio del libro l’A. non ne menzioni il concetto di forza lavoro che è quanto di più prossimo al concetto di privato si trovi nel suo pensiero; e che dia credito all’immagine di Machiavelli come teorico dell’autonomia del politico e all’opposizione tra Il principe e i Discorsi e non menzioni quella sua ricerca della "vaghezza" che ne fa il primo critico della domesticity e che è quanto mancava alle donne della Austen e quanto esse inutilmente cercarono in Mesmer e in Freud. Forse nel concetto di forza lavoro di Marx e nell’ apologia della "vaghezza" fatta da Machiavelli l’A. avrebbe potuto cogliere qualcosa necessario a una conoscenza che vuole andare oltre Marx e contribuire a realizzare il fine politico così discretamente proposto, ma così presente, del libro. Tuttavia il fatto che il libro di McKeon stimoli queste considerazioni critiche va considerato come un suo merito che si aggiunge all’altro consistente nel fornire un’illuminante ricostruzione storica di un momento del rapporto tra pubblico e privato che sta a monte della sua presenza negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Il notevolissimo contributo alla consapevolezza della storia di quel rapporto che il libro fornisce e le riflessioni che induce costituiscono infatti uno strumento e un incentivo per riprendere a pensare quel rapporto andando oltre i limiti, gravanti ancora sull’oggi, del modo in cui è stato pensato in quegli anni.

LUIGI ANTONELLO ARMANDO

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