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Francesco Migliorino, Il corpo come testo. Storie del diritto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 171, Euro 16

Francesco Migliorino è professore ordinario di Storia del diritto medievale e moderno all’Università di Catania. Tra i suoi interessi di studio: l’alchimia e la magia medievale, la testualità della canonistica classica, i codici di comportamento nell’agire sociale pubblico, la psicoanalisi nelle riviste penali degli anni trenta. Tra i saggi monografici: Fama e infamia (Giannotta, Catania 1985); In terris Ecclesiae (Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1992); Mysteria concursus (Giuffrè, Milano 1999). È anche autore di un cortometraggio dal titolo Aria. Voci scritture immagini dal manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto.

polit

Ci sono libri che raccontano una storia, e che vanno letti dall’inizio alla fine. Questo, di storie ne racconta più d’una: dalla censura alla confessione, dalla grammatica dei segni alle retoriche del sacro, dall’ordinaria miseria di esistenze oscure alle interminabili prose del potere. Ecco perché ognuna di esse può essere letta come un avvenimento singolare, circoscritto nello spazio e nel tempo, sullo sfondo e all’orizzonte della vicenda sempre ricominciata delle leggi, delle norme, delle coercizioni e delle discipline e delle loro prese molteplici sull’anima e sul corpo degli individui.

Se l’analogia originaria della poetica occidentale si basa sulla trasposizione metaforica del corporeo in testuale, le storie di questo libro tracciano qualcosa di molto diverso: narrano la testualità dei corpi nella loro inviolabile scrittura, fanno meritare al diritto il suo giusto posto nei territori della letteratura.

Il corpo dunque come testo, come luogo di esistenza dei segni tracciati dalle tecniche e dalle pratiche del diritto. Segni che questo libro con rigore e pazienza cerca di decifrare per sapere, se non altro, come siamo stati "fabbricati" e perché siamo quello che siamo. Ed è questo, alla fine, il filo che intesse nuove e inedite testimonianze nel grande erbario dell’infamia.

Felt Suit

Questo libro inizia con una storia di guerra. Nel deserto nevoso della steppa russa un aviatore tedesco precipita con il suo aereo. Sperduto e confuso, scopre il caldo conforto di mani generose. Lo avvolgono in un feltro, lo cospargono di grasso, lo fanno sopravvivere con cura amorevole e inaspettata. Il nostro sfortunato eroe scopre la vita là dove aveva preteso di portare la morte. Il suo nome era Joseph Beuys.

Quell’antico e rabberciato vestito di feltro lo ha accompagnato per sempre. Alla maniera dell’Angelus Novus di Benjamin, lo ha ispirato e guidato. Una delle sue forme, oggi, è esposta alla Tate Modern di Londra. È disteso su un attaccapanni, spogliato del suo corpo. Pronto, all’occorrenza, per innumerevoli altri corpi.

Felt Suit, del 1970, compare in copertina per evocare le Storie del diritto che questo libro si avvia a raccontare. Si spinge al punto da chiamare per nome i protagonisti delle nostre storie. Scomunicati e inquisitori, penitenti e confessori, uomini infami e persone dabbene, teologi e giuristi, gesuiti e luterani, scienziati e polemisti, domenicani e musulmani, giudicabili e condannati, minorati e guardamatti, alienisti e alienati.

Muti attaccapanni, come direbbe il vecchio Marx, corpi viventi che vengono alla vita impigliati in una fitta ragnatela di parole e di cose. È tessuta con gli attrezzi del linguaggio, si fa forte dello scudo della norma, fa vanto delle sue categorie universali, si muove all’unisono con i pensieri che le istituzioni pensano, giorno dopo giorno battezza, denomina e rinomina i comportamenti umani.

Questo libro va alla ricerca di una declinazione del corpo che, da superficie della scrittura, sia visto invece esso stesso come scrittura di un testo, anzi, come spazio aperto, come luogo di esistenza. Una trama ipertestuale, dunque, che connette i significati di obbedienza, di coscienza, di segreto, di simulazione, di fama, di corpo, di norma, di identità. Nomi dati alle cose, nomi che sono indicibilmente vitali per l’esistenza stessa delle cose.

Per questa via, capiterà di imbattersi nella paternità del censore, col suo volto feroce e la sua amorevole sollecitudine; nei meccanismi sociali di controllo e di esclusione che sono propri della parola; nell’ostinata inclinazione che hanno gli uomini ad alzare barriere e a tracciare margini; nella superficie duttile che rende trasparenti i corpi e le anime dei peccatori; nella funzione della pena medicinale quando impone una dieta affettiva ed è essa stessa la presenza di una mancanza.

Sullo sfondo la mirabile Teofania dell’universo medievale con le sue cattedrali di idee volute e ordinate da un Dio cibernetico e lo stupefacente gioco di maschere che il diritto mette in scena davanti a una platea di uomini lasciati bambini. Armonia e ordine richiedono lo scoprimento degli oggetti buoni e di quelli cattivi, per merito di chi dice quel che deve essere detto.

Capiterà anche di sentire appena il brusio di voci che viene da brandelli di esistenze oscure. Saremo testimoni impotenti della coazione a ripetere degli uomini che da sempre restano impauriti dall’altro da sé. Vedremo in azione alcuni congegni che sovrintendono alla produzione della Verità e alla costruzione sociale del soggetto e della sua identità.

Strada facendo, forse, ci faremo abbagliare dalla gaia speranza della modernità e dall’aurorale cultura del codice. Condivideremo la struggente nostalgia del Paradiso perduto. Ascolteremo le ragioni del primo progenitore. Finiremo però anche noi per condividere le urgenze della politica. Sorretti e appagati da una inedita dimensione di massa dell’odierno giusnaturalismo.

Dai Sei Giorni della creazione alla postura di una pagina scritta nella sua materiale esistenza. Per apprezzare la scrittura reticolare di un predicatore, coi suoi mille casi di coscienza e le sue notti insonni. Una mirabile messa in scena della sapienza teologico-giuridica che fa a pugni con l’angoscia per la manchevolezza umana di un internato al manicomio criminale. Ieri come oggi l’inesauribile umanitarismo degli uomini, mentre è al lavoro, instancabile, la macchina astratta con i suoi effetti di invisibilità, che per potere vivere si mette al riparo dal mondo sensibile velandolo sotto una nuda e muta superficie. Quel che più conta è catturare l’uomo in un reticolato di linee ortogonali, decidere della sua normalità e assegnargli il suo giusto posto entro la quadrettatura del foglio.

Un paesaggio a dir poco frastagliato. Alla fine, forse, varrà la pena di abbandonare la magniloquente Storia (al singolare) e ammettere, più modestamente, che questo libro si accontenta di raccontare storie del diritto (al plurale). Non solo perché le sue storie sono state pensate in occasioni e contesti diversissimi fra loro. Soprattutto, per sottrarsi alle pretenziose mire dell’uccello notturno di Minerva, per provare a pensare fino a che punto sia possibile squarciare la divisione del lavoro tra la speculazione teorica e la cogenza reale delle pratiche sociali, quella opaca sordità che fa correre il rischio agli storici di restare sempre in mezzo, senza riuscire a dedurre dai discorsi dell’una il reale funzionamento delle altre.

Abbiamo avviato queste pagine introduttive con la scultura di Joseph Beuys. Vorremmo concluderle con l’acquarello di Paul Klee. Per condividere con Walter Benjamin la sua distanza dall’impianto dialettico del pensiero sistematico e del superamento degli opposti. Al cospetto dell’uomo tragico, la cui speranza nel futuro è un’illusione, che vive in un mondo concepibile come molteplicità e non più come totalità. Come direbbe Nietzsche, la clessidra dell’esistenza continua a girare, e tu devi girare con essa, come uno sporco granello di sabbia. Se c’è progresso — ribatterebbe Freud — c’è solo quello che permette agli occhi degli uomini di aprirsi per vedere la struttura tragica della realtà.

Contro la dialettica della sintesi e della conciliazione. Allo stesso modo di Adorno, là dove il grande francofortese contesta radicalmente l’identità tra realtà e pensiero e rimprovera alla filosofia quello zelo paranoico con cui pretende da sempre di ammettere nient’altro che se stessa. Col risultato di fagocitare nel dominio della pura forma il dissimile, il non identico, il diverso, l’individuale. Soprattutto dopo Auschwitz, la Kultur ha perso il suo rassicurante ottimismo. Aborrisce il suo stesso lezzo, mostra disagio ad abitare un palazzo costruito di merda di cane.

Se l’abito di feltro ci rammenta la corporeità del reale, l’angelo di Benjamin ci ammaestra sulla forza euristica del duale, ci induce a cercare in quello sconfinato cumulo di disastri la nuda vita. Per dirla alla maniera di Henry Marrou, gli storici somigliano più agli affabulatori di storie che ai custodi gelosi di vetrini e di pendoli.

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