Strano disturbo la « prosopoagnosia»: viene a mancare la memoria dei volti. Ce lo racconta Luciano De Crescenzo.«Vi conosco, ma non vi riconosco»
«Il giorno in cui non ho riconosciuto mia sorella Clara e lei è scoppiata a piangere dicendomi Lucià, so' io! ho pensato di essermi completamente indementito ». Così racconta Luciano De Crescenzo, il famoso filosofo-scrittore napoletano. «Non sono mai stato fisionomista aggiunge De Crescenzo , ma da una decina d'anni questo mio difetto stava peggiorando; forse perché sto diventando vecchio, mi son detto. Invece ho scoperto di avere un disturbo stranissimo che si chiama prosopoagnosia, dal greco prosopos (faccia) e gnosis (conoscenza), che con la a davanti diventa conoscenza mancata. Quando l'ho scoperto, mi sono spiegato tante cose e ho potuto spiegarle anche agli altri, perché tutti pensavano che si trattasse di un vezzo. Adesso i miei amici più cari, come Arbore, la Laurito o Benigni, sanno come aiutarmi: quando Arbore mi incontra mi dice Lucià, guarda che so' Renzo!. Ma con chi ancora non lo sa, faccio spesso figuracce: come quella volta che vidi seduta una bella signora e mi avvicinai chiedendole chi era: ma appena quella, sorpresa, mi rispose, capii che era Sophia Loren. Altre volte mi salvano i particolari: gli occhialetti bianchi della Vertmùller sono per me un salvagente, ma se non ci sono segni di questo tipo posso fare grosse confusioni, come in quella occasione in cui scambiai Bassolino per Clinton. Ci sono poi vecchi amici che non vedo da anni e che si offendono se non li riconosco. Per evitare gaffe ho imparato a usare alcuni trucchetti che consiglio a tutti quelli che soffrono del mio stesso disturbo: prima di andare a una riunione, ad esempio, mi faccio dire i nomi dei partecipanti, così la scelta fra i possibili personaggi che non riesco a riconoscere si restringe. E mi sono fatto stampare dei bigliettini da visita che porto sempre con me (vedi foto) in cui è spiegato con semplicità il mio problema: questi bigliettini mi hanno evitato un sacco di fastidi.»
Le cause neurologiche
Quando il cervello perde un archivio
È come se non si avesse più accesso alle immagini di riferimento che servono a ricordare
Delle malattie simili a quella che ha colpito De Crescenzo si occupa la neuropsicologia, scienza a metà strada fra la psichiatria e la neurologia che cerca di mettere in relazione le alterazioni del cervello con quelle delle funzioni superiori, come intelletto, memoria, coscienza del tempo e dello spazio.
I vari deficit
I neuropsicologi studiano malattie che iniziano quasi sempre con la lettera 'a: aprassia, afasia, agnosia, amnesia, alessia, asomatognosia. Se la prassia è la capacità che tutti abbiamo di usare oggetti comuni, come una forbice, I'a-prassia è la perdita della comprensione dell'uso di tali oggetti. Nel cervello, infatti, c'è una zona che riceve gli impulsi visivi (così vediamo l'immagine dell'oggetto), un'altra che riconosce ciò che vediamo, un'altra, ancora, in cui sono immagazzinate le istruzioni per usarlo. Ma se, ad esempio, un ictus ha interrotto i collegamenti fra le aree cerebrali, vediamo l'oggetto, possiamo anche riconoscerlo, ma non sappiamo che cosa farne. Se, però, la zona del cervello che riconosce la matita attraverso il tatto è rimasta collegata all'archivio cerebrale delle istruzioni per l'uso, ecco che è possibile ricordare come si scrive prendendola in mano. La gnosia è la capacità di usare la zona del cervello che riconosce le cose attraverso i vari sensi (vista, udito, tatto), l'agnosia è, viceversa, la perdita di tale capacità. Anche il tatto ha le sue agnosie: l'aniloagnosia è, ad esempio, l'incapacità di capire di che sostanza è fatto l'oggetto che tocchiamo (stoffa o ferro?) e l'amorfoagnosia l'incapacità di riconoscerne la forma (rotondo o quadrato?).
Allo stesso modo c'è anche l'agnosia per le facce, la prosopoagnosia. Si tratta di una situazione nella quale, a onor del vero, ci ritroviamo un po' tutti noi occidentali quando dobbiamo, ad esempio, individuare un certo giocatore in una squadra di calciatori giapponesi o cinesi: le loro facce ci sembrano tutte uguali. Avendo visto pochi volti nipponici, soprattutto nei primi anni di vita, conserviamo un ricordo sbiadito dei loro lineamenti e non abbiamo in memoria un valido termine di confronto, come può essere il viso dei genitori.
Gli espedienti utili
Ma se lo stesso problema si presenta con i colleghi, i famigliari o addirittura con noi stessi allo specchio, le cose sono ben diverse. Jean-Marie Charcot, il padre della moderna neurologia, racconta di un paziente che in una galleria, vistosi sbarrare il passo da un'altra persona, gli aveva offerto le sue scuse, quando in realtà si trattava della sua immagine riflessa in uno specchio. Le persone colpite da questo disturbo possono essere aiutate dal neuropsicologo ad adottare sistemi per aggirare il problema: si tratta d'individure quegli stratagemnii psicologici (come da autodidatta ha fatto De Crescenzo) che forniscono elementi alternativi al riconoscimento delle persone.
UN TRAUMA DÀ VUOTI TRANSITORI
La prosopoagnosia viene ufficialmente identificata per la prima volta nel '47 quando il medico tedesco Joan Badamer pubblica un articolo secondo cui (oggi, però, esistono anche altre teorie) questo disturbo affonda le sue radici nel meccanismo col quale il bambino, prima ancora degli oggetti, inizia a riconoscere le espressioni del volto della mamma e degli altri adulti che entrano nel suo campo visivo. Ma la prosopoagnosia può essere anche un disturbo transitorio, per esempio conseguente a traumi o problemi della circolazione cerebrale. Ecco cosa racconta un giovane neurologo milanese che ha sofferto per alcune settimane di prosopoagnosia dopo un incidente in moto in seguito al quale è rimasto 15 giorni in coma: «Vedevo le facce attraverso le orecchie e non con gli occhi: quando incontravo qualcuno che non riuscivo a riconoscere, anche se dal suo atteggiamento capivo che doveva trattarsi di un vecchio amico, aspettavo che parlasse. Appena la sua voce veniva identificata, era come se nel mio cervello scattasse qualcosa che apriva l'archivio della memoria. Un volto, fino a quel momento sconosciuto, si affollava di ricordi, riacquistando identità. La cosa interessante è che all'inizio, quando per aiutarmi mia moglie mi diceva a chi apparteneva il volto che non riconoscevo, trovavo quella persona invecchiata perché ero andato a cercare il ricordo del suo volto nell'archivio della mia memoria dove era stato fissato anni prima. In realtà, avevo visto quella persona di recente, ma il ricordo era cancellato»'.
(Cesare Peccarisi)