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Gli alieni e le torri di guardia: la rappresentazione della paranoia nei film di fantascienza americana

di Alberto Sibilla

 

In questo mio intervento cercherò di utilizzare alcuni film di fantascienza per narrare la paranoia. Può sembrare, sin dal titolo una decisione bizzarra, in un periodo storico in cui nei vari convegni e riviste di psicopatologia e psichiatria prevalgono le indagini fatte con un elevato campione di pazienti, con un impiego dei criteri della medicina basata sulle evidenze.

È tempo di indagini quantitative, ma questa metodologia, non può esaurire la conoscenza psicopatologica e rischia di creare categorie diagnostiche sofisticate, ma distanti dalla comprensione del malato. Come sostiene Borgna è forte il rischio di una psichiatria dell’esteriorità, dell’epifania sintomatologia. Questo metodo inoltre è sicuramente di difficile applicazione per un tipo di pazienti, in cui spesso il primo incontro è anche l’ultimo e quindi non si lasciano arruolare in studi randomizzati e verso cui è difficile valutare effetti di terapia ed esiti.

Un ulteriore rischio dell’approccio neo kraepeliniano consiste nel perder di vista la soggettività dell’incontro con il paranoico, l’alieno. Con questo termine introduco la fantascienza, con la similitudine tra ammalati mentali e extraterrestri. Alieno è un termine che viene usato sia in psichiatria che in science fiction, per indicare un altro da noi, estraneo al genere umano, inteso in una sua pretesa e ideale normalità. Una impostazione psicopatologica di tipo unicamente neo positivista, in una sua presunta neutralità, ha in sé il pericolo di "alienare" il malato e quindi di considerarlo altro da noi, incomprensibile, senza senso, etichettabile in categorie o dimensioni psicopatologiche eccessivamente ristrette. Sicuramente questo modo di impostare la comunicazione in psichiatria ci avvicina a uno statuto scientifico, ma un uso esclusivo di questo modello di studio ci deve rendere cauti, per non perdere quanto di innovativo e peculiare appartiene alla nostra disciplina. Utilizzando altri strumenti e in particolare le storie, non solo quelle dei pazienti ma tratte da romanzi o dal cinema recuperiamo una dimensione narrativa, ma nascono altri problemi. Si può dare indicazioni credibili partendo da una opera letteraria o da un film? Se lo chiedeva già Freud, utilizzando il libro di Daniel Paul Schreber "Memorie di un malato di nervi" per illustrare la paranoia? Se lo chiedeva con maggior precisione in una opera minore del 1907 "se il nostro confronto … della creazione poetica con il sogno è valido, deve rivelarsi in qualche modo proficuo". Freud concede uno spazio aperto all’uso di strumenti, non propriamente scientifici, ma lo fa in maniera dubitativa. E a maggior ragione la domanda è controversa se parliamo di utilizzare un film?

Cercherò di focalizzare alcuni punti del rapporto tra psicoanalisi e cinema. Due sono essenzialmente le modalità di intersezione. La prima mette in evidenza le analogie tra film e certi prodotti dell’inconscio, il sogno in particolare, in un tentativo di integrazione e di spiegazione del funzionamento di entrambi. Lebovici già nel 1949 in un saggio "Psychanalise et cinema" ha per primo cercato di dimostrare che il cinema è il mezzo di espressione più vicino al pensiero onirico. Secondo lui il film suscita una adesione empatica, lontana dalla semplice passività, ma vicina a uno "certo stato di comunione rilassata". Questi concetti hanno avuto molto successo, anche se in maniera sotterranea fino ad arrivare a considerazioni analoghe di Pancheri. Altri psicanalisti di impostazione lacaniana si spingono più in la e scrivono pagine provocatorie e radicali sulla analogia tra apparato psichico e funzionamento dello spettacolo filmico. Cioè nel procedimento che è alla base del film si evidenziano i meccanismi psichici, non solo dei sogni, ma del funzionamento esteso della mente e quindi dei lapsus, delle allucinazioni e dei meccanismi di difesa. È una impostazione basata sulla teoria lacaniana che lega i fenomeni psichici alle questioni linguistiche e attraversa un terreno metodologico avulso da qualsiasi confronto con il dibattito attuale interno alla psicoanalisi, che non solo deve confrontarsi con la clinica, ma non può essere indifferente alla dimensione biologica della mente e quindi alla dialettica psiche/cervello. L’approccio di analisi testuale simile all’analisi dell’inconscio lacaniano ( strutturato come un linguaggio) ha grande successo tra i critici cinematografici, anche quelli americani e anche nei giovani critici contemporanei. Metz, che è, insieme a Barthes, il fondatore della semiologia francese, in un suo libro placa gli eccessi dell’uso interpretativo della psicanalisi al cinema e riformula in maniera critica, il rapporto tra psicanalisi e cinema. Riprende l’analogia tra cinema e sogno, come similitudine e metafora, e non come identità di funzionamenti e formula alcune correzioni, sottolineando l’importanza della soggettività nella fruizione del film o meglio vede nel film uno specchio primordiale in cui ci si identifica con il personaggio della storia, con l’attore e anche con se stesso. Lo spettatore entra temporaneamente in uno stato sognante in cui i vissuti soggettivi indotti dalle sequenze cinematografiche rappresentano una nuova forma di identificazione fondamentale per la vita sociale degli spettatori. Sottolineo questi aspetti teorici perché dall’analisi dei film di cui parlerò, cercherò da un punto di vista soggettivo di costruire un tessuto in cui la comunicazione con gli ascoltatori e quindi una dimensione sociale ha un ruolo fondamentale. Mi sembra quindi che il film con la mediazione di una psicanalisi "soft" possa essere uno strumento adatto per una comprensione profonda degli altri, ma anche di se stessi e offra la possibilità di costruire dei modelli di conoscenza. Metz ha dedicato successivamente numerosi libri al linguaggio del film e agli strumenti per interpretarlo: linguistici, psicanalitici ? In un libro più recente descrive il film come un testo: "un film è una unità concreta, un testo chiuso, un discorso terminato; dunque porta sempre in sé un principio ultimo di unificazione e di intelligibilità, che viene detto comunemente la sua ‘struttura". Quindi è possibile una interpretazione e la psicoanalisi può essere uno degli strumenti.

La psicanalisi è stata utilizzata come metodo critico per organizzare un insieme di segni per ricostruire ciò che il film dice senza volerlo esplicitamente dire. Chi interpreta il film, il Mediatore, sta in mezzo tra il mondo concreto del film e il significato che esso assume nella nostra mente. È una tentazione carica di suggestioni, ma che può portare a un uso distorto delle interpretazioni. Cercherò di essere molto attento a un uso spregiudicato della interpretazione applicata ai film. Io penso che ci debba essere un limite alla interpretazione applicata al cinema e in particolare in passato sono stati fatti collegamenti con la vita privata dei registi, del tutto arbitrari e fuori luogo: Hitchock è l’esempio più classico di questo uso dello strumento psicoanalitico, con un collegamento del tutto arbitrario tra le storie dei suoi film e presunti traumi infantili.

Eco, giustamente afferma che la vita di un autore non può essere uno strumento di interpretazione di un romanzo. La seconda domanda che si pone è più specifica ed è sulla possibilità di illustrare i disturbi mentali nelle narrazioni cinematografiche. Ma quali sono i nodi del dibattito tra cinema e psicoanalisi su questo punto?

Ritorniamo alla domanda iniziale: quali sono i rapporti tra narrazione e psicoanalisi ? Ferro cita alcune problematiche della narrazione e del suo uso in psicoanalisi. Tralasciando la questione della narrazione in seduta psicoanalitica, alcune sono domande pertinenti alla mia riflessione. Si può utilizzare un racconto come se fosse una seduta per considerazioni psicopatologiche ? Si può costruire una verità narrativa o meglio con il termine già utilizzato da Aristotele, una narrazione clinica verosimile, al posto di una inafferrabile verità storica? Infine quale narrazione cinematografica scegliere e quale trama può darci stimoli alla comprensione della psicopatologia ? La psicoanalisi del cinema si è posta sin dall’inizio come un approccio scientifico: ha stabilito delle pertinenze, ha cercato di interpretare dei dati, ha elaborato dei modelli. Si debbono però utilizzare storie che mostrano la psicopatologia in maniera indiretta e intendere la psicanalisi come ermeneutica debole, che può individuare una traiettoria meno visibile ed esplicita del film, costruendo un nuovo e diverso rapporto di conoscenza con la storia e il problema psicopatologico preso in esame. Intendere la psicanalisi come scienza "debole" significa" proporre un discorso analogo a quello che viene fatto in questi ultimi anni per le interpretazioni in psicoanalisi: "aperte e insature, che non chiudono il senso, ma rilanciano la possibilità di ulteriori espansioni di senso: interpretazioni narrative". Inoltre, l'apprendimento di nuove costruzioni circa i pazienti può portare alla costruzione di nuovi sistemi di significato, più "funzionali". I film debbono poi essere non descrizioni dirette della malattia mentale o film di denuncia, che rischiano di essere troppo scolastici e quindi non colgono le sfumature della sofferenza psichica.

Sicuramente nelle mie scelte vi è una buona dose di soggettività, utilizzando le storie come un pre-testo, cioè come una visione che va oltre la storia narrata, anche se penso fortemente ancorata ad essa. Ho ben presente le posizioni di Eco sui limiti delle interpretazioni possibili, che sottolinea che certe letture ledono i diritti dei testi a favore del diritto ( narcisistico) dell’interprete.

Il tema della paranoia mi sembra particolarmente significativo proprio per l’eccesso di senso che il malato attribuisce al mondo. Rispetto a questo eccesso di senso si resta paralizzati, spesso incapaci di costruire un ponte relazionale: il paranoico ha già capito tutto! Il cinema forse più di tanti studi ci permette di andare oltre la struttura superficiale del discorso paranoico e di comprendere un prima e un dopo nella storia dei pazienti e comunque costruisce una narrazione con caratteristiche concernenti il passato in una struttura mentale contratta sul presente. Non intendo offrire una nuova teoria della paranoia, ma fornire attraverso l’analisi di alcuni film una riflessione su alcuni punti considerati essenziali della malattia, che spero possa indurre analoghe considerazioni nei lettori, che possono diventare spettatori dei film che io propongo e quindi dare un loro senso, non rigido al discorso paranoico. Nel parlare di questo tema con alcuni colleghi, talora notavo una sorta di scetticismo. Trovavano strano l’uso di alcuni film di fantascienza, che a loro sembravano irrilevanti. Ho riflettuto su queste reazioni e forse lo scetticismo nasce da un'unica visione del film. Anche film la cui interpretazione più complessa, è ormai affermata ( mi riferisco ad esempio all’Invasione degli ultracorpi), hanno mostrato un significato più profondo, non immediatamente alla loro proiezione nelle sale cinematografiche, ma nel corso degli anni dopo ripetute visioni e analisi. Talora anche rivisitazioni casuali hanno mostrato nuovi significati: Blob, è parola che inizialmente descriveva una invasione di extraterrestri della consistenza della marmellata, ma ha successivamente assunto un significato condiviso di budino mediatico; è l’esempio più evidente di un possibile ampliamento di significato. Nell’epoca contemporanea la televisione e la diffusione dei mezzi di riproduzione ( videocassette e DVD), permette, anzi induce la visione ripetuta dei film, che con il tempo acquistano una nuova e alcune volte più profonda identità. Sono sempre più numerosi gli autori, che affermano che il film è un opera infinitamente riproducibile e fruibile per una visione innumerevole che aiuta la percezione estetica ed empatica del film e riesce a dare un senso più strutturato rispetto a quello iniziale . Bisogna ovviamente scegliere i film giusti cioè quelli che hanno costruzione più allusiva, con caratteristiche estetiche particolari, con una non univocità e una ambivalenza nella realizzazione della storia e che riescono con il tempo a fornire infiniti spunti di riflessione. Inoltre si sintonizzano con parti profonde di noi, permettendo quel meccanismo di identificazione di cui Metz ha parlato. Ribadisco che queste caratteristiche sono presenti in film in cui non vi è una rappresentazione diretta della psicopatologia. La narrazione diretta della nevrosi o della schizofrenia, passato il primo periodo in cui come tecnici della psichiatria, siamo quasi costretti a giudicarla positivamente, diventa noiosa, poco stimolante ulteriori riflessioni. Per questo ho scelto alcuni film di fantascienza. In questo genere in maniera avventurosa e leggera vengono affrontati temi molto profondi: il rapporto con la tecnologia, il senso dell’essere al mondo, l’unicità o la riproducibilità del soggetto, la presenza di "altri", la sopravvivenza della specie, lo scontro tra "civiltà" diverse e last but not least la paranoia. Nella fantascienza usando termini psicoanalitici, domina la "proiezione" cioè l’angoscia ( in particolare in periodi storici difficili) viene indotta da fattori esterni, altri o meglio alieni, e viene rappresentata non come una malattia, ma come uno stato estremo di paura, del tutto giustificato dal contesto.

Prima di arrivare al presente, utilizzando la vecchia e buona psicanalisi, tenterò una ricostruzione storica, limitata e soggettiva, ovviamente con alcuni film degli anni 50. Ho scelto questo periodo storico perché anche allora era immanente il problema dello scontro tra "civiltà", la democrazia occidentale e il comunismo con aspetti che talora sfioravano il dubbio della fine della specie umana.

 

 

Gli alieni al tempo del comunismo

In tempi caratterizzati da timori di invasione e di olocausto nucleare questi film di fantascienza rappresentano bene gli stati d’animo della gente. Negli anni 50 la paura del comunismo era forte, con un pericolo tangibile che poteva arrivare da qualsiasi direzione, dalle persone che più ci erano vicine e da cui nessuno si sarebbe atteso una minaccia. È curioso che nei film di fantascienza di maggior successo di quegli anni gli alieni vengono rappresentati spesso con proprietà vegetali, per accentuare ancora di più le caratteristiche di orrore e di minaccia, che può arrivare anche dagli esseri più inoffensivi. Cito a questo proposito "La cosa dall’altro mondo" come esempio di un invasore vegetale che minaccia prima una base artica e successivamente tutto il mondo. Classico degli anni '50, in cui una creatura dello spazio, soprannominata in Italia "carotone", viene rinvenuta a bordo di un disco volante precipitato nei ghiacci circostanti una base militare. Dietro il nomignolo si nasconde un alieno estremamente "cattivo e coriaceo" Questo primo esempio di invasione avviene all’inizio del maccartismo, in un momento in cui "i cattivi" sono ancora facilmente identificabili, alieni cioè estranei in maniera chiara rispetto agli umani. Vi è una netta distinzione tra dentro e fuori, tra razza umana (democratica) e alieni vegetali ( comunisti). Le cose si complicano nel corso degli anni successivi con il senatore Mc Carthy che, scheggia impazzita nella politica americana ( non soltanto in senso metaforico: era un alcolizzato, paranoico e omosessuale), mette in guardia da tutti i possibili invasori comunisti e in particolare con una serie di processi pubblici invita a controllare chi ci sta vicino, che potrebbe dietro un apparente patina di indifferenza e democrazia, nascondere un animo da comunista. Scatena una campagna di stampa e di persecuzione giudiziaria, in cui ben pochi si salvano: tutti sono potenzialmente colpevoli. E qui entriamo a pieno diritto nel discorso paranoico, con un concetto di base: gli invasori sono ovunque e la persecuzione si estende e può colpire anche i nostri familiari.
Il meccanismo schizoparanoide fa piazza pulita dei sentimenti di ambivalenza che caratterizzano qualsiasi rapporto umano. In molti film di quegli anni, iniziano a comparire ragazzi, che scoprono che i loro genitori non sono più quelli di una volta, hanno un comportamento in parte assente e in parte aggressivo ( Gli invasori spaziali 1953): stiamo entrando a pieno titolo nel campo della psicopatologia e in particolare in quello della paranoia. L’esempio più evidente di questo nuovo assetto ideologico ( e psicopatologico) è il film di Don Siegel "l’invasione degli ultracorpi 1956". Nel paesino di Santa Mira in California si sarebbe verificata una misteriosa epidemia collettiva, tale da spersonalizzare completamente tutte le sue vittime, privandole dei sentimenti e tramutandole in freddi e asettici "simulacri". I "baccelloni" nella traduzione ironica italiana. Bennell, medico condotto, dapprima non crede alla psicosi, poi scopre che nel paese stanno proliferando strani baccelli in grado di "duplicare" perfettamente ogni essere umano durante il sonno, creando copie completamente carenti di emotività ed eliminando gli originali. Si tratta di una segreta invasione da parte di esseri extraterrestri, in grado di ambientarsi sul nostro pianeta grazie all’utilizzo di tali cloni. Miles il protagonista, raggiunge a stento un’autostrada, aggirandosi disperato tra le automobili e tentando di avvertire gli uomini del pericolo incombente. Arrestato, viene portato al cospetto del dottor Hill, psichiatra, che ascoltata la storia lo giudica pazzo.
La pellicola di Don Siegel è un capolavoro assoluto: antispettacolare, priva di effetti speciali, scarna nell’intreccio, ha però il potere di creare una magistrale tensione, una suspence di altissimo livello e un’atmosfera agghiacciante, perché sembra senza via di uscita. Gli alieni non sono più soltanto dei vegetali, ma sono i nostri vicini, o ancora peggio i nostri cari, privati dei sentimenti, succubi di un potere straniante e autoritario di cui non riusciamo a capire il significato. Il periodo di uscita del film era contemporaneo al maccartismo e negli anni successivi fu facile leggere metaforicamente la vicenda e mettere al posto dell’invasione degli extraterrestri il timore di una conquista dell’ideologia comunista, insediatasi nel cuore dell’America progressista, pronta a impadronirsi dell’anima liberale per stravolgerla con una concezione di vita, che toglieva progressivamente i sentimenti. Da notare che la produzione costrinse Siegel a modificare l’inizio e la fine del film, con un inizio psichiatrico e un consolatorio lieto fine e con una riabilitazione degli psichiatri, che nella versione originale erano un po’ ottusi e un po’ invasi dai baccelloni. In origine, la pellicola terminava con Miles fuori di sé sull’autostrada, inascoltato da tutti che indicava l’invasione incombente; ma tutto ciò sembrò eccessivo ai dirigenti dell’Allied Artists, che optarono per un finale più ottimistico. La scena in cui Miles, sfiorato dalla fila di automobili incuranti di lui, grida "You’re the next!" ("Tu sei il prossimo!") venne tagliata. La parte dello psichiatra furbo, che capiva la differenza tra marziani e paranoici, fu aggiunta in un secondo momento alla sceneggiatura del film, per smorzarlo e rendere meno inquietante la conclusione.

Gli spunti di riflessione sono molti: le prove della invasione costituite essenzialmente dalla mancanza di sentimenti, la generalizzazione della persecuzione, la tendenza da parte del sano perseguitato a convincere gli altri e in particolare lo psichiatra della verità delle sue convinzioni, la iniziale bizzarria della invasione e non ultima l’angoscia di una distruzione totale e non la semplice paura che accompagna tutta l’operazione di invasione. Su questo film sono state scritte innumerevoli analisi ed è stato utilizzato come esempio della sindrome di Capgras o "la illusion de sosies", una convinzione delirante dell’esistenza dei doppi di sé stessi o degli altri. Questa sindrome identificata nel 1923, è a mio pare una varietà, se così si può dire, della paranoia in cui viene affrontato un problema apparentemente bizzarro, il doppio, che però rimanda a una lettura Kleiniana dei meccanismi di scissione degli aspetti cattivi del sé. Come conferma Gabbard se la sindrome di Capgras rappresenta una situazione estrema, il tema cinematografico del doppio, nei film dell’orrore, raggela perché tocca una esperienza normale nello sviluppo del bambino: l’ambivalenza con cui vengono visti i genitori a seconda di come soddisfano i bisogni e i desideri. La rappresentazione è ancora improntata a meccanismi di scissione con invasori esterni all’Io. Ma il cinema di fantascienza fa nuovi passi in avanti.

Un ulteriore approfondimento viene fatto con il film "Il pianeta proibito"altro classico film di fantascienza sempre del 1956, diretto da Fred McLeod Wilcox e prodotto dalla MGM. Il discorso mi sembra particolarmente interessante perché costituisce uno sviluppo coerente in termini psicodinamici delle storie precedenti. La storia è questa: L'incrociatore spaziale C-57-D è inviato in missione sul pianeta Altair IV, alla ricerca di eventuali sopravvissuti della precedente spedizione Bellerofonte, dispersa venti anni prima. All'arrivo la loro nave viene aggredita da una forza immensa di natura ignota ( chi l’avrebbe mai detto: l’inconscio). All'atterraggio vengono accolti dal robot Robby, che li conduce all'abitazione di Morbius, unico sopravissuto, il quale spiega come entro un anno dall'arrivo sul pianeta, tutti i membri della spedizione furono fatti scomparire durante la notte da una immensa creatura sconosciuta. Egli teme che possa accadere lo stesso ai nuovi arrivati. Non teme invece per sé e per la figlia, anche perché la loro abitazione è attrezzata con sofisticate tecnologie difensive. Il capitano (Leslie Nielsen), giustamente sospettoso, chiede di quali competenze tecniche disponga Morbius: scopre che era un linguista e Lacan avrebbe da molto da dire su questa coincidenza. Morbius dice di avere studiato e lavorato per tutti i venti anni alla ricostruzione della storia del pianeta e di aver scoperto alcune tecnologie dei Krell, la civiltà originaria, misteriosamente scomparsa una notte di duemila secoli prima: e siamo di nuovo nel campo dell’inconscio, riscoperto con una metafora linguistico/archeologica: Morbius ha infatti queste due funzioni. Il dispositivo inventato dai Krell è in grado di materializzare qualunque oggetto desiderato con il solo pensiero. Morbius materializza questa energia contro gli umani, quando il capitano si innamora di sua figlia.
Nella scena finale, l'equipaggio riesce finalmente a decollare dal pianeta, che esplode alle loro spalle. Ingegnosa rilettura fantascientifica della Tempesta di Shakespeare, il film è una delle tappe fondamentali dello sviluppo del genere, nel senso che i mostri non sono più alieni, ma provengono essenzialmente dalla nostra psiche.  Quindi siamo innanzi a un abbozzo di insight , dal momento che il mostro non è più una entità che proviene dall’esterno, non è più un extraterrestre, ma è una entità o meglio una materializzazione del desiderio o delle paura inconsce. È sicuramente uno sviluppo delle storie precedenti, a dimostrazione della ricchezza inventiva del cinema di fantascienza americano.

Lasciamo qui gli anni 50, rimandando al bel libro di Gabbard per un eventuale approfondimento dei rapporti tra fantascienza degli anni successivi e interpretazione psicoanalitica.

 

Gli alieni e le torri di guardia dopo l’11 settembre

La data che fa spartiacque nella recente rappresentazione degli alieni è l’11 settembre e la caduta delle torri gemelle per l’attacco dei terroristi islamici. Siamo nuovamente alla presenza delle tematiche che ho descritto nei film degli anni 50: lo scontro tra civiltà, la sopravvivenza della specie, l’angoscia di distruzione sociale. Ho scelto due film del regista americano di origine indiana, M. Night Shyamalan per illustrare le attuali elaborazioni paranoiche nel cinema di fantascienza. Il regista dovrebbe essere già noto agli psichiatri perché nel suo film di maggior successo (" Il sesto senso" 1999) aveva offerto, caso più unico che raro una seconda chance, a noi psichiatri, quando commettiamo gravi errori. Almeno una volta nella carriera professionale, con un atteggiamento duro e non comprensivo di fronte a pazienti sofferenti, provochiamo conseguenze drammatiche per loro e sensi di colpa per noi. Questo tema viene affrontato con partecipazione, mettendo in evidenza anche il dolore degli psichiatri. Speriamo che questo film, sia stato visto anche dalle associazioni dei familiari, che ci immaginano colpevoli, senza una partecipazione sofferta.

M. Night Shyamalan, per gli incassi favolosi a partire da budget limitati, è stato inizialmente enfant prodige holliwoodiano, apprezzato come un buon sceneggiatore, per l’uso sapiente di tempi lenti, di piani fissi e di una sorpresa finale, il "twist in the end" che getta nuova luce sulla storia precedente e tende a sconcertare lo spettatore. Non ostante questi pregi sempre più sofisticati, M. Night Shyamalan ha avuto successo altalenante al box office con un mezzo flop con il secondo "The umbreakable" e l’ultimo film "The village", che sono i più ambiziosi. La sua è una scrittura estremamente misurata, in cui l’horror nasce dentro meccanismi e circostanze ordinarie. È quanto di più distante ci possa essere rispetto ai film di Spielberg e Lucas, i "maestri" della attuale fantascienza, padroni del virtuale e della digitalizzazione post moderna, che rende sofisticati a dismisura gli effetti speciali e contemporaneamente trasforma sempre più in maniera elementare la storia. Il percorso di Shyamalan è opposto, tutto basato sulla scrittura della sceneggiatura e su un uso sapiente, ma non artificioso, della macchina da presa; in questa maniera restituisce valore al cinema. I suoi autori di riferimento sono Hitchcock e Romero ( La notte dei morti viventi), per l’ambientazione limitata a una casa in cui si dipana in maniera claustrofobia la catastrofe che proviene dal mondo esterno. Fa inoltre un uso minimale della tecnologia, evita di ricorrerete a oggetti da taglio e sangue per spaventare gli spettatori. La paura ha un tragitto di crescita costante a partire da piccoli particolari, che rompono la quotidianità e i riti dei protagonisti.

Il regista è nato in un villaggio indiano, figlio di due medici, è emigrato da bambino con la famiglia a Filadelfia, dove ha frequentato una rigida scuola cattolica. Ha una sensibilità spiccata per i sentimenti dei bambini e degli adolescenti, in particolare se obbligati a subire lutti. In tutti i suoi film il lutto, la perdita è tema centrale, rappresentata da attori che esprimono costantemente la sofferenza. I film hanno una schema comune: per buona parte della storia lo spettatore è sospeso in una condizione di indecidibilità sulla anormalità e incomprensibilità di quanto sta succedendo davanti a lui. Le possibilità sono due: la spiegazione è razionale per quanto improbabile (The village) oppure effetto di una causa sovrannaturale e scientificamente inverificabile( Signs).

Incominciamo dalle cause sovrannaturali, per definizione stravaganti, per accostarci in maniera critica a quello che è considerato un caposaldo psicopatologico della paranoia: la non bizzarria del delirio.

Utilizzerò un film, Signs, in cui ci sono gli alieni rappresentati come omini verdi. Una parola per spiegare il motivo della mia scelta. Nella scena che presenterò, la fa da padrone un walkie talkie, i cui rumori sono la prova della presenza degli invasori. Un mio paziente, continuava a registrare le telefonate che gli giungevano, a riprova di una persecuzione di cui era oggetto da parte dei vicini e di tutto il paese in cui abitava. Mi faceva ascoltare queste telefonate, con un grado di convinzione pari a quello del film. L’unica voce comprensibile era la mia che lo convocavo a un appuntamento, ma lui continuava con più registratori a intercettare voci aliene. Ogni colloquio con lui era caratterizzato dalla presenza del registratore con le voci, che lui identificava con i suoi persecutori e a me sembrava un rumore di fondo senza alcun connotato di comprensibilità. La analogia con il film mi hanno colpito.

La storia di Signs è semplice: una famiglia di quattro persone, che vive in una fattoria, scopre la presenza di segni nei campi di mais. Poco per volta si affaccia l’ipotesi che possano indicare la probabile e imminente invasione da parte di alieni. Su questi segni inizialmente domina l’ironia e lo scetticismo, ma in un crescendo di angoscia, in cui viene coinvolta la televisione e la radio, l’invasione avviene sul serio. O meglio vediamo gli alieni in televisione come prova di realtà. Tutta la storia si svolge nella fattoria del pastore protestante in un ambiente vieppiù chiuso e angosciante. I protagonisti ( padre, zio e due figli) hanno perso la madre, la cui morte costituisce l’elemento di lutto destrutturante. La morte della moglie ha lasciato il pastore senza fede, il figlio con una grave asma e la figlia con una fobia dell’acqua.

Voglio descrivere due scene che a mio parere sono importanti per le considerazioni sulla psicopatologia della paranoia. I segni sono già comparsi nei campi di tutto il mondo, ma a noi interessa la fattoria del pastore Graham Hess ( Mel Gibson) che è scettico sulle considerazioni del figlio piccolo, Morgan, il personaggio più importante, razionale e al tempo stesso estremamente sofferente. Nella scena in questione ( scena 8 min. 30 — 35) il bambino interpreta i rumori che arrivano dal baby monitor come una comunicazione tra gli alieni: " è un codice" ( termine importante per i paranoici).

Lo zio, ex giocatore di baseball, bravo unicamente a battere e incapace a difendere e per questo fallito, gli spiega con considerazioni, che sono poi quelle che ciascuno di noi userebbe, magari in maniera lievemente più tecnica.

" Dietro questi cerchi ci sono spostati, che non hanno mai avuto una ragazza, trentenni alienati , che si inventano codici, analizzano le società segrete e attirano altri spostati che non hanno mai avuto una ragazza, gli spostati questo vogliono…"

La prima persona che crede a Morgan è la sorella Bo, che fa da sponda alla sofferenza del fratello e poco per volta in maniera progressiva anche il padre e lo zio vengono coinvolti nei codici e nel rumore indecifrabile del baby monitor. La conclusione finale è sempre di Morgan che con sicurezza afferma " sono in due che parlano" in contrasto con un suono indecifrabile del baby monitor, come erano indecifrabili i rumori del registratore del mio paziente.

L’altra scena fondamentale è verso il finale, con l’invasione che è stata contrastata dagli uomini, in un altrove rispetto alla fattoria dei nostri protagonisti, sempre dominata dalla paura. Non tutti gli alieni sono partiti verso il loro pianeta; uno è rimasto nei pressi della fattoria dei Graham, ferito e aggressivo e si impadronisce di Morgan, il bambino che è nuovamente il deus ex machina della situazione ( scena 20 min 1.32 — 1.40). Il pastore Graham in uno stato simile al trance o forse allo stato d’animo predelirante ( la moglie in punto di morte lo aveva invitato a vedere) incomincia a ricordare e recuperare tutte le affermazioni della moglie morente, che nel contesto dell’aggressione dell’alieno acquistano un nuovo senso e salvano tutti i componenti della famiglia. I vari punti deboli di Bo, di Morgan e di Merrill diventano i motivi della liberazione di ciascuno.

Il momento del riscatto e della rivolta è preceduto da una frase fondamentale:

"non è solo il caso …non può essere solo il caso… è possibile che le coincidenze non esistano?"

Le coincidenze infatti non esistono e il collegamento tra varie debolezze e malattie da un senso a una vicenda carica di dolore e angoscia e con la soppressione dell’alieno il lutto viene superato.

Il secondo film di cui volevo parlare è The Village, la produzione più recente di M. Night Shyamalan. È stato un film che a differenza dei precedenti non ha avuto il successo sperato, a causa di una non definizione promozionale: è stato infatti presentato come un film di horror, ma i ragazzi moderni si aspettano sangue e mostri dotati di motoseghe o artigli di acciaio e Shyamalan è un regista che allude piuttosto che mostrare.

Ne faccio un breve riassunto: il "villaggio" è una comunità agricola in un epoca indefinita, che comunque il regista ha voluto collocare prima della industrializzazione: "il momento immediatamente prima della nascita dell’individualismo egoistico". Piccole famiglie vivono in una bellissima valle circondata da boschi, dove è pericoloso avventurarsi per la presenza di "quelli che non nominiamo". Conducono una vita basata sul lavoro agricolo, senza uso del denaro e con una mutua assistenza. La comunità è delimitata da un recinto con torri di guardia che tengono sotto controllo il mondo di fuori. Le creature minacciose non sono ben definite se uomini, animali o mostri; la loro minaccia ha indotto gli anziani a redigere un codice comportamentale che ha valore di legge. Il giovane Lucius incomincia ad opporsi a queste regole in nome della sete di conoscenza. Quando la voglia di uscire dal villaggio diventa troppo forte arrivano messaggi molto precisi da parte delle creature innominabili, che provocano panico e impongono a tutti la permanenza forzata, impedendo di avventurarsi nel bosco. Gli anziani sembrano rassegnati e tristi di fronte a questa situazione. La vicenda però precipita e non sarà il desiderio di nuovi mondi, il motivo che spingerà la giovane cieca Ivy ad uscire dal villaggio, ma l’amore. Il padre di Ivy crede infatti che l’amore e la speranza rendano la figlia invincibile e inarrestabile; le imprese audaci si fanno con il cuore e non con la vista (la conoscenza). Sa anche però che Ivy è cieca e quindi ha dei limiti nella comprensione del mondo. Ivy riesce a uscire dal villaggio e il suo amore salva il suo ragazzo Lucius, animato invece dalla sete di sapere cosa c’è al di la del villaggio. Nei minuti finali verrà svelata la motivazione e la natura del villaggio, ma tutto resta immutato.

Questi criteri sono presenti nell’organizzazione del villaggio e queste sono le leggi ribadite nei trailer:

  • Non andare oltre il bosco, li vivono le creature innominabili
  • Non indossare il colore del male ( rosso) che attira le creature
  • Al suono della campana tutti in riparo
  • Rispetta i divieti e non varcare il confine

Sembrano le convinzioni elementari di un delirante. Le allucinazioni nel villaggio sono rare: le creature sono talora intraviste, ma la loro visione è del tutto secondaria alla storia. Il villaggio funziona bene, anzi da un senso alla quotidianità degli abitanti che vedono concretamente il frutto del loro lavoro e hanno riscoperto sentimenti differenti dalla competitività.

È chiara la organizzazione delirante del villaggio ( scena 3 min 5.50 — 7) con il pericolo imminente di creature innominabili, che sembrano vivere in uno stato di pseudo quiescenza con un patto di non belligeranza, finché il desiderio di conoscenza di un giovane non le risveglia. Per difendere le persone da questa minaccia nel villaggio è stata costruita una palizzata dominata da torri di guardia e illuminata da fuochi, che proteggono e nelle stesso tempo ricordano la presenza del pericolo. La presenza delle torri è un ricordo delle twin tower. In fondo le torri di guardia sono moniti e conferme della realtà e della immodificabilità della presenza degli altri. Dividono il dentro e il fuori e ci ricordano questa divisione e scissione. Sono un meccanismo protettivo, una difesa per usare un termine psicanalitico, di fronte a un fuori, l’oggetto esterno, fonte di disgregazione. Resta poi da chiarire, se il pericolo provenga dall’interno, come nostra proiezione o sia effettivamente situato, almeno parzialmente all’esterno. Il film descrive la prima eventualità ( scena 22 min 1.26 — 1.30).

Alla base di tutto c’è quindi un lutto, che ha colpito i padri fondatori della comunità. Alla fine del film vengono descritti le motivazioni degli fondatori del villaggio, vittime nei loro cari della violenza metropolitana.

Occorre fare alcune precisazioni storiche. Shyamalan ha voluto ambientare la sua storia in un periodo preindustriale alla fine dell’ottocento, in un contesto storico che si può definire moderno. Cosa significa moderno? I valori dominanti sono ancora la fiducia nel progresso, nel lavoro e nella famiglia."L’innocenza esisteva ancora e i sentimenti si esprimevano sinceramente ma l’innocenza va di pari passo con il non sapere" Sono ancora fondamentali alcune caratteristiche che verranno spazzate vie dal mondo post moderno e che vengono riattivate dall’invasione dell’11 settembre. Se uniamo la violenza metropolitana con il terrorismo arabo avremo una miscela che mette in crisi una struttura del sé coeso. Shyamalan ha scelto come protagonisti del film persone di una levatura sociale medio alta ( con protezioni governative) a significare che la paranoia può colpire chiunque e la cultura non è una torre di guardia sufficiente e questo i politici lo hanno capito.

Qui è in gioco una scelta che rimanda a una organizzazione sociale e del lavoro "moderna" cioè che rifiuta alcune caratteristiche del post moderno: la frammentarietà, la superficialità, la tonalità affettiva euforica, la cancellazione della storia …

Perché affronto questa caratteristica di cambiamento culturale e sociale? Mi sono chiesto di fronte a un mondo così complesso o meglio così sfuggente quale può essere la reazione di un soggetto che ha un sistema cognitivo non flessibile come quello dei paranoici? Ci ritornerò.

Ma la fantascienza può aiutare la psicopatologia

Inizierò le considerazioni psicopatologiche citando un recente articolo di Romolo Rossi "…la psichiatria nel momento in cui approfondisce, non può perdere la dimensione del narratore, senza la quale molte cose sfuggono."

A maggior ragione la dimensione narrativa è importante nella paranoia, perché i pochi ( ricordiamoci la difficoltà di avere una casistica) nostri pazienti hanno una storia interna narrabile e partono spesso da un nucleo interno- oggettuale identificabile, con caratteristiche di causalità, che cercherò di analizzare.

Quale è la definizione del DSM IV riguardo la paranoia: deliri non bizzarri, allucinazioni non preminenti e funzionamento della personalità relativamente conservato. L’enfasi è posta sulla non bizzarria del delirio, che deve riguardare fenomeni, benché non veri, comunque fattibili e che debbono permettere un discreto funzionamento sociale. È stato abbandonato il termine paranoia, sostituito da delirante, per evitare confusione ( ?). In inglese comunque il termine delusion, significa delirio, ma anche allucinazione, per cui i problemi di confusione non mi sembrano superati Ci aiuta questa definizione ? . La semplificazione del DSM IV non focalizza del tutto le caratteristiche della paranoia. Quali possono essere allora le altre chiavi di lettura.

La psicanalisi inizialmente aveva individuato con Freud alcuni nodi psicopatologici nella paranoia: il meccanismo della proiezione, le problematiche libidiche omosessuali e il narcisismo. Le critiche a Freud vertono sull’eccessivo peso attribuito all’omosessualità e alla sottovalutazione della aggressività Gli studiosi successivi ( Klein, Winnicott, Erikson, Heimann, Cameron, Shapiro, Kernberg …) evidenziarono alcuni punti che caratterizzavano la paranoia: un trauma preedipico severo, la mancanza di sicurezza basale, un processo separazione individuazione abortito, la persistenza di un severo splitting oggettuale con relativi meccanismi di negazione e identificazione proiettiva, una sindrome da diffusione di identità e infine uno stile cognitivo rigido, ristretto e ipervigilante che corrompe le funzioni dell’Io.

La psicanalisi ha puntualizzato alcune caratteristiche sia strutturali che di ipotesi causale, che sono interessanti e più vicine alla psicopatologia della paranoia, anche se peccano di genericità.

Iniziamo dalla critica del concetto di bizzarria. È bizzarro vedere gli alieni come nel film Signs? Si a prima vista e no se si approfondisce la ricerca e se si va a cercare su Internet i siti che si occupano di avvistamenti e di civiltà aliene. Si scopre un fenomeno diffusissimo. Il problema è altro e nel film viene descritto bene nella scena che ho mostrato. Quello che caratterizza il delirio paranoico non è tanto il contenuto del discorso, ma dalla forza del proselitismo che caratterizza chi è coinvolto nel delirio. Il bambino Morgan riesce a esprimere bene questa forza e questa convinzione, come lo faceva il mio paziente del registratore e come un altro paziente che dimostrava con una quantità impressionante di documenti, che a partire dalle assicurazioni, al sistema bancario, al terrorismo arabo, all’11 settembre, tutto si era concatenato in maniera causale per distruggerlo. Nel film Morgan riesce a convincere i familiari in maniera relativamente facile. Nella patologia il paranoico ci mette più fatica, ma spesso riesce a fare leva su parti dell’Io dell’interlocutore che si sintonizzano con il suo delirio per cui riesce a fare opera di adesione. Questa ricerca di contatto interpersonale, oggettuale che ho chiamato proselitismo, differenzia nettamente la paranoia dalla schizofrenia, in cui non c’è una ricerca di sintonia con l’altro, ma un distacco e una sostanziale privatezza delle convinzioni interiori.

Ma perché il paranoico fa così? Blum introduce il concetto di incostanza di oggetto cioè una relazione non costante e stabile verso il mondo esterno che di conseguenza viene vissuto come incoerente, ma contemporaneamente necessario. È quindi inevitabile avere un interlocutore, amato se mi crede e viene dalla mia parte, nemico odiato se mette in dubbio quello che io penso. La persecuzione è una ricerca di coerenza. La minaccia di persecuzione e una paura costante di tradimento servono a preservare una illusoria costanza oggettuale, di fronte alla minaccia ben più disgregante di perdita di una integrazione del sé. Cosa sarebbero i nostri pazienti senza la persecuzione giudiziaria che non si rende conto dei segni lasciati dai vicini o senza le mille cause, non ultima la maledetta crisi dell’economia mondiale, che ha fatto saltare il lavoro? E tornando a Signs cosa sarebbe la famiglia del pastore Hess senza gli alieni: ci sarebbero un uomo religioso distrutto che non ha fede, un figlio asmatico, una bambina con la fobia dell’acqua, un fratello fallito. Io penso che la caratteristica dei paranoici di vedere nessi causali ovunque, di non credere alla casualità e di riempire i vuoti di significato con interpretazioni metafisiche, dipenda dalla ricerca di una costanza oggettuale nel senso logico e relazionale, a partire da una frammentazione interiore che si scontra con la discontinuità della vita. Questa caratteristica è più evidente in questi momenti storici, proprio perché da anni il mondo post moderno è più minaccioso e discontinuo senza chiari riferimenti psicologici e sociali: la cosiddetta mancanza di valori, che è poi la mancanza di punti di repere culturali stabili. Forse per questo la paranoia o meglio la modalità paranoica di intender la realtà è cosi diffusa.

Il secondo punto su cui voglio riflettere riguarda il narcisismo: Freud sottolinea la relazione tra paranoia e narcisismo e ideale dell’Io. Siamo davanti a un crollo del sé o un narcisismo patologico? L’ideale dell’Io alla base del narcisismo primitivo si sviluppa nel bambino che si dice "Io sono grande" fino allo stadio adulto del possedere grandi ideali. Non riuscire a sviluppare i grandi ideali sviluppa un sentimento di perdita irreparabile e può iniziare un processo paranoide. Kohut sottolinea che questo processo non è mai lineare per cui vi è una evoluzione dal narcisismo all’amore oggettuale, ma anche dal narcisismo patologico al narcisismo sano. Freud aveva sottovalutato le conseguenze delle perdite reali e il problema dell’aggressività come motore della paranoia, sottolineando unicamente le componenti libidiche omosessuali alla base delle problemi sociali. Nel film "The village" i due aspetti vengono ripresi: tutti i padri fondatori del villaggio sono reduci da gravi lutti provocati dalla aggressività. Nella costruzione del villaggio alternativo, il primo obbiettivo sembra essere non il superamento, ma la negazione della aggressività. Il film è anche geniale sotto questo profilo perché l’aggressività negata ritorna sotto forma di un omicidio, particolarmente cruento, compiuto dalla persona più semplice del villaggio, che probabilmente per questa semplicità è esente dalla complessità del discorso delirante. Guardando invece i pazienti, si scopre a mio parere, sia l’importanza delle perdite reali, in particolare di quelle di ruolo sociale, sia una apparente negazione della aggressività che ritorna in maniera proiettata, negata con la carica di una rabbia vendicativa. Emerge anche la problematica dell’ideale dell’io che si percepisce da quello che i pazienti vorrebbero essere non ci fosse stato il lutto a impedire la loro grandezza, nel bene e nel male: il ricco brocker e il potente satana e il bravissimo figlio: in ogni caso il più grande. In conclusione il regno del narcisismo e delle funzioni a lui associate come il sé, l’Io ideale, l’immagine di sé, la grandiosità, il senso di efficacia ( e onnipotenza) sono l’arena psichica su cui si gioca il fenomeno della paranoia. Tutti i paranoici hanno nella loro storia infantile una cassetta dei segreti come quella aperta da William Hurt nel film "The village". Probabilmente è la vergogna a impedire l’accesso al contenuto dando luogo a quelli che Ballerini definisce come "i vissuti estremi del narcisismo ferito". Questa considerazione ha conseguenze terapeutiche non indifferenti; non bisogna costringere il paranoico a esami di realtà, prima di averlo aiutato a ristabilire le risorse interiori e la sua immagine di sé. La paranoia è forte: il film "The village" si conclude con una vittoria della ideologia del villaggio e con un rinforzo delle torri di guardia, a scapito della conoscenza. La protagonista femminile è una ragazza cieca, coraggiosa, che va fuori del villaggio per salvare il suo fidanzata ferito. Dopo essere stata nel mondo di fuori, porta al suo ragazzo le medicine per guarirlo, ma non vede niente della realtà contemporanea. È un invito a ricordare che forse i paranoici possono accettare le cure, ma non di vedere il crollo della loro immagine e degli ideali onnipotenti in cui hanno creduto.

Conclusione

Spero di aver fornito spunti di riflessione sulla paranoia, partendo dalla analisi di due film di fantascienza, dello stesso regista Manoy Night Shymalan. Ho cercato di fare una analisi del testo dei film senza forzare la mano con interpretazioni che potevano coinvolgere il non detto. Nella trama ho trovato spunti interessanti per comprendere la paranoia. Inoltre si percepisce una evoluzione che percorre i film, quasi un processo di presa di coscienza, che parte da una visione più elementare del rapporto tra angoscia psicotica e il mondo. Man mano che diminuisce la pressione ambientale, i meccanismi della paranoia si allentino e nei film sia possibile una interpretazione psicodinamica. Un altra riflessione deve essere fatta sulla diffusione dei meccanismi paranoici. La distinzione tra malattia e meccanismo di difesa diventa meno netta e deve essere ricercata nel grado di pervasività dell’interpretazione delirante, strettamente collegato con l’angoscia sottostante. Nella paranoia il delirio coincide con la visione del mondo e lascia poco spazio ad altri contenuti.

I punti salienti sotto il profilo psicopatologico mi sembrano due. La strutturazione cognitiva del paranoico non flessibile, messa in crisi in particolare quando la realtà esterna diventa più complessa e cangiante. Il delirio diventa una ricerca di stabilità e coerenza in un mondo che non ha queste caratteristiche. La monotematicità del discorso paranoico e la fermezza delle loro convinzioni ha la funzione positiva di stabilizzare un sé in grave difficoltà. Il secondo punto riguarda il narcisismo patologico e il crollo del sé a causa o in concomitanza a lutti e perdite. Non ho opinioni certe su questo punto e anche i film che ho citato sono per una risposta aperta.

Spero di aver conservato una certa coerenza nel discorso, senza cadere in una specie di onnipotenza e soggettività mentale. Spero cioè di non aver utilizzato lo stesso meccanismo dei paranoici. Sono d’accordo con Jervis , quando mette in guardia con la ricerca di un messaggio cifrato nel testo,che conduce a un relativismo ermeneutica, anche questo parte del discorso paranoico. Ma del resto ho confessato che non sono in accordo con una impostazione neopositivista della psichiatria e quindi l’uso dei film mi sembrava un rischio accettabile. Spero che chi legge questo mio testo, sia tentato dalla visione dei film citati, ricordandosi che non basta una sola lettura, ma ci vogliono più visioni.

Un’ultima considerazione riguarda l’allargamento del mio discorso al problema dell’interpretazione, in particolare nella psicoanalisi. Mi sono sentito sollecitato dalla paranoia a riflettere su quanto diciamo ai pazienti, spesso anche noi certi di aver capito i nessi della loro storia psichica. Bisogna ripensare a quanto diciamo e ricordare che anche noi spesso possiamo essere bizzarri e un eccesso di soggettività ci può portare vicino alla paranoia.

Questo articolo nasce da un intervento al convegno indetto dai giovani Psichiatri del Piemonte sulla paranoia, tenutosi a Pinerolo il 10 06 2005.

La numerazione delle scene dei film proviene dai DVD della Touchstone.

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