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M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 308, Euro 20 di Luca Maria Possati

"Io, gli autori che amo, li utilizzo". Così, a chi gli chiedeva quale fosse il suo rapporto con Nietzsche, aveva risposto Michel Foucault nel corso di un’intervista del 1975. Il solo segno di riconoscenza che si possa testimoniare a un autore — diceva il filosofo di Poitiers — è utilizzarlo, metterlo alla prova, renderlo uno strumento del proprio appetitus philosophandi, deformarlo, "farlo stridere". La fedeltà non c’entra.

Ma la realtà delle cose è un’altra. A dispetto di Foucault, pare quasi il destino d’ogni autore quello d’essere fossilizzato, oggettivato, spartito tra diversi gruppi di interpreti, pronti a creare e a sposare nuove ortodossie, formule da ripetere sotto forma di slogan da proclamare in continuazione, da svendere sulle piazze accademiche più accreditate. Il pensiero scompare, restano gli oggetti. Tornare al pensiero, alla vivacità dell’idea, questo è il compito vitale del filosofo. "Io sogno — diceva Foucault a Henri Lévy nel 1977 — l’intellettuale distruttore delle evidenze e delle universalità, colui che individua e indica nelle inerzie e nelle costrizioni del presente i punti di debolezza, le aperture, le linee di forza, colui che, senza tregua, si sposta, senza che si sappia di preciso dove sarà né cosa penserà domani, perché è troppo attento al presente" (p. 41).

In quest’ottica, il pregio del volume collettivo curato da Mario Galzigna — Foucault, oggi (Milano, Feltrinelli, 2008, p. 308) — sta nello sforzo di aprire una strada diversa nella sterminata letteratura foucaultiana. Una strada che vuole sfruttare il potenziale messo a disposizione da Foucault — la sua opera, quel che egli stesso amava definire una "cassetta degli attrezzi" — per capire il mondo attuale, con le sue lacerazioni e i suoi drammi. La società globalizzata, il nuovo "Leviatano". Una macchina analitica per un’"ontologia di noi stessi".

Ma che cos’è, nella sua materialità, l’opera di Foucault? Corsi, libri, "linee di articolazione" espresse nei Dits et écrits. Un materiale eterogeneo, difficile, che chiede una lettura attenta e critica, consapevole delle difficoltà di un sapere che si costruisce attraverso continui spostamenti, passi avanti e passi indietro, promesse non mantenute, ri-problematizzazioni. Non si tratta allora — e arriviamo così al taglio fondamentale del volume — di fare un commentario, di proporre un’altra interpretazione, un’esegesi, ma di creare, come scrive Galzigna nell’Introduzione, "un libro mobile, plurale" (p. 7), che vuole correre un rischio, uscire da sé e collocarsi nella radicalità di questo pensiero e del suo intrinseco militantismo.

Diagnosticare il presente di una cultura è il grande compito dei filosofi. Adempierlo significa aprire lo spazio del pensiero genealogico, pensiero dei limiti e del loro superamento, pensiero — in ultimo luogo — del soggetto e dei suoi processi di costituzione, in quanto prodotto dei dispositivi del sapere e del potere. Come mettono in rilievo i saggi di Mario Galzigna, "La disciplina e la cura", e di Remo Bodei, "Il dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale", il soggetto foucaultiano non è costituente ma costituito, lontano tanto dagli ego della fenomenologia e dai Dasein dell’esistenzialismo, quanto dai motivi kantiani all’opera negli scritti di Lévi Strauss — un "kantismo senza soggetto trascendentale", diceva Ricoeur — e in tutto il cosiddetto strutturalismo. Con Foucault — per dirla in breve — assistiamo al passaggio dal soggetto alle pratiche della soggettivazione, quelle pratiche che storicamente hanno costruito l’ego trascendentale teorizzato da Kant, da Husserl, il cogito di Descartes così come la nostra fede in esso. Fin dall’inizio — nella sua tesi sull’antropologia kantiana — Foucault apre una crisi nell’idea di trascendentale in chiave antiheideggeriana. Mettere a fuoco quella specifica commistione tra empirico e trascendentale che egli vede all’opera nel testo kantiano significa avviare una dissoluzione della soggettività costituente imposta dalla nostra cultura e aprire le porte ad esperienze diverse, come quella del buddismo zen.

Sul piano strettamente filosofico — che però non è il solo sul quale si muove il volume — la "critica della questione antropologica" resta un punto fondamentale nel lungo itinerario di Foucault, una chiave di accesso feconda a molte sue tematiche. Ad essere in ballo è il senso dell’imperativo "conosci te stesso". Foucault ci vede il desiderio di produrre soggettività, contrassegno dell’imperialismo dell’uomo occidentale. Ma la verità è sempre rischiosa: è sempre una sfida al potere, all’autorità della tradizione, un rifiuto delle menzogne ufficiali. Verità è parrhesia: sovvertimento di sé, de-prensione, se dé-prendre de soi, ma al contempo è il coraggio di un modificarsi, di un auto-sovvertirsi. L’ultimo Foucault elabora questa lunga meditazione sulla verità a contatto con i modelli proposti dalla filosofia antica, "che tende a trasformarsi piuttosto che a formare — spiega Remo Bodei nel saggio dedicato alla genealogia del soggetto occidentale — a mutare la direzione dell’anima piuttosto che ad aumentare la conoscenza, a cambiare la vita" (p. 127).

Il problema è che nella storia del pensiero occidentale questa scelta del bios filosofico come terapia dell’anima, modificazione di sé, è scomparso poco per volta con il cristianesimo prima e il cartesianesimo poi. Mosso da questa convinzione Foucault opera una vera azione genealogica, in perfetto stile nietzscheano: la conoscenza oggettiva ha poco per volta superato e cancellato la spiritualità. Nell’Ottocento, tuttavia, il bisogno di spiritualità rinasce, con Hegel, Nietzsche, Schelling, Schopenhauer, lo Husserl della Krisis, Heidegger, fino a Lacan: "Ci si accorge, infatti, che il sapere non basta, se staccato dalla vita o dalle sue manifestazioni concrete nella storia" (p. 130). Il progetto anticartesiano contemporaneo — scrive Bodei — "consiste nel rinunciare a concepire se stessi come una res cogitans autocentrata, un sole psichico attorno al quale ruota il mondo, nel cogliere se stessi - alla maniera di Valéry - come qualcosa che si costruisce mentre sfugge, che si situa paradossalmente solo attraverso la dislocazione in un altro luogo e in un altro luogo e in un altro tempo, che plasma la sua identità in una lotta incessante con la propria alterità" (p. 131).

Come sottolinea giustamente Mario Vegetti nel saggio "L’ermeneutica del soggetto. Foucault, gli antichi e noi", a partire dal 1980 è avvenuta una volta radicale nella ricerca di Foucault, con i due corsi al Collège de France sul pensiero antico, poi culminata con la pubblicazione nel 1984 dei due volumi della Storia della sessualità. Foucault — scrive Vegetti — "passava qui dallo studio dei dispositivi di assoggettamento e di soggettivazione messi in opera dal potere e dal sapere all’etica delle pratiche di autoliberazione del soggetto (che fino ad allora aveva concepito solo come il "prodotto passivo delle tecniche di dominazione")" (p. 150). Insomma, "costruendo" l’antico, più che scoprendolo, Foucault pone seriamente quale filo conduttore della propria ricerca il tema della cura di sé, intesa come liberazione del sé, e opera un cambiamento profondo nella propria metodologia, pur mantenendo tutta la vocazione critica e politica del suo pensiero. Momento centrale in questo processo è l’interpretazione dello stoicismo romano e delle sue pratiche intellettuali — epistolari, scrittura di sé, autoesame, che Foucault contrappone alla pratica cristiana della confessione resa a superiore, a un’autorità che sovrasta. Proprio grazie a questa analisi avviene il passaggio dal binomio assoggettamento-soggettivazione (le forme della soggettività sono prodotti delle forme di dominio e di sapere che governano gli insiemi sociali) all’autocostruzione liberata dell’io senza storia e contro la dinamica politica dei saperi. Ma come si realizza? Foucault ha ben chiari i limiti dello stoicismo e critica aspramente il freudismo e il marxismo (altri due modelli di liberazione). Quale strada sceglie?

Un tale interrogativo motiva il saggio di Arnold I. Davidson sulla tradizione degli esercizi spirituali, il più esegetico di tutti quelli compresi nella raccolta. La liberazione politica passa attraverso il compito urgente di un’etica del sé. È forse il ritorno alla solitudine dell’ideale romantico dell’io ribelle? No. Il termine chiave per Foucault è resistenza perché — come afferma egli stesso nella Storia della sessualità — la possibilità della resistenza è costitutiva di qualsiasi relazione di potere. Viene a galla con sempre maggiore insistenza — mostra Davidson — il problema della volontà e degli esercizi spirituali, il compito — accennato poc’anzi — di reintegrare la spiritualità nella filosofia. Ma non si tratta di adeguarsi a valori trascendenti: "Foucault cercava una morale de l’inconfort, un’etica dell’inquietudine per rendere mobile l’immobilità" (p. 175). Davidson la definisce — seguendo in tal modo una traccia di ricerca aperta da Foucault — un’estetica dell’esistenza, che "strappa dei segni di esistenza dal loro sonno, dalle tenebre; essa è soprattutto una creazione, una creazione di se stessi. E come la vita di Socrate l’estetica dell’esistenza porta i lampi di possibili tempeste" (p. 176). Non una morale del dovere, ma un’etica della trasformazione, una tecnica del sé, "una tecnica di vita che comporta un nuovo atteggiamento verso noi stessi, un atteggiamento critico" (p. 176).

Ma, al di là dei nuclei di un discorso filosofico così complesso, la caratteristica centrale del volume curato da Galzigna sta nell’attenzione alle tematiche psicologiche, che hanno avuto un peso non piccolo per Foucault. E infatti, come giustamente sottolineano Vanna Berlincioni e Fausto Petrella nel saggio "Michel Foucault e lo psichiatra. Osservazioni sulle lezioni al Collège de France 1973-75", molti grandi filosofi del passato hanno sentito la necessità di confrontarsi con la follia o la malattia mentale "per rispondere alla sua provocazione intellettuale e affettiva, per distinguerla e distinguersi da essa, per tentare di collocarla e assegnarle un posto sistematico e, insomma, per pensarla" (p. 106). Tra di essi il maestro di Poitiers si distingue — fin dalla lettura giovanile di Binswanger, ricostruita da Elisabetta Basso nel saggio "Fenomenologia e genealogia" (pp. 252-277) — per aver rivolto a questi temi un’attenzione che non si ritrova mai altrove, né per qualità né per quantità. Il suo sguardo non è quello del terapeuta; non penetra nelle profondità dei territori della follia, ma guarda ai momenti di costituzione della figura del malato e del quadro che ha reso possibile un medico come lo psichiatra e l’ingranaggio ideologico-sociale al quale è sottoposto. È lo sguardo del filosofo che si fa discepolo, che non pretende d’imporre le sue categorie a un sistema di sapere già costituito, ma che si mette in ascolto: "Le operazioni della psichiatria gli servono per illuminare le matrici culturali e sociali che le rendono possibili, mettendo infine in gioco l’idea stessa di Ragione dominante" (p. 107). Per questo l’opera di Foucault può avere, ancora oggi, un significato importante e un’applicazione euristica non solo per il filosofo ma anche per lo psichiatra.

Il concetto di guarigione, intesa come ricostruzione della perduta corrispondenza tra io e mondo, tra mondo interno e mondo esterno, sta al centro delle lezioni foucaultiane intitolate Il potere psichiatrico e tenute al Collège de France nell’anno accademico 1973/74. Sono qui esplorate le modalità nelle quali si è ricomposta questa frattura nella storia della psichiatria, cercando di trattare, al di là del dato puramente storico, il complesso problema dei rapporti tra follia e verità o, meglio, tra la verità della follia e la verità di chi l’amministra. Lo psichiatra è "un fattore d’intensificazione del reale, l’agente di un sovrapotere del reale", scrive Foucault. Si può guarire il malato adeguando la realtà al delirio, tramite una procedura fondata sulla finzione, oppure imponendogli per gradi la realtà, "livelli di realtà capaci di falsificare, di smentire, di delegittimare i contenuti del suo delirio" (p. 48) da parte di uno psichiatra diventato "signore del reale", forte del potere disciplinare in manicomio. Nel corso della storia della psichiatria complicità e imposizioni "non sono state due tappe diverse di un unico processo evolutivo, succedutesi linearmente nel tempo: sono state invece due strategie curative utilizzate al di fuori di qualsiasi regolarità evolutiva e perciò entrambe presenti in epoche diverse oppure compresenti, a volte, in uno stesso autore, in uno stesso testo, in uno stesso periodo storico" (p. 52).

È proprio tenendo presente questa linea che, nel lungo saggio "La disciplina e la cura" (pp. 45-105), Mario Galzigna sviluppa una riflessione di taglio genealogico riguardante i metodi della psichiatria clinica a partire dallo studio di alcuni testi fondanti la prima alienistica (Pinel, Mason Cox, Haslam, Esquirol), cercando anche di considerare gli aspetti sottovalutati da Foucault. Di qui, l’analisi dell’"apparato di forza", la cornice basilare e la gerarchia medica: i metodi per reprimere la follia, per controllarla e sedarla, costituiscono la prima garanzia dell’autorità medica e dell’emergenza della verità come operazione psichiatrica.

Galzigna fa dialogare tesi e autori offrendo un approfondito spaccato dei problemi e dei dibattiti che hanno segnato la prima alienistica (la "protopsichiatria"), chiamando in causa anche testi minori e polarizzando il proprio interesse sul rapporto tra lavoro e disciplina nel contesto asilare in modo tale da rileggere alcune categorie centrali del lavoro psichiatrico. E questo perché, afferma Galzigna, "le categorie, dietro ogni loro fragile e provvisorio scheletro concettuale, grondano sangue, conflitti, lacerazioni, euforie, inabissamenti. Si tratta allora, come scriveva Marx nella Miseria della filosofia, di restituire le categorie alla loro "storia profana"" (p. 95). Tale la direzione verso cui ci spinge Foucault nel tentativo di un ripensamento storico-critico del sapere psichiatrico: cogliere lo spessore storico e antropologico dei concetti, della nosografia psichiatrica e dei campi del sapere; cogliere "la loro apertura verticale anche verso le dimensioni precategoriali e non discorsive della nostra presenza" (p. 96).

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