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PRESENTAZIONE: "PSICOTERAPIE NEI SERVIZI PUBBLICI" In questa nuova sezione dell'area "Psicoterapie", vogliamo raccogliere testimonianze, interviste, proposte di psichiatri, psicologi e psicoterapeuti che nei servizi pubblici fanno riferimento nella pratica clinica, a vari modelli di psicoterapia. Intendiamo proporre questo spazio come punto di riferimento per coloro che considerano la psicoterapia uno strumento cardine della cura psichiatrica: l'obiettivo è di stimolare un dibattito su quelle che sono attualmente le difficoltà che gli operatori incontrano nell'utilizzare la psicoterapia nei servizi. Siamo interessati in questa sede quindi non solo all'approfondimento e all'analisi del dibattito teorico, ma soprattutto a mettere in evidenza le esperienze psicoterapiche che a nostro avviso sono l'asse portante dell'organizzazione psichiatrica, dalla consultazione ambulatoriale alla comunità terapeutica. Questo specifico progetto è rivolto ad indagare un versante della pratica psichiatrica, nel quadro delle iniziative di riorganizzazione dell' "azienda sanità". Il nostro intento è quello di costituire - attraverso i contributi dei lettori/interlocutori di Psychiatry on-line dentro e fuori la rete - un vero e proprio "osservatorio" delle pratiche psicoterapeutiche presenti oggi nel servizio pubblico, con l'intenzione di affrontare tematiche attuali e concrete, relative a qualità e tipo di prestazioni psicoterapiche, gratuità e pagamento della psicoterapia, qualifica e posizione dei professionisti impegnati in questo settore, esplorando le situazioni reali del setting istituzionale. Accanto a questo filone specifico, verrà affrontato uno dei più significativi "effetti alone" della psicoterapia, la questione cioè dell'interpersonale in psichiatria. A nostro avviso in questi ultimi anni, la riorganizzazione aziendale delle ASL nel settore psichiatrico ha avuto effetti anche negativi. Gli psicoterapeuti che esercitano la loro professione nel servizio pubblico talvolta si sono trovati pressati dalla crescente egemonia della psichiatria neurobiologica, di rigida osservanza nordamericana, che ritiene lo psicofarmaco l'unico efficace rimedio per la malattia mentale. Questo approccio si giustifica sul piano pratico da un lato con la necessità di fare fronte a pratiche assistenziali crescenti dopo la chiusura dei manicomi (legge finanziaria 502/517 del 1996), e dall'altro con l'incremento di richieste burocratiche (statistiche, qualità dei servizi, accreditamento, quantificazione e tempi delle prestazioni) da parte della sanità aziendalizzata. Questi due elementi legati alla evoluzione istituzionale, unitamente alla crisi emergente dello statuto scientifico della psicoterapia, come ha messo in evidenza la crescente diffusione del "pensiero della complessità", ormai inclusa tra le scienze inesatte ('molli' o 'immature'), possono portare ad uno svilimento della identità professionale di molti psichiatri, psicologi e psicoterapeuti che a vario titolo sono impegnati da anni nei servizi pubblici, maturando preziose esperienze sul campo. Il processo di aziendalizzazione dovrà affrontare, nei prossimi anni, l'attuale contraddizione che si viene a creare in relazione alla rigida imposizione di tempi e metodi. È importante al riguardo la ricerca di una via d'uscita che eviti l'irrigidimento della contraddizione in un contrasto irriducibile per riportarlo sul terreno dialettico del conflitto creativo. In questa chiave il contributo della redazione di POL.it cercherà di sottolineare, in maniera anche radicale, i poli della contraddizione, in funzione del recupero della cultura processuale derivante dalle esperienze psicoterapeutiche. In primo luogo bisogna considerare il rischio che la trasformazione organizzativa spinga molta dell'utenza che chiedeva di poter avere gratuitamente (o almeno in forma convenzionata con il SSN) un trattamento psicoterapico o una consulenza psicologica, a doversi rivolgere alla psicoterapia privata, dimensione dalla quale però rimangono di fatto escluse fasce d'utenti che avrebbero diritto a fruire di tale servizio. Situazione difficile quindi per lo psicoterapeuta, che ha assunto per conto dell'istituzione il difficile compito della trasformazione e della cura. Come l'esperienza clinica insegna, la questione del cambiamento nella relazione terapeutica non può porsi semplicemente in termini di "efficace/non efficace", poiché il processo di cambiamento di un soggetto (o di gruppi) non può essere assimilato ad un modello di processualità lineare. Il cambiamento del soggetto, nel processo terapeutico può essere metaforizzato con un'immagine di spirale ascendente, che continuamente tende verso obiettivi in parte pre-definiti - la salute mentale - rifocalizzati durante il lavoro terapeutico, agendo su vissuti non conoscibili né definibili a priori. Inoltre il mancato avvio di un processo di "guarigione" non è per niente senza costi sociali: produce infatti (come gli epidemiologi sanno bene) una stabilizzazione e una cristallizzazione delle strutture psichiche che rinvia a quella tragica situazione senza uscita, nota in psichiatria come "cronicizzazione". Ma qual è a tutt'oggi il costo sociale della cronicizzazione dei pazienti psichiatrici seguiti nel 'territorio' (che spesso coincide con le mura domestiche), sedati e resi docili dagli psicofarmaci ma incapaci di riprendere qualsiasi forma di socializzazione? Gli epidemiologi ormai sanno che in termini inabilità sociale (indicata dal numero di giorni lavorativi perduti) ad esempio, la voce depressione è al quinto posto dopo varie altre patologie croniche, e la proiezione per i prossimi anni prevede una netta ascesa. La mancanza di risultati terapeutici in psichiatria non può quindi considerarsi a costo zero, in quanto potenzialmente iatrogena, sia per il paziente sia per i suoi familiari, risultando destabilizzante per il tessuto economico-sociale e in definitiva per l'intera comunità. Lo stesso dicasi per tutti quei pazienti che non trovando nel mondo della sanità pubblica la possibilità di un adeguato progetto di cura, passano da un terapeuta all'altro, da un farmaco ad una psicoterapia privata, dall'auto-aiuto all'adesione a sette mistiche, da un servizio ad una clinica privata, fossilizzando sempre più la possibilità di guarigione effettiva. D'altra parte il progetto che definisce dal punto di vista storico la psichiatria come disciplina scientifica moderna, si costituisce proprio dal tentativo di portare il modello medico-sperimentale nell'area della patologia mentale, definendo "la malattia mentale come malattia del cervello" (Griesinger, 1854). Questo percorso è costellato da delusioni dovute soprattutto alla difficoltà di identificare una psicopatologia su fondamenti etiopatogenetici certi e codificabili, che sia aggredibile nelle sue cause ultime tramite l'intervento terapeutico. Una prova del fallimento del progetto originario è nella struttura semplicemente descrittiva dei vari repertori dei DSM nordamericani, che individuano nel "Disturbo mentale" l'asse portante di molte sindromi psicopatologiche, rimandando l'etiologia alla complessa multifattorialità che chiama in causa le componenti biologiche, psicologiche e sociali dell'individuo. Segnali che qualcosa non funzioni nel puro paradigma neurobiologico della malattia mentale, stanno arrivando anche da oltreoceano. Lieberman J.A. e A.J. Rush, (Ridefinire il ruolo della psichiatria in medicina, Am. J. Psych 1996), J.H.Shore (La psichiatria ad un bivio, Am. J. Psych, 1996), lanciano un grido d'allarme, segnalando che la psichiatria appare oggi come una disciplina destinata inesorabilmente al "dissanguamento e all'estinzione", poiché sottoposta all'assalto da parte d'altre figure professionali "competenti e competitive" (medici di base, psicologi, socioterapisti, sociologi e persino filosofi). Questa crisi che attraversa la psichiatria sollecita posizioni diverse. Una soluzione drastica che alcuni prospettano (Detre e Mcdonald) è assolutamente radicale poiché propongono senza mezzi termini che la psichiatria dovrebbe naturalmente rientrare nell'alveo della neurologia, assumendo - per ciò che riguarda lo studio del comportamento umano - i principi di una "neurologia comportamentale": lo psichiatria diventerebbe di fatto uno specialista in "neuroscienza clinica". Questo ritorno alla neuropsichiatria che ci riporterebbe in qualche modo alle origini di questa disciplina, corrisponde al tentativo estremo di conservare un ambito esclusivo proprio nel momento in cui è minacciata da progressive annessioni da parte di altri ambiti professionali. La mimesi del "modello medico" domina incontrastata nel campo psichiatrico, dove peraltro risulta opinabile che la terapia sia in grado di produrre un intervento efficace sulle cause della condizione patologica sottostante il sintomo. Da ciò discende che è possibile riscontrare modelli della mente scaturiti da diverse ipotesi teoriche, che ovviamente rimandano a specifiche concezioni di intervento clinico. Attualmente in vari paesi europei (Svizzera, Germania, Francia) gli psichiatri rivendicano a vario titolo una competenza psicoterapeutica. La Società tedesca di psichiatria ha recentemente introdotto, sull'esempio della Svizzera, l'insegnamento dettagliato della psicoterapia nella formazione psichiatrica - per evitare le incongruenze della doppia formazione - inserendo nella dicitura del diploma di psichiatra anche la qualifica di psicoterapeuta. L'obiezione degli autori statunitensi (Pardes e Guze) è ancora una volta di carattere pragmatico: tenendo conto delle valutazioni sull'efficacia della psicoterapia (che sembra essere indifferente se chi la pratica è uno psichiatra o uno psicologo), il costo (più elevato se a praticarla è uno psichiatra) e le potenzialità riposte nel modello neurobiologico, alcuni psichiatri americani propongono che la psicoterapia sia eliminata dalla formazione degli psichiatri. Adottando una posizione simile, ma più sfumata, Lieberman e Rush affermano che dal punto di vista etico gli psichiatri non possono delegare trattamenti medici invasivi quali l'elettrochoc e la farmacologia a persone che non possiedono competenze necessarie per somministrarli in condizioni di sicurezza e in modo appropriato, ma raccomandano che i trattamenti che comportano rischi minori e necessitano di più tempo come la psicoterapia, possono essere applicati, se ne esiste l'indicazione medica, da professionisti non medici. Su questa base, la questione non è affrontata nei termini della valorizzazione della cultura psicologica in psichiatria e in medicina, come preconizzato da Balint, ma viene ridotta a una espressione delle gerarchie professionali, con il rischio di attivare nuovi sistemi riduttivi di separatezze specialistiche. Le valutazioni puramente economiche, comuni ormai a tutti i paesi economicamente sviluppati, hanno trovato la loro espressione istituzionale - a cominciare dagli USA - nei programmi gestionali di cura (managed care programs). Il managed care è strettamente legato ai valori che dominano la cultura economica americana, ma ormai coinvolge tutti i paesi ad economia avanzata che hanno bisogno di dimensionare le risorse economiche da impegnare nei programmi sanitari: tali iniziative, come è noto, mirano a contenere la crescita delle risorse destinate alla sanità ed a utilizzarle in modo ottimale. In tale contesto l'accento è posto sul ruolo da attribuire al medico generico che dovrebbe decidere quali malati, in base alla gravità del quadro patologico, debbano essere affidati alle cure degli specialisti, prendendo egli stesso in cura coloro cui può assicurare cure adeguate. Il trasferimento delle funzioni psicoterapiche dagli psichiatri ai non medici, quali psicologi clinici e operatori sociali, nonché ai medici generici, viene giustificato in base al costo inferiore della formazione professionale, con una implicita svalorizzazione della prestazione psicologica Per chiudere, un cenno allo panorama italiano, anch'esso come negli altri paesi in profonda trasformazione. Possiamo sinteticamente distinguere due fasi. La prima riguarda gli anni Settanta: in quel periodo le esperienze psichiatriche rivolte alla deistituzionalizzazione dei pazienti erano generalmente caratterizzate da una scarsa conoscenza delle discipline psicologiche, quindi sono state prodotte soprattutto analisi di tipo sociologico del concetto di malattia, intesa principalmente come "devianza mentale" (come ampiamente documentato dallo Speciale 180 di Pol.it): a quell'epoca il movimento antipsichiatrico utilizzava categorie interpretative essenzialmente di tipo sociologico, sottovalutando la dimensione psicodinamica della malattia mentale. La seconda fase inizia negli anni Ottanta. Con il declino dell'analisi sociologica si impone la conoscenza della psicoterapia come percorso 'post-lauream' prevalentemente degli psicologi (che culminerà nel 1989 con l'adozione delle legge Ossicini), in un clima però di grande confusione nei riguardi del ruolo e delle competenze professionali dello psicologo, in cui le categorie di normalità e di patologia verranno derivate direttamente dai diversi modelli e orientamenti psicoterapeutici. Non prevedendo nel loro ambito una specifica teoria dell'intervento clinico, tali orientamenti si caratterizzano di fatto come "teorie senza tecnica" (Lombardo G. P., 1998): la loro debolezza è che si riferiscono a un modello teorico che non prevede una relazione stretta tra teoria, tecnica e clinica. Con queste premesse la domanda di aiuto psicologico è trattata esclusivamente dagli psicoterapeuti essenzialmente sulla base del proprio modello di riferimento e sulla modalità d'intervento prevista da tale modello, a prescindere dalle reali esigenze del paziente. Salute e patologia divengono quindi due categorie concettuali connotate qualitativamente in relazione ai diversi modelli e orientamenti psicoterapici. In tale ambito la loro operatività si riduce paradossalmente all'applicazione automatica di criteri sanciti dal proprio gruppo di appartenenza, che degenera in mero corporativismo (cfr. Contri G.B., Libertà di psicologia, 1999). Sia le "teorie senza tecnica" che le "tecniche senza teoria"(Carli,1988), a nostro avviso hanno caratterizzato in modo negativo la clinica psichiatrica dell'ultimo ventennio in Italia. "Le tecniche senza teoria" possono essere ricondotte a diversi contesti di intervento psichiatrico, in cui l'obiettivo principale si identifica nella modificazione del comportamento "malato" o "deviante", fondata sull'utilizzazione tautologica degli psicofarmaci, poiché in molti casi la diagnosi di malattia è basata sulla risposta clinica ai farmaci, che consente di formulare solo a posteriori una diagnosi, fondata essenzialmente sul criterio di efficacia farmacologica. Al di là dell'efficacia pratica, questa modalità d'intervento si affianca a una concezione della terapia psicologica di tipo eminentemente medico-psichiatrico, per la quale la dimensione psicologica è considerata un elemento del tutto secondario rispetto al presunto quadro organico sottostante. A nostro avviso, l'intervento psichiatrico basato su questi presupposti (paradigma bio-genetico) genera nella pratica clinica psicoterapeutica problemi di difficile soluzione: l'obiettivo clinico coincide di fatto con una automatica modificazione del comportamento, mentre il concetto di salute mentale viene ridotto ad un paradigma essenzialmente socio-bio-genetico. Per contro nell'ambito psicologico-clinico, a differenza dell'ambito medico, non è possibile stabilire una stretta relazione tra iniziativa terapeutica e ipotesi etiopatogenetica, poiché tale analogia sarebbe fondata sul presupposto di una relazione tra il modello di intervento e una psicopatologia generale di riferimento: la psicopatologia prevede l'esistenza di una plurifattorialità nell'instaurarsi delle dinamiche psicopatologiche, non è riconducibile a un procedimento lineare tra la causa e l'effetto, così come avviene in ambito medico (Lombardo G.P. 1999). In generale si osserva come l'applicazione del tecnicismo a-teorico di derivazione medica (tecniche senza teoria) è anche ravvisabile nella cultura professionale del Servizio Sanitario Nazionale: ogni tipo di servizio, sia esso un servizio materno infantile, un servizio di salute mentale, un servizio per i tossicodipendenti, prevede un obiettivo normativizzante alla base dell'istituzione del servizio stesso, che di fatto condiziona l'intervento terapeutico sia nella sua metodologia che nelle sue finalità. Tale processo di "normativizzazione" prescinde in molti casi dall'unicità e dalla specificità della richiesta di aiuto psicologico e l'intervento erogato dal servizio, elude un'analisi del contesto entro cui si svolge la relazione. In questa ottica il concetto di "salute" è condizionato dall'obiettivo di ricondurre il soggetto ad un condizione di "normalità" (intesa come modello 'a priori'), risultando in molti casi disancorato alle reali esigenze della persona e della sua comunità di appartenenza. La domanda di salute mentale che vasti strati della popolazione richiedono, non può essere pienamente soddisfatta da strumenti diagnostici e terapeutici che impongono una visione parziale del disagio e della malattia mentale. L'errore epistemologico è sempre lo stesso: pretendere di intervenire sulla complessità della chimera psicopatologica attraverso operazioni di semplificazione arbitraria. Questo rappresenta il terreno fertile per alimentare dispute corporative nel nome di una pretesa competenza, che spesso trascendono in una sorta di contrasto permanente su base confessionale. Su questi temi vorremmo confrontarci con i colleghi e aprire un dibattito e data l'importanza del tema per questa sezione avremo la collaborazione di Pier Francesco Galli e Alberto Merini del Dipartimento di Psichiatria dell'Università di Bologna. Eventuali contributi o interventi dovranno essere inviati all'attenzione all' editor Francesco Bollorino (boll001@pol-it.org) e alla segreteria di Redazione della Rivista. (redazione@pol-it.org).
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