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Terzo Seminario 28 marzo 2007

Modelli organizzativi dei Servizi di Salute Mentale

PLENARIA DI CHIUSURA

Dottor Fausto Rossano

(ASL 1 di Napoli)

 

Questa giornata sembra trascorsa velocemente ed è stato anche un momento di incontro tra colleghi che non si vedevano da tempo.

Sono fermamente convinto che giornate come queste siano funzionali per riportare all’interno della Salute Mentale tutte le forze vive e vitali che ci sono e sono tante, e sono convinto che questo lavoro servirà a far convergere nella salute mentale tutto questo.

Si è parlato di tutto nei gruppi come emergeva dai vari report; abbiamo avuto una buona partecipazione soprattutto dei direttori generali e questo colpisce perché in linea di massima i direttori generali non stanno all’interno delle discussioni di salute mentale.

La mia sensazione è che si è partiti con il piede giusto con questa iniziativa e sembra emergere che lavorando si può fare una buona salute mentale all’interno dei Dipartimenti nei vari territori riprendendo per esempio tutta una serie di esperienze che mi sembrano importanti per la risoluzione di una serie di problemi che bene conosciamo.

Prof.ssa Franca Olivetti Manoukian

(Studio A.P.S. - Analisi Psico-Sociologica, Milano)

 

Mi ricollego ai report esposti dai referenti dei gruppi e alla relazione che ho presentato nella mattinata.

Le discussioni nei gruppi sono state molto ricche e interessanti e mi limiterò a riprendere alcuni punti che mi sembra possano essere utili per mettere meglio a fuoco delle ipotesi rispetto all’organizzazione dei Servizi di Salute mentale.

Una prima questione che vorrei richiamare è l’esigenza che i servizi di salute mentale si colleghino ai cambiamenti del contesto più generale e che da qui ritrovino quel patrimonio di innovazione, di valori e di metodologie, che è inscritto nelle loro origini, nella loro istituzione: da qui va ritrovato un progetto forte su cui lavorare per promuovere effettivamente miglioramenti nel funzionamento dei servizi. Mi sembra allora che andare in questa direzione richieda di fare un lavoro di ri-conoscimento; implica cioè ri-conoscere quello che già si fa; come diceva un poeta (Giorgio Caproni) "non sai dove sei, non sei dove sai"; in altre parole credo che nei servizi operatori e responsabili corrano il rischio di pensare di trovarsi in un mondo che è molto diverso da quello in cui sono in realtà collocati; e il cercare di ri-vedere dove si è, può dare un’idea di che cosa sia maturato nel corso degli anni: e quando parlo di ri-conoscere non intendo tanto apprezzare le nuove patologie, mettere in luce l’emergere dell’una o l’altra casistica inusuale, ma piuttosto ascoltare e considerare come la gente si pone nei confronti della salute mentale e quindi ri-conoscere le attese diffuse nei confronti dei servizi, adottando un’ottica socio-sanitaria.

Secondo elemento importante è rimettere a fuoco le attese che vivono gli operatori all’interno dei servizi stessi. Questo concretamente significa non sottovalutare o negare il malessere, le demotivazioni o le motivazioni che oggi circolano tra chi lavora nei servizi di salute mentale. Anche qui si tratta di ri-conoscere perché è opportuno ricordare che l’organizzazione non è qualche cosa di esterno, una cornice, una struttura o una sovra-struttura posta o imposta da fuori, ma è una realtà sociale e affettiva interiorizzata dalle persone che sono cresciute entro organizzazioni; i singoli portano dentro se stessi, nelle loro rappresentazioni mentali, dei modelli di funzionamento organizzativo che hanno sperimentato e a cui sono affettivamente legati perché in qualche modo corrispondono alle loro prerogative e inclinazioni personali, perché tutelano un certo modo di lavorare e di collocarsi nella situazione lavorativa congruente con le proprie disposizioni, con i propri atteggiamenti nei confronti dello svolgimento di un’attività professionale e dei rapporti orizzontali e verticali, con le proprie attese di sviluppo di identità professionale, di soddisfazione e realizzazione di sé. Al tempo stesso la "produzione" di servizi ovvero la realizzazione di attività rispondente alle attese di utenti/clienti/cittadini/pazienti è essenzialmente affidata agli operatori: sono le loro competenze lavorative, le modalità con cui vengono messe in campo e con cui vengono collegate tra loro che condiziona la positività, l’efficacia, la validità dei servizi stessi.

Quanto più i cambiamenti esterni vengono vissuti all’interno dei servizi in modo minaccioso, tanto più si tende a chiudersi in difesa, come se a fronte di un terreno minato si ricercasse protezione rinchiudendosi, arroccandosi, come in un carro armato. Uso questa metafora non a caso perché a volte si ha come l’impressione che i servizi vivano i vari interlocutori presenti nel territorio come potenziali nemici, a volte anche a partire dagli stessi parenti degli utenti, o dai medici di base, dai pronto soccorso ospedalieri, dagli amministratori locali ostili e impauriti ... e che ripieghino entro un modello di funzionamento il più possibile specialistico per salvaguardare identità professionali dei singoli operatori, come se questo salvaguardasse anche l’identità del servizio. L’idea di sé e della propria identità è un elemento chiave per sviluppare evoluzioni e modificazioni ed è importante che si riesca a vedere che muoversi verso qualcosa che assume il confronto e la sfida con il contesto esterno costituisce un’opportunità di crescita d’identità: un’identità che non si ancori soltanto alle prerogative professionali, ma che si rinforzi anche attraverso identificazioni positive con un’organizzazione che ha un ruolo riconosciuto e che si fa apprezzare, che risponde alle domande diversificate e che promuove e sostiene collaborazioni e interventi integrati.

La terza questione che mi sembra molto importante è ri-conoscere i valori fondanti dei servizi di salute mentale e cioè ri-conoscere che questi servizi sono fondamentalmente collegati alla tutela dei diritti di cittadinanza, rispetto della persona, diritto alla cura della salute, partecipazione sociale, ecc., diritti che non sono mai sufficientemente garantiti e che richiedono continuamente la costruzione di condizioni adeguate perché possano essere esercitati. Ri-conoscere i valori per cui esistono i servizi significa anche riconoscere il loro intrinseco valore. Per questo è cruciale rendere visibile sul piano sociale, sul piano collettivo che cosa fanno i servizi: è fondamentale per dare legittimazione ai servizi stessi; i servizi oggi, soprattutto quelli pubblici, soffrono di una legittimazione debole cioè non vengono considerati importanti e significativi; accrescere la legittimazione dei servizi pubblici non implica tanto insistere sul ribadire la posizione istituzionale e cioè utilizzare argomentazioni del tipo "ci si deve riconoscere perché si è un servizio di salute mentale o di psichiatria"; la legittimazione più solida nasce da un ri-conoscimento delle funzioni e dei servizi che vengono offerti per la convivenza nella collettività e per fare in modo che ci sia un modo civile e umano di gestire i problemi di malattia mentale. E’ sicuramente da questa legittimazione che possono essere messe a disposizione risorse finanziarie e non solo. Pensiamo ad un problema ricorrente, che viene spesso riproposto, quello dei budget. Sembra che sull’entità delle somme che possono essere spese - o meglio si dovrebbe dire investite - per i servizi si dipenda da decisioni prese astrattamente e soltanto con criteri amministrativi, ma non è realmente così. E’ come se ci fossimo abituati a separare la dimensione economica da quella gestionale; in generale nella nostra società c’è un primato della dimensione economica su quella sociale e anche nell’organizzazione dei servizi la dimensione economica tende a prevalere su quella gestionale e così ci si taglia le gambe … non è dalle risorse economiche che si creano opportunità sociali, è piuttosto il contrario: è dalle risorse sociali che nascono quelle economiche e si tratta allora di mobilitare le risorse sociali, rendendo visibili dei problemi a cui le persone possono agganciarsi, di cui la gente può vedere l’importanza.

Un quarto punto è che non esiste un modello organizzativo intrinsecamente adeguato o in sé e per sé definito e definibile come il migliore. Il modello organizzativo più efficace è quello che è più aperto al contesto, più attento ad offrire servizi congruenti con le differenti attese, più assunto dagli operatori che operano all’interno perché riescono in esso ad identificarsi, riconoscendo che esistono possibilità di trovare soddisfazione alle proprie motivazioni e alle proprie attese non soltanto difendendo la propria professione, ma anche, e forse soprattutto, sviluppando le collaborazioni, le progettualità e impegnandosi quotidianamente in processi di lavoro pensati, continuamente verificati, continuamente alimentati da intense comunicazioni rivolte e rimettere sempre meglio a fuoco l’oggetto di lavoro, attraverso elaborazioni di dati quantitativi e qualitativi, che permettano di monitorare via via lo svolgimento delle diverse attività e lo stesso funzionamento del servizio nelle sue diverse articolazioni.

Un ultimo punto è come si realizza il cambiamento

Questo è un interrogativo che è importante porsi. Credo che in realtà molti, soprattutto tra coloro che conoscono la complessità della mente umana e le variabili che concorrono ad influenzare i comportamenti dei singoli sappiano che difficilmente i cambiamenti si realizzino per definizione normativa. Come diceva un famoso studioso delle organizzazioni, Michel Crozier, "on ne change pas la société par decret ", "non si cambia una società decretando, dettando quello che una società deve essere"… Ad esempio quando si prescrive che si realizzino degli interventi in rete … le reti sono importanti, ma non possono sorgere dal nulla e neppure si può magicamente o automaticamente trasformare una distanza o un’ostilità, una preclusione che dura da anni o da decenni perché c’è una nuova legge. Le reti condensano, connettono, mettono in comunicazione se si creano condizioni perché i singoli, i gruppi, i sottosistemi organizzativi le vedano e le riconoscano, le apprezzino e le considerino parte dell’oggetto di lavoro, elemento chiave per costruire, per produrre, per raggiungere obiettivi.

Vorrei anche puntualizzare brevissimamente rispetto al cambiamento che cosa può offrire la formazione.

Spesso la formazione è direttamente collegata al cambiamento: si dice per promuovere delle modificazioni ci vuole la formazione; certo la formazione è importante ma quale formazione ?

A volte la formazione orientata ad offrire maggiori strumenti professionali o molto circoscritta su particolari aspetti rischia di offrire più difese che investimenti positivi nella realizzazione di cambiamenti organizzativi, rischia di creare scissioni e prese di distanza.

A mio avviso sarebbe interessante che all’interno dei servizi si consolidassero dei meccanismi di formazione interna che sostengano apprendimenti dall’esperienza e con questo non penso tanto e soltanto alle supervisione: la supervisione ha una forte valenza per la preparazione professionale, ma mi pare impensabile che ciascun professionista abbia un proprio supervisore … inoltre a lungo andare la supervisione crea dipendenza e quando allora si diventa adulti, autonomi e professionisti degni di questo nome?

Si usa dire che il professionista è colui che è in grado non soltanto di operare in modo competente (colui che ha "mestiere"), ma anche di spiegare agli altri quello che fa. Mi sembra importante quindi che la formazione sia una formazione finalizzata ad obiettivi specifici e che in particolare in questo periodo sia rivolta a permettere agli operatori di ricollocare e rivedere il funzionamento dell’organizzazione e di ricollocare se stessi rispetto all’organizzazione…

Mi scuso per la schematicità e auguro che la realizzazione di seminari di questo tipo faciliti effettivamente un confronto ampio e articolato che possa costituire una sorta di crogiolo da cui potrà nascere il nuovo Piano Sanitario per la Salute Mentale.

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