La psicoterapia in rete: un setting terapeutico
come un altro? Riflessioni da un punto di vista psicoanalitico
Paolo
Migone
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Vorrei iniziare queste
riflessioni sulla psicoterapia con Internet, cioè sulla cosiddetta
psicoterapia on line o in rete, raccontando un episodio che
mi è riaffiorato alla memoria. Una volta Eissler, ad un convegno
tenuto a New York nel 1983 in occasione del trentesimo anniversario
del suo classico
articolo del 1953 sul "parametro",
disse che qualcosa di vero doveva esserci nelle critiche che alcuni
gli muovevano, nella misura in cui, ad esempio, nessuno era ancora
riuscito a condurre una psicoanalisi col computer o passando al
paziente dei bigliettini contenenti solamente le interpretazioni
(non ricordo bene chi fossero gli altri oratori, mi sembra vi fossero
Brenner e Arlow).
Per comprendere appieno
questa affermazione, può essere utile accennare brevemente
a quell'articolo. Com'è noto, il classico di Eissler del
1953 era stato scritto a cavallo degli anni 1950, in un periodo
storico di grande fulgore della psicoanalisi americana, in cui si
assisteva a un rapido aumento del numero di pazienti, anche con
patologie gravi, che si rivolgevano al trattamento psicoanalitico.
Presto gli analisti si resero conto che la "tecnica classica" non
poteva essere applicata a tutti, e che erano necessarie delle modifiche
a seconda della patologia. La tecnica classica prevedeva infatti
l'uso privilegiato della interpretazione verbale, cercando di minimizzare
tutti gli altri fattori per così dire "spuri" o "inquinanti"
il setting, quali rassicurazioni, consigli, ecc. L'analista doveva
restare il più neutrale possibile, seduto dietro al lettino
in modo tale da ridurre la sua influenza sul paziente, e limitarsi
a trasmettere verbalmente le interpretazioni, ritenute il fattore
curativo par excellence della psicoanalisi. E' in questo
contesto che si inserisce l'articolo di Eissler, un analista ortodosso
molto autorevole, noto anche come strenuo difensore di Freud di
fronte alle critiche che di volta in volta gli venivano mosse, e
che più tardi verrà anche nominato Direttore dei prestigiosi
Freud Archives (per la storia del rapporto tra Eissler e
i Freud Archives, vedi Migone,
1984; per cenni biografici
su Eissler, vedi Migone,
1999). In quell'articolo
Eissler sistematizzò a livello teorico il problema delle
indispensabili modificazioni del setting alla luce delle acquisizioni
teoriche della Psicologia dell'Io, cioè dell'esigenza sempre
più sentita di una maggiore considerazione del punto di vista
adattivo e delle difese. Egli definì "parametro" ogni cambiamento
della tecnica standard (la quale ad esempio era definita a "parametro
zero", cioè senza modificazioni), e propose che è
legittimo definire una terapia ancora "psicoanalisi" quando l'introduzione
di un "parametro" si basa sui seguenti quattro criteri: 1) deve
essere introdotto solamente quando sia provato che la tecnica di
base non è sufficiente (in presenza ad esempio di un "deficit
dell'Io" che non permetterebbe al paziente di reggere la tecnica
di base); 2) non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; 3)
deve condurre alla sua autoeliminazione; 4) le sue ripercussioni
sul transfert non devono mai essere tali che non possa essere in
seguito abolito dall'interpretazione. Eissler dunque, ribadendo
per la psicoanalisi il valore ideale della tecnica "classica" (praticamente
mai raggiungibile nella realtà, e di questo ne era ben consapevole,
ma tuttavia utile come obiettivo euristico), ammise l'utilizzo di
parametri ma a patto che fossero ridotti al minimo e che in qualche
modo potessero in seguito rientrare all'interno del processo interpretativo.
Ci si può chiedere a questo punto come mai
ho iniziato queste mie riflessioni sulla psicoterapia in rete accennando
alla concezione del parametro di Eissler. Il motivo è che,
ironicamente, e contrariamente alla comprensibile opinione dei tanti
colleghi analisti che guardano con scetticismo alla psicoterapia
in rete, seguendo la teoria classica di Eissler (che però
- come si è detto all'inizio - lui stesso trent'anni dopo
vide in modo più critico) parrebbe che una psicoterapia come
quella in rete, basata essenzialmente sulla comunicazione verbale
e per certi versi "impersonale" tra paziente e terapeuta, risponda
ai criteri addirittura di una psicoanalisi, da molti ritenuta superiore
o più "profonda" delle altre psicoterapie. Come risolvere
questa apparente contraddizione?
Affrontare adeguatamente
questa problematica implicherebbe addentrarsi nelle vicissitudini
della storia della teoria della tecnica psicoanalitica nel corso
di questo secolo, per cui in questa sede sarà possibile fare
solo alcuni brevi riflessioni (per un approfondimento, vedi Migone,
1991, 1992a,
1992b,
1994,
1995a
capitoli 1 e 4, 1995b,
1998,
2000, 2001,
ecc.).
E' possibile che la cautela nei confronti della
psicoterapia in rete sia spiegabile col fatto che vi è stata
una crescente presa di distanza, più o meno esplicita, nei
confronti di un certo modo di intendere il modello classico, basato
sulla anonimità del terapeuta e su quella che potremmo chiamare
una "personectomia" dell'analista, modello che pare estremizzato
in modo quasi caricaturale appunto dalla psicoterapia in rete. Il
fenomeno diffuso della psicoterapia in rete, insomma, tra le altre
cose ripropone questa problematica interna al dibattito psicoanalitico
e ci dà qui l'occasione di riprenderla brevemente in esame.
Seguendo la logica di Eissler, se una terapia con
parametri (cioè con variazioni del setting a seconda dei
bisogni del paziente, con interventi legati alla "persona" del terapeuta,
e così via) è indicata per quei pazienti che, a causa
della struttura deficitaria del loro Io, non reggono un tipo di
setting limitato solo alla comunicazione delle interpretazioni,
dovremmo forse dedurre che la psicoterapia in rete può essere
indicata per quei pazienti che hanno un Io intatto (peraltro molto
rari), o che si collocano al livello alto della psicopatologia (ad
esempio solo per i nevrotici lievi)? Ritengo che non sia questo
il modo di impostare il problema, e che la questione sia più
complicata. E non ritengo neppure che oggi, grazie alle possibilità
offerte dalla comunicazione multimediale, la psicoterapia in rete
sia legittima nella misura in cui può emulare la psicoterapia
"reale" (come sappiamo, oltre che con la posta elettronica [E-Mail]
oggi è possibile comunicare in rete anche con programmi tipo
chat [parola che significa "chiacchierata", "dialogo"], ad
esempio ICQ [un acronimo che si pronuncia "I seek you", cioè
"Io cerco te"], CUCMe [che si pronucia "See you see me",
cioè "Tu mi vedi, io ti vedo"], Net Meeting, ecc.,
in cui è possibile sfruttare anche il timing degli
interventi, i silenzi in tempo reale, gli orari delle "sedute" e
così via - e col video e l'audio entrambi i partners sono
virtualmente presenti come fossero assieme in una stanza, potendo
quindi rispettare tutti i dettagli del rituale terapeutico grazie
anche alla possibilità di simulare virtualmente la stanza
d'analisi, persino la sala d'aspetto ecc. - si veda anche il capitolo
"Forme della relazione: la psicoterapia in rete", in questo volume).
Non ricordo esattamente la argomentazione all'interno della quale
Eissler in quel convegno del 1983 espresse perplessità nei
confronti di una "psicoanalisi col computer", ma non sarei d'accordo
nell'interpretare il suo atteggiamento critico come dovuto al fatto
che allora non vi erano i mezzi disponibili oggi, nel senso cioè
che la psicoterapia in rete, data la vasta gamma di canali comunicativi
che permette, oggi dovremmo ritenerla utilizzabile anche per pazienti
più gravi.
Nemmeno questo dunque,
a mio parere, è il modo di impostare il problema, cioè,
come ho detto prima, ritengo che la questione non sia la possibilità
o meno di emulare con la realtà "virtuale", oggi permessa
dalla rete, la realtà "reale" dell'incontro paziente-terapeuta,
laddove quest'ultima servirebbe da elemento di paragone o modello
che deve essere avvicinato il più possibile. Il problema
va posto in termini diversi, e precismente occorre una riflessione
sulle premesse teoriche che facevano da sfondo alla concettualizzazione
di Eissler (cioè alla concezione che per brevità abbiamo
chiamato "classica"), premesse che, come si è detto, nel
dibattito psicoanalitico successivo da più parti sono state
discusse in modo critico. Il ragionamento di Eissler era estremamente
coerente al suo interno, e tutt'ora il suo articolo è molto
valido per quanto riguarda il ruolo del setting nella struttura
logica dell'interpretazione (vedi anche Codignola, 1977). L'aspetto
della concezione sottostante alla teorizzazione di Eissler che ora
viene da più parti messo in discussione riguarda quello che
lui chiama "modello della tecnica di base" (basic model technique),
cioè da una parte l'idea che solo un tipo di setting (quello
"classico") sia adatto ad evocare nel paziente quello che noi chiamiamo
transfert, e dall'altra l'idea, strettamente connessa, che questo
tipo di setting possa garantire all'analista una neutralità
rispetto all'emergere del transfert, il quale appunto sarebbe tendenzialmente
"puro" e "incontaminato" dalle influenze dell'analista. Come è
stato discusso in seguito da molti autori (in primis Gill,
1982, 1983, 1984,
1993, 1994), i quali hanno un po' ripreso le intuizioni di Sullivan
e della scuola della psicoanalisi interpersonale esposte fin dagli
anni 1920 e 1930, non è sostenibile una neutralità
da parte dell'analista, anzi, credere nella neutralità può
solo portare ad una maggiore influenza sul paziente perché
appunto non analizzata (in quanto ritenuta inesistente).
Si veda ad esempio la
critica che Gill muove alla concezione della Macalpine (1950), che
è esemplare a questo riguardo. La Macalpine aveva parlato
di un "setting infantile" (sedute frequenti, costanza dell'ambiente,
ecc., insomma la tecnica di base di cui parla anche Eissler) che
servirebbe ad evocare quel tipo di transfert che noi vogliamo analizzare.
Gill fa notare una contraddizione in questa concezione: se il transfert
deve essere spontaneo e incontaminato dalla influenza del presente,
perché allora abbiamo bisogno di apposite misure per farlo
emergere? Perché, in altre parole, dobbiamo "manipolarlo"
con un "setting infantile"? Il transfert che emerge grazie al setting
"classico" non sarebbe quindi una pura ripetizione del passato,
di fronte ad un analista che funge da specchio o da osservatore
neutrale, ma una reazione a quel "setting infantile", sarebbe cioè
un "transfert infantile", una reazione iatrogena, concettualmente
simile all'ipnosi: niente di più lontano da quello che comunemente
intendiamo per psicoanalisi (molto belle sono le pagine di Gill
in cui mostra - con buona pace dell'analista "ortodoso" - come una
psicoanalisi classica possa di fatto consistere in una "psicoterapia
manipolatoria", mentre una psicoterapia nella quale si analizza
attentamente il transfert possa essere definita a tutti gli effetti
una "psicoanalisi"). Beninteso, qui non vengono criticate tanto
le regole del setting classico (che è un setting come un
altro), quanto la implicita idea che quel setting garantisca una
neutralità dell'analista, e che solo quel tipo di setting,
e non altri, debba essere utilizzato per tutti i pazienti e trasversalmente
alle varie culture e ai periodi storici (se non fosse questa la
implicazione sottostante, non sussisterebbero le regole standard,
ad esempio il lettino e le quattro sedute alla settimana, tutt'ora
imposte dall'International
Psychoanalytic Association
[IPA]). Ecco perché,
venendo a questo punto a mancare le giustificazioni teoriche del
setting classico, Gill in modo radicale si sbarazza dei criteri
"estrinseci" (lettino, frequenza settimanale, ecc.), ridefinisce
quelli "intrinseci", e sposa una concezione molto allargata di psicoanalisi,
attuabile nei setting più diversi (sedute a frequenza monosettimanale
o addirittura variabile, setting di gruppo, emergenze, terapie brevi,
servizio pubblico, pazienti più gravi e/o con terapia farmacologica,
ecc.). L'importante è che l'analista di volta in volta faccia
del suo meglio per fare "l'analisi del transfert" (è questo
l'unico fattore "intrinseco" che Gill conserva, e per di più
ridefinendolo), cioè la relazione paziente-terapeuta la quale
è sempre influenzata dalle condizioni del setting, qualunque
esse siano. Ogni paziente reagirà ad un determinato setting
non secondo un modello ideale che noi riteniamo valido indiscriminatamente
per tutti i pazienti, perché è il transfert stesso
(cioè le precedenti esperienze fatte dal paziente) che determina
il modo con cui verrà vissuto il setting. Per fare un esempio
volutamente schematico, se un paziente ebbe genitori molto riservati
forse sarà a suo agio con un analista ortodosso, mentre se
i suoi genitori erano espansivi e calorosi potrebbe vivere questo
analista come freddo, distaccato, o forse punitivo: è ovvio
che sarebbe un errore interpretare come transfert solo quest'ultimo
comportamento, e considerare "normale" (cioè come "non transfert")
lo stato di non conflittualità che prova il paziente di fronte
ad un analista ortodosso. Potrebbe anche essere che questa apparente
normalità ci impedisca di illuminare un'importante area problematica
di funzionamento del paziente che invece comparirebbe se questi
fosse esposto ad un diverso setting, e che in questo modo potrebbe
essere analizzata (per un approfondimento della concezione di Gill,
con anche un esempio clinico, vedi Migone, 1991, 1992a,
1992b,
1995a
cap. 4, 2000, 2001).
Risulterà più chiaro a questo punto
perché ho voluto far precedere queste mie riflessioni sulla
psicoterapia in rete da questa lunga premessa sulla concezione di
Eissler sul parametro e sulla revisione teorica di Gill. Se accettiamo
che non vi sia più, per così dire, un "gold standard"
per la psicoanalisi (inteso in termini di criteri estrinseci, cioè
legato ad un tipo specifico di setting), ne consegue a rigor di
logica che anche in rete possa essere condotto un trattamento che
risponde ai requisiti della psicoanalisi: attenta analisi delle
manifestazioni transferali a partire dal tipo di contesto in cui
avviene l'incontro paziente-terapeuta (in questo caso Internet,
nelle sue varie possibili modalità), ben consapevoli che
questo contesto avrà sempre una pesante influenza sul transfert
stesso, influenza che comunque dovrà essere attentamente
analizzata.
Con questo ragionamento,
dunque, sembrerebbe giustificato l'utilizzo di Internet per la psicoterapia,
e per di più per una terapia psicoanalitica. Ma ritengo necessario
fare alcune ulteriori riflessioni per chiarire meglio i passaggi
fatti, perché è possibile che si creino fraintendimenti.
Quelle che vanno analizzate meglio sono le implicazioni sottostanti
al ragionamento che abbiamo fatto fino ad ora per arrivare ad una
posizione che non esclude aprioristicamente l'utilizzo della rete
per la psicoterapia. Prima ho detto che molti colleghi hanno un
atteggiamento critico verso la psicoterapia in rete, e ciò
potrebbe essere comprensibile se si pensa agli abusi che se ne possono
fare o ad un suo uso indiscriminato e magari in sostituzione
della psicoterapia tradizionale (anche se, per la verità,
non è chiara la motivazione all'abuso della psicoterapia
in rete da parte dei terapeuti, essendo più faticosa e meno
remunerativa). Ritengo corretto essere critici verso la psicoterapia
in rete, ma a patto che noi muoviamo la stessa critica verso la
psicoterapia tradizionale, altrettanto abusata e praticata in modo
"selvaggio" (qualunque cosa ciò significhi). Quello che ritengo
importante sottolineare non è solo il fatto che un atteggiamento
critico a priori verso la psicoterapia in rete possa nascondere
un tacito lassismo verso la psicoterapia non in rete, ma anche che
questo presuppone l'errato ragionamento secondo cui il fattore determinante
è la forma esteriore che assume la psicoterapia (i criteri
"estrinseci"), dimenticando che è il significato dell'esperienza
nel suo complesso il fattore caratterizzante la psicoterapia. Questo
tipo di ragionamento non può che condurre ad errori tecnici
anche nella psicoterapia non in rete. Gli esempi a questo
proposito sono innumerevoli: può portare ad esempio, in modo
stereotipato, a ritenere che il lettino (come qualunque altro elemento
estrinseco del setting) sia essenziale per la psicoanalisi, quando
di per sé esso non significa niente e quello che è
essenziale è il modo con cui vengono analizzate le reazioni
del paziente al lettino, così come alla sedia e a qualunque
altro elemento del setting o nostro intervento. Può portare
insomma ad una reificazione della tecnica, quasi come se essa stessa,
per così dire, potesse ergersi mostruosamente al rango di
"teoria" (per brevità, rimando a Galli, 1988, 1990).
La psicoterapia in rete può essere indicata
non solo nei casi di grande distanza geografica tra paziente e terapeuta
(la rete in questo senso è un grande vantaggio, perché
facilita molto in termini di spesa e di tempo), ma anche, proprio
secondo la teoria del parametro di Eissler, può essere indicata
nei casi in cui un determinato paziente (un esempio estremo sono
certe problematiche schizoidi, o anche agorafobiche o di fobia sociale)
non riesca ad affrontare il contatto diretto col terapeuta, e invece
riesca ad aprirsi meglio mantenendo una certa distanza emotiva
che per lui è simbolizzata dalla distanza fisica della
rete (cioè, usando i termini di Eissler, nel caso di determinati
"deficit dell'Io"). In una fase iniziale della terapia un paziente
potrebbe venire "agganciato" in questo modo (ad esempio nel caso
chieda aiuto per la prima volta in rete, come in una discussion
list o in una chat line), per fare un determinato lavoro
allo scopo di superare certe resistenze che gli permettano poi di
continuare la terapia in modo tradizionale, se è questa la
modalità che viene ritenuta indicata.
Ritengo quindi che la psicoterapia in rete possa
avere una sua dignità come terapia, proprio allo stesso modo
con cui altre tecniche terapeutiche hanno una loro dignità
(terapia di gruppo, terapia familiare, ecc.). Alcuni dei problemi
teorici e clinici sono simili a quelli della "psicoterapia al telefono",
che viene già praticata da decenni da molti analisti, soprattutto
negli Stati Uniti dove vi sono grandi distanze geografiche (le prime
pubblicazioni sulla "telephone analysis" risalgono agli anni
1950, vedi ad esempio Saul, 1951). La psicoterapia in rete potrebbe
essere considerata, per certi versi, una "nuova frontiera" così
come, nella storia della psicoanalisi, di volta in volta si sono
dovuti affrontare nuovi problemi tecnici che hanno costretto ad
una salutare messa a punto della teoria: alludo alla terapia degli
psicotici (Sullivan), dei bambini (Melanie Klein), del narcisismo
(Kohut), di certi disturbi di personalità (Kernberg), e poi
degli adolescenti, dei gruppi, delle famiglie, dei tossicodipendenti,
delle delinquenze, ecc. Come sappiamo, tutti questi territori di
confine hanno prodotto un salutare ripensamento della teoria psicoanalitica,
che a volte ha prodotto innovazioni che più tardi sono state
generalizzate arricchendo il nostro modo di comprendere il meccanismo
della psicoterapia.
Non è tanto importante
il fatto che la psicoterapia sia condotta attraverso la rete, quanto
la teoria che utilizziamo per giustificarla, la nostra capacità
di analizzare le motivazioni transferali e controtransferali che
stanno dietro a questa scelta: forse che il paziente, oppure il
terapeuta, nella loro preferenza della psicoterapia in rete esprimono
una resistenza, cioè una difesa dalla psicoterapia non in
rete? E nel caso, perché? O forse che, viceversa, la scelta
della terapia tradizionale da parte di uno o di entrambi esprime
una resistenza a un aspetto della psicoterapia in rete che eventualmente
sarebbe stata possibile? E così via. Questi ragionamenti
non sono specifici alla questione della psicoterapia in rete, ma
sono gli stessi che vengono fatti nei confronti di qualunque intervento
e a proposito di qualunque modalità terapeutica (ad esempio
nella scelta della terapia di gruppo, della terapia familiare, ecc.,
prima citate). Anche queste scelte, così come il loro opposto,
possono fungere da ricettacoli difensivi, ed è l'attenta
analisi di queste dinamiche quella che costituisce il fulcro del
nostro lavoro, e non vi è mai un luogo sicuro su cui si possa,
per così dire, riposare analiticamente (per una discussione
di questa problematica riguardo alla psicoterapia breve, con anche
esempi clinici, vedi Migone, 1988, 1993,
1995a
cap. 3 pp. 51-62, 1995c).
Quello che mi preme sottolineare è che qui non si sta parlando
della psicoterapia in rete in quanto tale, ma della psicoterapia
tout court, cioè della logica utilizzata dal terapeuta
per qualunque suo intervento o scelta clinica. E' solo affrontando
la teoria della tecnica che sta a monte che è possibile affrontare
adeguatamente la questione della psicoterapia in rete.
Vorrei fare un'ultima
riflessione a proposito della teorizzazione classica del setting
analitico come di una condizione tutta particolare atta ad evocare
determinati reazioni trasnferali "regressive" da sottoporre poi
ad analisi, in quanto si può fare qui un interessante parallelismo
con la psicoterapia in rete. Da più parti infatti viene sottolineato
come Internet possa rappresentare un "setting" tutto particolare
che, in modo specifico, evoca in molti soggetti una serie di emozioni
intense, stati regressivi o cosiddetti "perversi" (si pensi alle
chat lines erotiche, agli improvvisi e violenti innamoramenti
in rete, o alla pedofilia, e così via). In altre parole,
Internet, per vari motivi, libererebbe emozioni molto profonde,
paradossalmente maggiori di quelle evocate da situazioni "normali",
cioè non in rete (si veda a questo proposito il capitolo
"Perversioni in rete", in questo volume; vedi anche Migone,
2002). A parte il fatto
che a mio parere questo può essere vero per determinati individui
e non per altri, cioè che sarebbe un errore generalizzare
questi fenomeni che sono invece relativi ad un determinato tipo
di società, vorrei far notare che questo tipo di logica è
la stessa utilizzata nel caso della tecnica analitica classica,
dove si teorizza che viene utilizzato un setting particolare, ritualizzato,
dotato di lettino, ecc., volto a stimolare un determinato comportamento
(chiamato transfert) che si vuole far emergere ed analizzare. Secondo
questo ragionamento, la "psicoanalisi classica" e la "psicoanalisi
in rete" sarebbero omologhe: il transfert in un caso e le cosiddette
"perversioni" dall'altro potrebbero essere i comportamenti che di
proposito si vogliono far emergere, sarebbero cioè forme
di "regressione" (analitica). Come penso risulti chiaro dalle mie
precedenti argomentazioni, non sono d'accordo con l'utilizzo di
questa logica. Infatti, in entrambi i casi l'errore è quello
di generalizzare a tutti i soggetti l'effetto che un determinato
stimolo ha su un campione più o meno grande di individui,
e che comunque, anche nel caso questa reazione fosse generalizzabile,
non è chiaro perché si debba desiderare di evocare
questo tipo di "transfert" e non un altro (anche qui, rimando alla
lucida critica di Gill
[1984] al concetto di regressione
in analisi).
Per finire, va ricordato che vi è un aspetto
indubbiamente assente nella psicoterapia in rete rispetto a quella
non in rete: il corpo "fisico" del paziente. Questa assenza può
essere un fattore fondamentale per le cosiddette terapie corporee,
che nel loro armamentario appunto utilizzano il corpo in quanto
tale all'interno della terapia, e non soltanto le fantasie o
le emozioni su di esso. Sotto questo punto di vista, la psicoterapia
in rete è sicuramente "inferiore" a quella tradizionale.
Ma, se abbiamo ben compreso le riflessioni fatte finora, non possiamo
non ammettere che anche la psicoterapia tradizionale, a rigor di
logica, è inferiore a quella in rete, in quanto è
deprivata di una serie di dati importanti, quelli della sola presenza
del corpo "virtuale". La realtà "virtuale" e quella "reale"
(ammesso che quest'ultima possa mai essere conosciuta in quanto
tale - ovviamente non è possibile in questa sede affrontare
al questione filosofica della natura della realtà) non sono
l'una superiore o inferiore all'altra, ma due diversi tipi di esperienza,
ciascuna meritevole di essere indagata e rispettata, e ciascuna
capace di fornirci preziose informazioni sulla natura umana.
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è uscita in tre parti su Il Ruolo Terapeutico, 2002,
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Chi ritiene indissolubile il binomio divano/psicoanalisi si pone
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La
psicoterapia con Internet. Psicoterapia e Scienze Umane,
2003, XXXVII, 4: 57-73.
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