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La psicoterapia in rete: un setting terapeutico come un altro? Riflessioni da un punto di vista psicoanalitico

Paolo Migone

Via Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

 

Vorrei iniziare queste riflessioni sulla psicoterapia con Internet, cioè sulla cosiddetta psicoterapia on line o in rete, raccontando un episodio che mi è riaffiorato alla memoria. Una volta Eissler, ad un convegno tenuto a New York nel 1983 in occasione del trentesimo anniversario del suo classico articolo del 1953 sul "parametro", disse che qualcosa di vero doveva esserci nelle critiche che alcuni gli muovevano, nella misura in cui, ad esempio, nessuno era ancora riuscito a condurre una psicoanalisi col computer o passando al paziente dei bigliettini contenenti solamente le interpretazioni (non ricordo bene chi fossero gli altri oratori, mi sembra vi fossero Brenner e Arlow).

Per comprendere appieno questa affermazione, può essere utile accennare brevemente a quell'articolo. Com'è noto, il classico di Eissler del 1953 era stato scritto a cavallo degli anni 1950, in un periodo storico di grande fulgore della psicoanalisi americana, in cui si assisteva a un rapido aumento del numero di pazienti, anche con patologie gravi, che si rivolgevano al trattamento psicoanalitico. Presto gli analisti si resero conto che la "tecnica classica" non poteva essere applicata a tutti, e che erano necessarie delle modifiche a seconda della patologia. La tecnica classica prevedeva infatti l'uso privilegiato della interpretazione verbale, cercando di minimizzare tutti gli altri fattori per così dire "spuri" o "inquinanti" il setting, quali rassicurazioni, consigli, ecc. L'analista doveva restare il più neutrale possibile, seduto dietro al lettino in modo tale da ridurre la sua influenza sul paziente, e limitarsi a trasmettere verbalmente le interpretazioni, ritenute il fattore curativo par excellence della psicoanalisi. E' in questo contesto che si inserisce l'articolo di Eissler, un analista ortodosso molto autorevole, noto anche come strenuo difensore di Freud di fronte alle critiche che di volta in volta gli venivano mosse, e che più tardi verrà anche nominato Direttore dei prestigiosi Freud Archives (per la storia del rapporto tra Eissler e i Freud Archives, vedi Migone, 1984; per cenni biografici su Eissler, vedi Migone, 1999). In quell'articolo Eissler sistematizzò a livello teorico il problema delle indispensabili modificazioni del setting alla luce delle acquisizioni teoriche della Psicologia dell'Io, cioè dell'esigenza sempre più sentita di una maggiore considerazione del punto di vista adattivo e delle difese. Egli definì "parametro" ogni cambiamento della tecnica standard (la quale ad esempio era definita a "parametro zero", cioè senza modificazioni), e propose che è legittimo definire una terapia ancora "psicoanalisi" quando l'introduzione di un "parametro" si basa sui seguenti quattro criteri: 1) deve essere introdotto solamente quando sia provato che la tecnica di base non è sufficiente (in presenza ad esempio di un "deficit dell'Io" che non permetterebbe al paziente di reggere la tecnica di base); 2) non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; 3) deve condurre alla sua autoeliminazione; 4) le sue ripercussioni sul transfert non devono mai essere tali che non possa essere in seguito abolito dall'interpretazione. Eissler dunque, ribadendo per la psicoanalisi il valore ideale della tecnica "classica" (praticamente mai raggiungibile nella realtà, e di questo ne era ben consapevole, ma tuttavia utile come obiettivo euristico), ammise l'utilizzo di parametri ma a patto che fossero ridotti al minimo e che in qualche modo potessero in seguito rientrare all'interno del processo interpretativo.

Ci si può chiedere a questo punto come mai ho iniziato queste mie riflessioni sulla psicoterapia in rete accennando alla concezione del parametro di Eissler. Il motivo è che, ironicamente, e contrariamente alla comprensibile opinione dei tanti colleghi analisti che guardano con scetticismo alla psicoterapia in rete, seguendo la teoria classica di Eissler (che però - come si è detto all'inizio - lui stesso trent'anni dopo vide in modo più critico) parrebbe che una psicoterapia come quella in rete, basata essenzialmente sulla comunicazione verbale e per certi versi "impersonale" tra paziente e terapeuta, risponda ai criteri addirittura di una psicoanalisi, da molti ritenuta superiore o più "profonda" delle altre psicoterapie. Come risolvere questa apparente contraddizione?

Affrontare adeguatamente questa problematica implicherebbe addentrarsi nelle vicissitudini della storia della teoria della tecnica psicoanalitica nel corso di questo secolo, per cui in questa sede sarà possibile fare solo alcuni brevi riflessioni (per un approfondimento, vedi Migone, 1991, 1992a, 1992b, 1994, 1995a capitoli 1 e 4, 1995b, 1998, 2000, 2001, ecc.).

E' possibile che la cautela nei confronti della psicoterapia in rete sia spiegabile col fatto che vi è stata una crescente presa di distanza, più o meno esplicita, nei confronti di un certo modo di intendere il modello classico, basato sulla anonimità del terapeuta e su quella che potremmo chiamare una "personectomia" dell'analista, modello che pare estremizzato in modo quasi caricaturale appunto dalla psicoterapia in rete. Il fenomeno diffuso della psicoterapia in rete, insomma, tra le altre cose ripropone questa problematica interna al dibattito psicoanalitico e ci dà qui l'occasione di riprenderla brevemente in esame.

Seguendo la logica di Eissler, se una terapia con parametri (cioè con variazioni del setting a seconda dei bisogni del paziente, con interventi legati alla "persona" del terapeuta, e così via) è indicata per quei pazienti che, a causa della struttura deficitaria del loro Io, non reggono un tipo di setting limitato solo alla comunicazione delle interpretazioni, dovremmo forse dedurre che la psicoterapia in rete può essere indicata per quei pazienti che hanno un Io intatto (peraltro molto rari), o che si collocano al livello alto della psicopatologia (ad esempio solo per i nevrotici lievi)? Ritengo che non sia questo il modo di impostare il problema, e che la questione sia più complicata. E non ritengo neppure che oggi, grazie alle possibilità offerte dalla comunicazione multimediale, la psicoterapia in rete sia legittima nella misura in cui può emulare la psicoterapia "reale" (come sappiamo, oltre che con la posta elettronica [E-Mail] oggi è possibile comunicare in rete anche con programmi tipo chat [parola che significa "chiacchierata", "dialogo"], ad esempio ICQ [un acronimo che si pronuncia "I seek you", cioè "Io cerco te"], CUCMe [che si pronucia "See you see me", cioè "Tu mi vedi, io ti vedo"], Net Meeting, ecc., in cui è possibile sfruttare anche il timing degli interventi, i silenzi in tempo reale, gli orari delle "sedute" e così via - e col video e l'audio entrambi i partners sono virtualmente presenti come fossero assieme in una stanza, potendo quindi rispettare tutti i dettagli del rituale terapeutico grazie anche alla possibilità di simulare virtualmente la stanza d'analisi, persino la sala d'aspetto ecc. - si veda anche il capitolo "Forme della relazione: la psicoterapia in rete", in questo volume). Non ricordo esattamente la argomentazione all'interno della quale Eissler in quel convegno del 1983 espresse perplessità nei confronti di una "psicoanalisi col computer", ma non sarei d'accordo nell'interpretare il suo atteggiamento critico come dovuto al fatto che allora non vi erano i mezzi disponibili oggi, nel senso cioè che la psicoterapia in rete, data la vasta gamma di canali comunicativi che permette, oggi dovremmo ritenerla utilizzabile anche per pazienti più gravi.

Nemmeno questo dunque, a mio parere, è il modo di impostare il problema, cioè, come ho detto prima, ritengo che la questione non sia la possibilità o meno di emulare con la realtà "virtuale", oggi permessa dalla rete, la realtà "reale" dell'incontro paziente-terapeuta, laddove quest'ultima servirebbe da elemento di paragone o modello che deve essere avvicinato il più possibile. Il problema va posto in termini diversi, e precismente occorre una riflessione sulle premesse teoriche che facevano da sfondo alla concettualizzazione di Eissler (cioè alla concezione che per brevità abbiamo chiamato "classica"), premesse che, come si è detto, nel dibattito psicoanalitico successivo da più parti sono state discusse in modo critico. Il ragionamento di Eissler era estremamente coerente al suo interno, e tutt'ora il suo articolo è molto valido per quanto riguarda il ruolo del setting nella struttura logica dell'interpretazione (vedi anche Codignola, 1977). L'aspetto della concezione sottostante alla teorizzazione di Eissler che ora viene da più parti messo in discussione riguarda quello che lui chiama "modello della tecnica di base" (basic model technique), cioè da una parte l'idea che solo un tipo di setting (quello "classico") sia adatto ad evocare nel paziente quello che noi chiamiamo transfert, e dall'altra l'idea, strettamente connessa, che questo tipo di setting possa garantire all'analista una neutralità rispetto all'emergere del transfert, il quale appunto sarebbe tendenzialmente "puro" e "incontaminato" dalle influenze dell'analista. Come è stato discusso in seguito da molti autori (in primis Gill, 1982, 1983, 1984, 1993, 1994), i quali hanno un po' ripreso le intuizioni di Sullivan e della scuola della psicoanalisi interpersonale esposte fin dagli anni 1920 e 1930, non è sostenibile una neutralità da parte dell'analista, anzi, credere nella neutralità può solo portare ad una maggiore influenza sul paziente perché appunto non analizzata (in quanto ritenuta inesistente).

Si veda ad esempio la critica che Gill muove alla concezione della Macalpine (1950), che è esemplare a questo riguardo. La Macalpine aveva parlato di un "setting infantile" (sedute frequenti, costanza dell'ambiente, ecc., insomma la tecnica di base di cui parla anche Eissler) che servirebbe ad evocare quel tipo di transfert che noi vogliamo analizzare. Gill fa notare una contraddizione in questa concezione: se il transfert deve essere spontaneo e incontaminato dalla influenza del presente, perché allora abbiamo bisogno di apposite misure per farlo emergere? Perché, in altre parole, dobbiamo "manipolarlo" con un "setting infantile"? Il transfert che emerge grazie al setting "classico" non sarebbe quindi una pura ripetizione del passato, di fronte ad un analista che funge da specchio o da osservatore neutrale, ma una reazione a quel "setting infantile", sarebbe cioè un "transfert infantile", una reazione iatrogena, concettualmente simile all'ipnosi: niente di più lontano da quello che comunemente intendiamo per psicoanalisi (molto belle sono le pagine di Gill in cui mostra - con buona pace dell'analista "ortodoso" - come una psicoanalisi classica possa di fatto consistere in una "psicoterapia manipolatoria", mentre una psicoterapia nella quale si analizza attentamente il transfert possa essere definita a tutti gli effetti una "psicoanalisi"). Beninteso, qui non vengono criticate tanto le regole del setting classico (che è un setting come un altro), quanto la implicita idea che quel setting garantisca una neutralità dell'analista, e che solo quel tipo di setting, e non altri, debba essere utilizzato per tutti i pazienti e trasversalmente alle varie culture e ai periodi storici (se non fosse questa la implicazione sottostante, non sussisterebbero le regole standard, ad esempio il lettino e le quattro sedute alla settimana, tutt'ora imposte dall'International Psychoanalytic Association [IPA]). Ecco perché, venendo a questo punto a mancare le giustificazioni teoriche del setting classico, Gill in modo radicale si sbarazza dei criteri "estrinseci" (lettino, frequenza settimanale, ecc.), ridefinisce quelli "intrinseci", e sposa una concezione molto allargata di psicoanalisi, attuabile nei setting più diversi (sedute a frequenza monosettimanale o addirittura variabile, setting di gruppo, emergenze, terapie brevi, servizio pubblico, pazienti più gravi e/o con terapia farmacologica, ecc.). L'importante è che l'analista di volta in volta faccia del suo meglio per fare "l'analisi del transfert" (è questo l'unico fattore "intrinseco" che Gill conserva, e per di più ridefinendolo), cioè la relazione paziente-terapeuta la quale è sempre influenzata dalle condizioni del setting, qualunque esse siano. Ogni paziente reagirà ad un determinato setting non secondo un modello ideale che noi riteniamo valido indiscriminatamente per tutti i pazienti, perché è il transfert stesso (cioè le precedenti esperienze fatte dal paziente) che determina il modo con cui verrà vissuto il setting. Per fare un esempio volutamente schematico, se un paziente ebbe genitori molto riservati forse sarà a suo agio con un analista ortodosso, mentre se i suoi genitori erano espansivi e calorosi potrebbe vivere questo analista come freddo, distaccato, o forse punitivo: è ovvio che sarebbe un errore interpretare come transfert solo quest'ultimo comportamento, e considerare "normale" (cioè come "non transfert") lo stato di non conflittualità che prova il paziente di fronte ad un analista ortodosso. Potrebbe anche essere che questa apparente normalità ci impedisca di illuminare un'importante area problematica di funzionamento del paziente che invece comparirebbe se questi fosse esposto ad un diverso setting, e che in questo modo potrebbe essere analizzata (per un approfondimento della concezione di Gill, con anche un esempio clinico, vedi Migone, 1991, 1992a, 1992b, 1995a cap. 4, 2000, 2001).

Risulterà più chiaro a questo punto perché ho voluto far precedere queste mie riflessioni sulla psicoterapia in rete da questa lunga premessa sulla concezione di Eissler sul parametro e sulla revisione teorica di Gill. Se accettiamo che non vi sia più, per così dire, un "gold standard" per la psicoanalisi (inteso in termini di criteri estrinseci, cioè legato ad un tipo specifico di setting), ne consegue a rigor di logica che anche in rete possa essere condotto un trattamento che risponde ai requisiti della psicoanalisi: attenta analisi delle manifestazioni transferali a partire dal tipo di contesto in cui avviene l'incontro paziente-terapeuta (in questo caso Internet, nelle sue varie possibili modalità), ben consapevoli che questo contesto avrà sempre una pesante influenza sul transfert stesso, influenza che comunque dovrà essere attentamente analizzata.

Con questo ragionamento, dunque, sembrerebbe giustificato l'utilizzo di Internet per la psicoterapia, e per di più per una terapia psicoanalitica. Ma ritengo necessario fare alcune ulteriori riflessioni per chiarire meglio i passaggi fatti, perché è possibile che si creino fraintendimenti. Quelle che vanno analizzate meglio sono le implicazioni sottostanti al ragionamento che abbiamo fatto fino ad ora per arrivare ad una posizione che non esclude aprioristicamente l'utilizzo della rete per la psicoterapia. Prima ho detto che molti colleghi hanno un atteggiamento critico verso la psicoterapia in rete, e ciò potrebbe essere comprensibile se si pensa agli abusi che se ne possono fare o ad un suo uso indiscriminato e magari in sostituzione della psicoterapia tradizionale (anche se, per la verità, non è chiara la motivazione all'abuso della psicoterapia in rete da parte dei terapeuti, essendo più faticosa e meno remunerativa). Ritengo corretto essere critici verso la psicoterapia in rete, ma a patto che noi muoviamo la stessa critica verso la psicoterapia tradizionale, altrettanto abusata e praticata in modo "selvaggio" (qualunque cosa ciò significhi). Quello che ritengo importante sottolineare non è solo il fatto che un atteggiamento critico a priori verso la psicoterapia in rete possa nascondere un tacito lassismo verso la psicoterapia non in rete, ma anche che questo presuppone l'errato ragionamento secondo cui il fattore determinante è la forma esteriore che assume la psicoterapia (i criteri "estrinseci"), dimenticando che è il significato dell'esperienza nel suo complesso il fattore caratterizzante la psicoterapia. Questo tipo di ragionamento non può che condurre ad errori tecnici anche nella psicoterapia non in rete. Gli esempi a questo proposito sono innumerevoli: può portare ad esempio, in modo stereotipato, a ritenere che il lettino (come qualunque altro elemento estrinseco del setting) sia essenziale per la psicoanalisi, quando di per sé esso non significa niente e quello che è essenziale è il modo con cui vengono analizzate le reazioni del paziente al lettino, così come alla sedia e a qualunque altro elemento del setting o nostro intervento. Può portare insomma ad una reificazione della tecnica, quasi come se essa stessa, per così dire, potesse ergersi mostruosamente al rango di "teoria" (per brevità, rimando a Galli, 1988, 1990).

La psicoterapia in rete può essere indicata non solo nei casi di grande distanza geografica tra paziente e terapeuta (la rete in questo senso è un grande vantaggio, perché facilita molto in termini di spesa e di tempo), ma anche, proprio secondo la teoria del parametro di Eissler, può essere indicata nei casi in cui un determinato paziente (un esempio estremo sono certe problematiche schizoidi, o anche agorafobiche o di fobia sociale) non riesca ad affrontare il contatto diretto col terapeuta, e invece riesca ad aprirsi meglio mantenendo una certa distanza emotiva che per lui è simbolizzata dalla distanza fisica della rete (cioè, usando i termini di Eissler, nel caso di determinati "deficit dell'Io"). In una fase iniziale della terapia un paziente potrebbe venire "agganciato" in questo modo (ad esempio nel caso chieda aiuto per la prima volta in rete, come in una discussion list o in una chat line), per fare un determinato lavoro allo scopo di superare certe resistenze che gli permettano poi di continuare la terapia in modo tradizionale, se è questa la modalità che viene ritenuta indicata.

Ritengo quindi che la psicoterapia in rete possa avere una sua dignità come terapia, proprio allo stesso modo con cui altre tecniche terapeutiche hanno una loro dignità (terapia di gruppo, terapia familiare, ecc.). Alcuni dei problemi teorici e clinici sono simili a quelli della "psicoterapia al telefono", che viene già praticata da decenni da molti analisti, soprattutto negli Stati Uniti dove vi sono grandi distanze geografiche (le prime pubblicazioni sulla "telephone analysis" risalgono agli anni 1950, vedi ad esempio Saul, 1951). La psicoterapia in rete potrebbe essere considerata, per certi versi, una "nuova frontiera" così come, nella storia della psicoanalisi, di volta in volta si sono dovuti affrontare nuovi problemi tecnici che hanno costretto ad una salutare messa a punto della teoria: alludo alla terapia degli psicotici (Sullivan), dei bambini (Melanie Klein), del narcisismo (Kohut), di certi disturbi di personalità (Kernberg), e poi degli adolescenti, dei gruppi, delle famiglie, dei tossicodipendenti, delle delinquenze, ecc. Come sappiamo, tutti questi territori di confine hanno prodotto un salutare ripensamento della teoria psicoanalitica, che a volte ha prodotto innovazioni che più tardi sono state generalizzate arricchendo il nostro modo di comprendere il meccanismo della psicoterapia.

Non è tanto importante il fatto che la psicoterapia sia condotta attraverso la rete, quanto la teoria che utilizziamo per giustificarla, la nostra capacità di analizzare le motivazioni transferali e controtransferali che stanno dietro a questa scelta: forse che il paziente, oppure il terapeuta, nella loro preferenza della psicoterapia in rete esprimono una resistenza, cioè una difesa dalla psicoterapia non in rete? E nel caso, perché? O forse che, viceversa, la scelta della terapia tradizionale da parte di uno o di entrambi esprime una resistenza a un aspetto della psicoterapia in rete che eventualmente sarebbe stata possibile? E così via. Questi ragionamenti non sono specifici alla questione della psicoterapia in rete, ma sono gli stessi che vengono fatti nei confronti di qualunque intervento e a proposito di qualunque modalità terapeutica (ad esempio nella scelta della terapia di gruppo, della terapia familiare, ecc., prima citate). Anche queste scelte, così come il loro opposto, possono fungere da ricettacoli difensivi, ed è l'attenta analisi di queste dinamiche quella che costituisce il fulcro del nostro lavoro, e non vi è mai un luogo sicuro su cui si possa, per così dire, riposare analiticamente (per una discussione di questa problematica riguardo alla psicoterapia breve, con anche esempi clinici, vedi Migone, 1988, 1993, 1995a cap. 3 pp. 51-62, 1995c). Quello che mi preme sottolineare è che qui non si sta parlando della psicoterapia in rete in quanto tale, ma della psicoterapia tout court, cioè della logica utilizzata dal terapeuta per qualunque suo intervento o scelta clinica. E' solo affrontando la teoria della tecnica che sta a monte che è possibile affrontare adeguatamente la questione della psicoterapia in rete.

Vorrei fare un'ultima riflessione a proposito della teorizzazione classica del setting analitico come di una condizione tutta particolare atta ad evocare determinati reazioni trasnferali "regressive" da sottoporre poi ad analisi, in quanto si può fare qui un interessante parallelismo con la psicoterapia in rete. Da più parti infatti viene sottolineato come Internet possa rappresentare un "setting" tutto particolare che, in modo specifico, evoca in molti soggetti una serie di emozioni intense, stati regressivi o cosiddetti "perversi" (si pensi alle chat lines erotiche, agli improvvisi e violenti innamoramenti in rete, o alla pedofilia, e così via). In altre parole, Internet, per vari motivi, libererebbe emozioni molto profonde, paradossalmente maggiori di quelle evocate da situazioni "normali", cioè non in rete (si veda a questo proposito il capitolo "Perversioni in rete", in questo volume; vedi anche Migone, 2002). A parte il fatto che a mio parere questo può essere vero per determinati individui e non per altri, cioè che sarebbe un errore generalizzare questi fenomeni che sono invece relativi ad un determinato tipo di società, vorrei far notare che questo tipo di logica è la stessa utilizzata nel caso della tecnica analitica classica, dove si teorizza che viene utilizzato un setting particolare, ritualizzato, dotato di lettino, ecc., volto a stimolare un determinato comportamento (chiamato transfert) che si vuole far emergere ed analizzare. Secondo questo ragionamento, la "psicoanalisi classica" e la "psicoanalisi in rete" sarebbero omologhe: il transfert in un caso e le cosiddette "perversioni" dall'altro potrebbero essere i comportamenti che di proposito si vogliono far emergere, sarebbero cioè forme di "regressione" (analitica). Come penso risulti chiaro dalle mie precedenti argomentazioni, non sono d'accordo con l'utilizzo di questa logica. Infatti, in entrambi i casi l'errore è quello di generalizzare a tutti i soggetti l'effetto che un determinato stimolo ha su un campione più o meno grande di individui, e che comunque, anche nel caso questa reazione fosse generalizzabile, non è chiaro perché si debba desiderare di evocare questo tipo di "transfert" e non un altro (anche qui, rimando alla lucida critica di Gill [1984] al concetto di regressione in analisi).

Per finire, va ricordato che vi è un aspetto indubbiamente assente nella psicoterapia in rete rispetto a quella non in rete: il corpo "fisico" del paziente. Questa assenza può essere un fattore fondamentale per le cosiddette terapie corporee, che nel loro armamentario appunto utilizzano il corpo in quanto tale all'interno della terapia, e non soltanto le fantasie o le emozioni su di esso. Sotto questo punto di vista, la psicoterapia in rete è sicuramente "inferiore" a quella tradizionale. Ma, se abbiamo ben compreso le riflessioni fatte finora, non possiamo non ammettere che anche la psicoterapia tradizionale, a rigor di logica, è inferiore a quella in rete, in quanto è deprivata di una serie di dati importanti, quelli della sola presenza del corpo "virtuale". La realtà "virtuale" e quella "reale" (ammesso che quest'ultima possa mai essere conosciuta in quanto tale - ovviamente non è possibile in questa sede affrontare al questione filosofica della natura della realtà) non sono l'una superiore o inferiore all'altra, ma due diversi tipi di esperienza, ciascuna meritevole di essere indagata e rispettata, e ciascuna capace di fornirci preziose informazioni sulla natura umana.

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AGGIORNAMENTO 2003:

La psicoterapia con Internet. Psicoterapia e Scienze Umane, 2003, XXXVII, 4: 57-73.

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