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SULLA RIFORMA DELLA 180

di Massimo Purpura -ROMA

 

 

E' iniziato per l'ennesima volta un dibattito sulla riforma della legge 180.

Mi auguro che si riescano a superare contrapposizioni paralizzanti e che invece si possa realizzare una riflessione profonda e seria per migliorare veramente l'assistenza psichiatrica alla luce dell'esperienza maturata in questi anni ed anche dei cambiamenti che si sono verificati sul piano scientifico e culturale. Peraltro non possiamo dimenticare che qualunque legge, in questo campo, avrà un grande impatto anche in ambiti ben lontani da quello strettamente tecnico e specialistico.

Nei 22 anni che intercorrono dalla promulgazione della legge 180 e del suo successivo inserimento nella legge 833 ad oggi alcune questioni si sono evidenziate con sempre maggiore forza. Queste questioni richiedono attenzione, soluzioni reali e terapeuticamente efficaci basate su elementi certi e non solo su di una sorta di impressionismo ideologico.

CRONICITA'

La cronicità esiste e non sempre è dovuta a cattive pratiche terapeutiche. Può anche essere dovuta all'evolversi comunque di alcuni quadri clinici. Certo essa non va intesa come immutabilità della situazione (razionalizzazione dell'abbandono) bensì come necessità che una persona abbia bisogno di una cura, diversamente articolata nei tempi e nei modi per periodi molto lunghi ed a volte anche per sempre. L'elemento dei tempi lunghi non era stato, forse, messo sufficientemente nel conto: invece con questa dimensione temporale e con tutto ciò che ne consegue dobbiamo fare i conti. E' una dimensione che può facilmente diventare soffocante se non riusciamo ad introdurre delle scansioni e degli specifici modi, terapeuticamente utili, per affrontarla.

L'approccio terapeutico per queste persone deve poter contemplare anche delle strutture di ospitalità. La struttura abitativa, a vario livello di protezione, si pone però all'interno del processo di cura. Per curare intendo tutti quegli interventi biologici, psicologici ( nelle sue diverse articolazioni) e sociali che possono essere compresi all'interno di un modello di psichiatria di comunità e che comunque hanno una funzione evolutiva. L'abitare e/ o il ricovero disgiunto dalla cura si trasforma immediatamente in un mero collocamento con le caratteristiche della immodificabilità. Già adesso possiamo rilevare la estrema difficoltà di dimissione da quelle strutture residenziali che non hanno funzione abitativa .

Cerchiamo quindi di ragionare in termini di processi di cura piuttosto che trovare subito la scappatoia del posto letto che, ripeto, non può che essere un anello parziale e temporaneo. Inoltre le strutture residenziali devono essere il più possibile diversificate per vari livelli di autonomia e di bisogni. L'accorpamento in un unico contesto di persone con bisogni diversi non è sicuramente una buona premessa per un lavoro terapeuticamente efficace.

I posti di residenzialità sono numericamente insufficienti? Tutti i censimenti, non ultimo quelli del Gruppo Nazionale Progres del 2000 , fotografano una situazione italiana molto disomogenea ( a macchia di leopardo ). Questa disomogeneità è dovuta ad una corretta programmazione sulla base di dati epidemiologici locali o è determinata dalla casualità e/o dall'uso delle risorse finanziarie disponibili ? che cosa rende difficile o impossibile realizzare ovunque gli standards previsti dai due Progetti Obiettivi Nazionali ? forse se riuscissimo a dare una risposta a questa domanda ci eviteremmo inutili fatiche.

Ritengo che qualunque previsione di posti letto per pazienti acuti, per residenzialità o altro vada fatta sulla base di dati epidemiologici il più accurati e precisi possibile. Ed inoltre i dati sulla disponibilità dei posti letto devono essere completati con quelli dei Centri di Salute Mentale, dei Centri Diurni, dei D.H. ( sia quantitativi che qualitativi ). Non voglio assolutamente affermare che il buon funzionamento dei CSM e delle strutture semiresidenziali annulli il bisogno di residenzialità , ma che i due dati siano correlati e devono esserlo si.

Ogni proposta che non tenga conto dei dati sui bisogni rischia di cadere nella trappola dell'ideologismo.

La proposta di legge presentata in commissione affari sociali del Senato a firma dell'On. Burani Procaccini cerca di dare una risposta alla "questione cronicità "in modo forse efficiente(!) non credo però terapeuticamente efficace:

    • prevedere in modo massiccio ed unico strutture residenziali di 50 posti letto con un rapporto di 80 p.l. ogni 100.000 abitanti è compiere una sorta di corto circuito per giungere in modo aspecifico ad un collocamento statico dal quale peraltro non è previsto alcun successivo e graduale passaggio;
    • non viene fatto alcun cenno a processi terapeutici riabilitativi ma soltanto a terapie farmacologiche. Inoltre ricompare la dizione " pericoloso a sé ed agli altri ". Sembrava ormai chiaro che il concetto di pericolosità attiene al campo dell'ordine pubblico piuttosto che a quello della salute;
    • La reintroduzione del concetto di pericolosità —concetto squisitamente giuridico- in un campo sanitario mi sembra pericolosamente (!) legarsi alla possibilità che le diverse strutture del DSM siano anche " raggruppate in una unica zona o gruppo di edifici". Ciò renderebbe sicuramente più facile una sorta di ghettizzazione ed autoemarginazione di pazienti ed operatori piuttosto che una integrazione e socializzazione;
    • L'eccessiva schematizzazione della tipologia delle residenze e quindi una loro assoluta indifferenziazione, tranne che per l'età, non va sicuramente nella direzione della maggiore personalizzazione possibile ( intesa come ricerca della soluzione terapeutica più idonea per quella persona ) e quindi di una sua efficacia terapeutica;
    • Il fatto che nelle strutture residenziali sia no ospitati anche i pazienti provenienti dagli OOPPGG rende ancor più problematica la loro gestione in senso terapeutico;

PAZIENTI "NON COLLABORATIVI"/ OBBLIGATORIETA' DELLA CURA

Questo è uno dei punti più controversi su cui si basano molte delle proteste dei familiari. I familiari lamentano la seguente risposta " se il paziente non accetta di curarsi noi non possiamo fare nulla "o " se il paziente non vuole venire noi non possiamo obbligarlo".

I pazienti più gravi raramente "hanno coscienza di malattia " e quindi rifiutano inizialmente ogni terapia. Questa è una esperienza con cui gli operatori della salute mentale si confrontano quotidianamente. L'attuale legislazione prevede due ordini di possibili provvedimenti: il Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.) e l'Accertamento Sanitario Obbligatorio (A.S.O.). Entrambi possono essere graduati nel tempo e secondo le necessità. Utilizzando questi due strumenti legislativi esistono poi diverse modalità di approccio terapeutico che consentono, nel tempo, che il paziente acconsenta di essere parte attiva al processo di cura condizione assolutamente necessaria perché tale processo possa avere successo.

L'obbligatorietà della cura non può che essere limitata nel tempo e propedeutica al processo terapeutico vero e proprio , una sorta di terapia per la terapia.

  • Che il TSO possa "essere richiesto da chiunque ne abbia interesse e…….convalidato da uno psichiatra, esercitante la professione " introduce , quantomeno, nella terminologia un termine estremamente preoccupante quale può essere l'interesse ed il fatto che venga convalidato e quindi reso esecutivo — per 72 ore - da un solo specialista.
  • Anche in questo caso si parla di " danno o pregiudizio al malato o a terzi " rinforzando l'idea che si tratti di una misura più di sicurezza che non di cura;

  • Il diffondere indistintamente la possibilità del TSO in vari contesti ad es. le Comunità Terapeutiche come prevede il disegno di legge Burani Procaccini rischia di essere un ulteriore elemento di indefinitezza. Le strutture residenziali deputate per definizione ad ospitare pazienti per tempi medio lunghi si troverebbero costrette ad accogliere pazienti volontari ed in trattamento obbligatorio con una commistione di trattamenti assolutamente nociva proprio per i pazienti più gravi che abbisognano invece di ri /trovare delle situazioni il più definite possibili. L'obbligatorietà, peraltro, impone una organizzazione e strutturazione degli spazi particolare che non può essere riportata in tutte le strutture residenziali se non snaturandone il fine;
  • La attuale legge, comunque, prevede la possibilità di effettuare il TSO anche in contesti extraospedalieri. Ritengo che questa possibilità vada chiaramente regolamentata evitando una sorta di obbligatorietà diffusa: diffusa per il paziente, ma anche per l'operatore. La attuale legislazione è equilibratamente garantista. Peraltro sono convinto che con l'obbligatorietà non si vada molto lontano sulla via della cura. Ci si può rassicurare elemento sicuramente da non trascurare, ma difficilmente alla lunga si può curare;
  • Gli SPDC i luoghi attualmente deputati ad ospitare pazienti in TSO non sono strutturalmente adeguati? Chiediamoci il perché e dove non lo sono. Solo allora possiamo trovare gli strumenti operativi per modificare la situazione . Certo non risolveremmo il problema della non adeguatezza spostandolo dallo SPDC alle C.T. Gli SPDC sono pochi, sono mal distribuiti, spesso non sono adeguati. C'è bisogno di una nuova legge perché queste strutture siano collocate in spazi decorosi e funzionali così come peraltro stabiliscono una serie di provvedimenti legislativi nazionali e regionali ?

Se il problema, come mi sembra essere, è il non intervento, gli interventi ritenuti non adeguati, l'abbandono del paziente altre sono le aree da prendere in considerazione ad es. quello della formazione degli operatori — a partire da quella che viene impartita nelle scuole di specializzazione — e gli strumenti con cui intervenire.

 

 

CONTINUITA' DELLA CURA /LIBERA SCELTA

Nel progetto di legge Burani Procaccini spesso si fa riferimento al diritto della libera scelta dei luoghi di cura da parte del paziente o dei suoi familiari. Il sistema psichiatrico è sicuramente l'unico in cui si tiene conto " della appartenenza o competenza territoriale" . Questa procedura che sembrerebbe una violazione del diritto costituzionale alla libera scelta in realtà è legata ad un ben preciso pensiero: la possibilità di costruire una rete assistenziale che contempli in modo integrato le diverse fasi di un processo di cura — il Centro di Salute Mentale, Il Centro Diurno, lo SPDC ecc…. — e la possibilità di utilizzare tutte le risorse della comunità di vita del paziente . Faccio riferimento ai pazienti gravi o difficili ( non collaborativi ) per i quali maggiormente si preoccupa il progetto di legge. La possibilità /libertà di variare e spaziare da un luogo ad un altro, alla ricerca del migliore specialista realizza in realtà uno spezzettamento del processo di cura in tanti segmenti difficilmente collegabili tra loro: l'insieme sarà sicuramente meno efficace terapeuticamente. Un collega oncologo di un centro di riferimento nazionale riportava le sue difficoltà a collegare il momento del ricovero con la cura a domicilio per pazienti che chiaramente provenivano da tutta Italia. Il rischio che parte dell' ‘efficacia della terapia nel centro superspecialistico si perda in questo passaggio è assolutamente reale. Per le situazioni più difficili il valore aggiunto di ogni processo terapeutico è la possibilità di costruire una rete — sistema- che tenga insieme i vari sottosistemi che partecipano al processo.

RAPPORTO CON LE FAMIGLIE

La legge 180, la chiusura dei manicomi ha sicuramente squilibrato il peso dell'assistenza per i pazienti dall'istituzione ai familiari. Occorre riequilibrare questo rapporto. Intanto non considerando le famiglie un impiccio o un impaccio bensì una risorsa da sostenere. Devono poter essere sostenute in termini psicologici, in termini economici e nella gestione quotidiana del loro rapporto con il familiare malato. Esistono Tecniche specifiche di intervento con le famiglie e metodi di valutazione del loro coinvolgimento e dell'impatto che ha l'assistenza erogata. Tali tecniche hanno ricevuto una notevole attenzione nella letteratura recente per la possibilità di stabilire rapporti utili con i familiari dei pazienti. Questi interventi consentono di creare una atmosfera di reciproco sostegno tra familiari ed operatori e tra gli stessi familiari favorisce l'emergere graduale di un atteggiamento di maggiore fiducia nelle potenzialità di sviluppo insite nel paziente e nella stessa famiglia. Bisogna anche però prevedere degli aiuti economici così come per i portatori di handicap e che i comuni e gli enti interessati riservino quote di abitazioni per pazienti che non possono o non vogliono tornare a vivere in famiglia. Peraltro mi sembra assolutamente " fisiologico " che una persona possa separarsi dalla propria famiglia di origine e che venga concretamente aiutato a farlo se , come nel caso di un paziente non ha le risorse -non solo psichiche - per provvedervi autonomamente.

Il progetto di legge mi sembra eccessivamente teso a rassicurare le famiglie quasi spostando l'asse centrale dell'interesse di ogni intervento dal paziente ai familiari.

LA FORMAZIONE

È un capitolo fondamentale. E' l'elemento che ci può consentire di passare dalla quantità alla qualità. E' il terreno su cui occorre lavorare per superare alcune delle difficoltà che oggi sono riportate dai familiari ed anche dagli operatori. E' anche però la linea d'attività meno curata e meno finanziata. I nostri amministratori non si rendono conto che lo strumento fondamentale del lavoro in psichiatria sono gli operatori. Se questi non sono sufficientemente curati, formati nessuna legge può funzionare: come se facessimo funzionare una macchina costosissima senza alcuna manutenzione. In psichiatria non si spendono soldi per macchinari , si devono spendere per e sugli operatori. Solo così si può pensare di migliorare l'assistenza.

Tutta una serie di distorsioni che oggi possiamo verificare nella cura nascono ad es. dal divario esistente tra le evidenze cliniche (le buone pratiche cliniche) e ciò che è messo in pratica realmente. Questo divario è a volte molto ampio. E' quindi necessario che aspetti propri del bagaglio di ciascun clinico, quali la formazione, l'esperienza, e l'intuizione , siano integrati dalla conoscenza delle evidenze scientifiche disponibili al fine di poter garantire una pratica assistenziale di qualità

Il progetto di legge non fa però minimamente cenno a questo campo di intervento rifugiandosi nella obbligatorietà — questa volta rivolta agli operatori — o nella minaccia della denuncia

RAPPORTO CON LE UNIVERSITA'

Mi sembra che ancora una volta la preoccupazione maggiore sia quella di garantire l'autonomia universitaria in nome della ricerca e di quant'altro. Io mi auguro che ci possa essere una reale integrazione con la funzione delle scuole di specializzazione. Perché questo possa avvenire su un piano paritetico altra dovrà essere la cornice legislativa che possa garantire un rapporto realmente tra pari seppure diversi.

INTEGRAZIONE SOCIALE E SANITARIO

Sicuramente l'andamento clinico di un paziente è condizionato dalle sue condizioni di vita: il poter ad es. accedere più o meno facilmente a possibilità abitative, di lavoro o altro . Quindi nel lavoro con il paziente occorre tenere conto di questi elementi e facilitarne la fruibilità. Per questo è opportuno ed utile che del DSM facciano parte anche gli ass. sociali o altri operatori che possono facilitare con la loro professionalità questa integrazione. È anche però necessario che si concretizzi quanto definito nella attuale legge sulla integrazione socio-sanitaria e che i Comuni e le Regioni realizzino gli atti di loro rispettiva competenza.

Anche questo aspetto, di regolamentazione delle diverse competenze, mi sembra sia assente nel progetto di legge

FINANZIAMENTI

Uno dei punti deboli della psichiatria è sempre stata la scarsità di risorse. Sia la legge 180 ma soprattutto i progetti obiettivi nazionali non sono mai stati finanziati. Ci sono state promesse ma mai fatti. Pertanto non si è mai potuta fare una programmazione basandosi su risorse certe. Inoltre vi è una grande difficoltà nella riconversione delle risorse dei manicomi che sono stati chiusi in risorse per i Dipartimenti. Sicuramente la riconversione della spesa degli ex O.P. in risorse per i DSM risolverebbe tanti problemi. Inoltre il sistema di contabilità ancora in uso nelle ASL non consente che ciò che si risparmia in un settore possa essere utilizzato in un altro: la riduzione della spesa per i ricoveri nelle cliniche private non si traduce in risorse per l' assistenza domiciliare o per strutture residenziali riabilitative.

Occorre quindi che vengano definiti finanziamenti adeguati per poter realizzare i progetti di assistenza. Il 5% del totale del finanziamento dell'Azienda può essere un primo obiettivo. Naturalmente vi devono essere delle verifiche e valutazioni accurate perché non sempre quantità vuol dire qualità ed anche perché i programmi realizzati siano aderenti ai bisogni della popolazione a cui ci si rivolge . Anche in questo caso occorre fare attenzione alla estrema variabilità del quadro della realizzazione dell'assistenza per la salute mentale sul territorio italiano .

La legge 180, come ha correttamente scritto il presidente della Società Italiana di Psichiatria Prof. M.Maj è una legge quadro che fissa alcuni principi generali che abbisognano di passaggi successivi per una loro concreta realizzazione. La strada intrapresa, peraltro con molto ritardo, del Progetto Obiettivo Nazionale non ha dato assolutamente i risultati sperati: le risposte oltre ad essere assolutamente variegate e diversificate in tutto il territorio regionale ed a volte anche all'interno di una stessa regione sono anche a volte inadeguate. Dobbiamo quindi trovare altri strumenti che riescano a concretizzare meglio i principi per una migliore assistenza per i pazienti.

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