Nancy C. Andreasen: Brave new brain. Conquering mental illness in the era of the genome. Oxford University Press, 2001, pp 390, 29.95 US dollars
Questo libro il cui titolo parafrasa quello shakespeariano del romanzo di Huxley è stato recensito, con grande rilievo, da uno psichiatra del King's College londinese nel numero del 14 giugno 2001 di "Nature". Della stessa autrice, psichiatra e neuroscienziato, direttore dell'American Journal of Psychiatry, era apparso nel 1984 un saggio intitolato The Broken Brain (Harper & Row), nel quale si rilevava il fatto che la psichiatria si fonda su tre modelli: psicodinamico, comportamentale e biologico. Il cervello rotto (broken) è una metafora che sottende una spiegazione biologica e riduzionista della malattia mentale: una spiegazione essenzialmente meccanicistica, che in questo nuovo libro la Andreasen capovolge completamente. Questo suo sorprendente mutamento di rotta è destinato a suscitare molte discussioni e molte polemiche nell'ambito della medicina e delle scienze psichiche (anche, tra l'altro, in virtù della riconosciuta autorevolezza internazionale dell'autrice).
Nonostante il primo dei tre modelli sopraddetti, definito un po' sommariamente freudiano, fosse predominante negli anni '80, il precedente libro della psichiatra americana concludeva che vi sarebbe stato, a breve termine, uno spostamento verso il modello biologico. La nuova opera propugna invece un modello in cui neuroscienze, genetica e scienze del comportamento si integrano armoniosamente.
Dopo una parte introduttiva, in cui si riportano i risultati più recenti delle neuroscienze, della genetica e delle tecniche di analisi del cervello basate sulle immagini (imaging), si passano in rassegna le conoscenze attuali sulle neuroscienze e la genetica delle principali malattie psichiatriche schizofrenia, alterazioni dell'umore, demenza e ansia con particolare riferimento allo sviluppo storico delle relative terapie.
Il libro, attraverso un clamoroso rovesciamento delle precedenti posizioni, non sostiene ipotesi di determinismo biologico: mette infatti in risalto il ruolo dei fattori non-genetici nella malattia mentale e nella plasticità del cervello, in cui si verifica un continuo processo di riorganizzazione dei circuiti neurali, che può essere influenzato sia dal trattamento farmacologico che dall'approccio psicoterapico.
Per la Andreasen, il principale responsabile della disumanizzazione della psichiatria non è il determinismo biologico, ma una realtà economica ed istituzionale la gestione aziendalistica della clinica che in USA, ed ora anche in Europa, spinge verso la riduzione dei tempi del trattamento psicoterapico, tendendo a limitare l'assistenza psichiatrica al puro e semplice trattamento farmacologico.
I dati più recenti hanno comunque confermato l'importanza dei fattori genetici nella suscettibilità alla malattia mentale e le neuroscienze hanno permesso di identificare, attraverso neuroimmagini, le aree del cervello che funzionano in modo anomalo in diverse neuropatologie.
In questi ultimi anni si è verificata una "quiet revolution" che riguarda la genetica delle normali variazioni interindividuali: non si va più alla ricerca di un gene della schizofrenia o di altre malattie psichiatriche. Si tende infatti a sottolineare, oggi, che queste malattie sono influenzate da geni multipli, spesso indicati con il termine di "quantitative trait loci" (QTL), per dire che se geni diversi sono coinvolti in una malattia il tratto patologico sarà distribuito quantitativamente come un continuum, più o meno come avviene per la statura. In questa prospettiva, le malattie mentali sono definibili come estremi degli stessi fattori genetici o ambientali che provocano le variazioni all'interno di una distribuzione normale tipica di una popolazione. Questo può significare che non esistono malattie mentali come tali, ma che esistono solo gli estremi di certe dimensioni quantitative.
L'impatto dell'idea del QTL sulle neuroscienze dovrebbe portare alla definizione di quelle che sono le variazioni "normali" nei processi cerebrali: ne consegue, perciò, che la malattia mentale non si può più definire secondo la metafora del cervello rotto. Come non si può parlare di un genoma umano singolo, non si può infatti accettare l'esistenza di un cervello umano singolo.
La Andreasen espone questo nuovo modo di vedere nel suo libro, anche se non si può dire che sia riuscita a svilupparlo pienamente. Essa, infatti, ha solo dato l'avvio alla considerazione delle sue implicazioni in quanto psichiatra, ma non ha ancora iniziato a farlo in quanto neuroscienziata: impresa piuttosto ardua, se si tiene conto del fatto che le neuroscienze non hanno ancora realizzato, a tutt'oggi, una vera e propria integrazione con la genetica.
MARIO GALZIGNA