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"Revolutionary road" di Sam Mendes , Usa (2009) di Rossella Valdrè

 

 

 

"…La sua vita non era questo, perche’ lui non era il tipo d’uomo da ridursi a tanto. Non era un uomo come tutti gli altri. (…). Ecco perche’ voleva tempo per pensare, in modo da liberarsi una volta per tutte di quell’io insopportabile che si comportava come un povero rottame con moglie e famiglia a carico. Detestava la casa in cui si sentiva cosi’, perche’ sentiva che lo trasformava"

(M. Brennan, ‘Il principio dell’amore’)

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Quando Frank e April Wheeler, giovane coppia bella e "speciale", vanno a vivere in Revolutionary road, Connecticut, piccolo paradiso della middle class Americana degli anni ’50, il loro destino sembra gia’ segnato.

Si amano, certo, amano il loro futuro, ma April e’ reduce da una sconfitta (una ferita narcisistica, noi diremmo), un fallimento che la segnera’ per sempre: voleva diventare attrice di teatro, e il suo spettacolo e’ un flop. Frank, dal canto suo, e’ un giovanotto brillante, di bell’aspetto, ma gli e’ toccato subentrare al padre presso gli uffici della Knox, a fare il venditore, cosa che dentro di se’ disprezza e di cui non gli importa niente. Cercano di mettere via, di superare il fallimento della prova teatrale di April e inaugurano, con l’ingresso nella ridente villetta bianca di Revolutionary road, la loro nuova vita. Avranno amabili vicini di casa, avranno figli, amici, sicurezze. Avranno la vita davanti per dispiegare i loro sogni, darsi un’altra possibilita’.

Pur mancando, a mio avviso, della forza espressiva del precedente American beauty, questa nuova parabola americana sull’odio familiare del regista Sam Mendes, e’ pur sempre un film splendidamente recitato, di impianto teatrale, intenso, forse un po’ patinato, la cui bellissima fotografia fa da stridente contrasto con la dolente infelicita’ dei personaggi.

Infelicita’ di cui solo April e Frank, e soprattutto April, si fanno portavoce, di cui sono gli unici ad essere coscienti (oltre al folle figlio della vicina di casa, rinchiuso in manicomio). La loro "diversita’", il loro essere "speciali", non riesce pero’ a tradursi in una vita libera e soggettivamente individuata, ma si ripiega dolorosamente in scelte impossibili e solitudine.

Siamo negli anni ’50, in un’America del boom (Frank ha presto rapide possibilta’ di carriera), ma ancora rinchiusa nella morsa del perbenismo di provincia, dove i destini, soprattutto quelli femminili, sono segnati.

E’ April, infatti, il personaggio tragico. Dopo la rinuncia al teatro, ce la mette tutta per adattarsi alla nuova vita: cresce amorevolmente i suoi due bambini, e’ aperta e friendly con i vicini, ma non riesce del tutto a rinunciare al sogno, e lo individua in un viaggio, un improbabile traferimento a Parigi di cui in passato, distrattamente, Frank le aveva parlato. Se non e’ stato il teatro, sara’ Parigi! Non importa l’oggetto — noi lo sappiamo bene, quanta poca rilevanza abbia la consistenza dell’oggetto del desiderio, ma quanto piuttosto sia il desiderio l’oggetto in se’ — importa poter ricominciare a sognare, ridarsi un obiettivo ideale che catalizzi le energie e dirotti l’ostilita’ verso qualcosa che non c’e’.

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Sulle prime Frank e’ d’accordo, ma il progetto-sogno e’ presto ostacolato dal possibile avanzamento di carriera propostogli, e dall’arrivo di un terzo figlio. April non lo vuole, sente che sara’ la sua prigione a vita. Frank fa vigliaccamente appello al suo sentimento di madre per impedire il sogno, le butta addosso la colpa. L’aborto non e’ ancora legge dello Stato, e April deve fare da se’, in una solitudine colpevole che realizza un rituale inconsciamente suicidario: sembra che April cerchi di disfarsi di questo bambino non desiderato, ma la disperazione del suo sguardo ci fa comprendere che e’ di se’, di questa se stessa ormai inutile e braccata, che vuole disfarsi.

Revolutionary road riprendera’ a vivere come prima degli Wheeler, quando non ci saranno piu’. Immobile e pacata, inconsapevole. Il loro tormentato passaggio che aveva momentaneamente scosso qualche coscienza (la vicina col figlio matto, la coppia di amici), e’ rapidamente rimosso.

Si puo’ sopravvivere all’odio coniugale solo spegnendo l’audio, e’ la morale del film. Solo smettendo di ascoltare.

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Il mio pensiero e’ corso ai narratori di short-stories, di racconti americani, che tanto mirabilmente hanno descritto l’odio nel matrimonio. Nessuno ha saputo farlo bene come loro. Penso a Raymond Carver, ovviamente, ma vorrei qui soffermarmi sulla forse meno nota Maeve Brennan, irlandese di nascita che visse a New York, dove mori’ nel 1993, solitaria e psicotica, dopo aver pubblicato numerosi racconti sul New Yorker, in parte raccolti in italiano ne "Il principio dell’amore"(Rizzoli, 1997, The Estate of Maeve Brennan).

Non e’ tanto la violenza esplicita, ma la violenza implicita nella coppia, quella su cui la Brennam punta il riflettore. Quel braccarsi a vicenda, quel particolare non capirsi, quel trovarsi indifferenti, quell’odiare i reciproci dettagli dell’Altro. Scrivendo all’amico giornalista del New Yorker, William Maxwell (che ne cura una bellissima prefazione al libro), Maeve Brennan racchiude in poche parole la spiegazione del dramma:

"Tutto cio’ che dobbiamo affrontare nel futuro e’ cio’che e’ accaduto in passato. E’ insopportabile".

La coazione a ripetere. Troveremo nel matrimonio, la piu’ intima la piu’ terribile delle nostre relazioni adulte, troveremo quello ci hanno lasciato gli oggetti del passato, ri-troveremo. Proprio li’, dove abbiamo riposto tante speranza, proprio li’ troveremo quello che abbiamo lasciato, per i piu’ sfortunati di noi, quello da cui siamo fuggiti. April e Frank si uniscono per non ripetere il destino che supponiamo essere stato dei loro genitori (il lavoro di venditore per Frank, la maternita’ come unico ruolo per April), e tuttavia e’ proprio la tela coniugale, con la sua silenziosa tessitura quotidiana, a ricacciarli in quello stesso destino.

Siamo destinati a ripetere. E’ insopportabile.

Mirabili le descrizioni che la Brennan fa della coppia Hubert e Rose, per esempio (nel racconto L’annegato), la sua coppia piu’ infelice. Hubert osserva Rose "…E la vedeva, tutta seria, prendere il cartoncino che il sarto le portava, portarlo a casa e sedersi da sola, il pomeriggio, a sognare, avvicinarlo alla finestra per osservare i dettagli con la luce migliore, alzando gli occhi soltanto per guardare i fiori del suo giardino, e continuare a sognare, sognare, sognare, sognare sempre, ma che cos’e’ che aveva sognato per tutta la vita? Non glielo aveva mai detto " (corsivo mio). E oltre " Se ne stava la’ seduta a lavorare a maglia o a cucire o a rammendare o a sfogliare una delle riviste femminili che adorava, l’espressione tutta intenta a cio’ che aveva nelle mani; e nello spazio di un istante diveniva consapevole che lui la stava guardando, e quell cambiamento era terribile a vedersi. Quel viso veniva distrutto dalla vergogna e dall’apprensione. E tutto questo (….) si doveva al fatto che aveva paura di lui".

Siamo negli anni del film, quei virtuosi anni ’50-60, pieni di promesse e ipocrisie.L’esclusiva dimensione domestica e le maternita’, su alcune donne sensibili e dotate, se inizialmente ambito, doveva poi sembrare un carcere abitato dalla colpa.

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In un’altra delle coppie di questi racconti, i coniugi Bagot, dalla sofferenza piu’ tenue e sommessa, e’ lui, Martin Bagot, a sentirsi schiacciato. "….poteva essere descritto come uno che aveva moglie e famiglia ‘a casa’, ma mai ‘a carico’. Ecco perche’ voleva tempo per pensare, in modo da liberarsi una volta per tutte di quell’io insopportabile che si comportava come un povero rottame con moglie e familgia a carico. Detestava la casa in cui si sentiva cosi’, perche’ sentiva che lo trasformava. Quand’era lontano stava bene ed era capace di convincersi che stava bene anche con Delia. Dopotutto, aveva la casa e le bambine, cosa poteva volere di piu’. Aveva una vita sua. Continuava a ripeterselo" (corsivo mio, da Il dodicesimo anniversario di matrimonio).

Tutto cio’ non deve stupirci. Le persone che amiamo di piu’ sono quelle che odiamo di piu’. Frank e April si amano, e si detestano con uguale sincerita’. Come gli Hubert e Rose, come i coniugi Bagot. Tutti nelle loro Revolutionary road, mettono in scena la propria personale commedia.

Il film di Mendes, cosi’ come i racconti della Brennan che ha evocato in me, paiono desolati, senza speranza. April muore, Frank resta esiliato e solo. La speranza nella sopravvivenza senza vittime del legame coniugale, sta forse nel mantenere questa ambivalenza, amore e odio, sempre dinamica, sempre vitale, avendo cura che l’odio non prevalga, e non si cristallizzi. Che quell’insopportabile passato che e’ nel presente abbia un accesso parziale, si ripeta ma non del tutto, e ci consenta spiragli e crepe per reinventare un mondo nuovo.

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Il tema del rapporto tra Cinema e psiche è molto intrigante sia sul versante specifico della rappresentazione sia sul versante della interpretazione dell'arte cinematografica. Come redazione anche alla luce della sempre maggiore concentrazione dei media saremmo lieti che questa sezione si sviluppasse in maniera significativa e in questa logica contiamo sulla collaborazione dei lettori da cui ci aspettiamo suggerimenti ma soprattutto collaborazione.

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