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ANDREA ANGELOZZI

Dipartimento Interaziendale di Salute Mentale

Padova

Via Avanzo, 35 – 35132 PADOVA

Tel 0498214914 – Fax 0498214943

e-mail: arctor@libero.it

 

 

Nonsoloéquipe. L’organizzazione del lavoro in psichiatria

 

RIASSUNTO

SCOPO: questo scritto si propone di ripensare la tradizionale organizzazione del lavoro in psichiatria, cercando modelli di analisi che vadano oltre quelli fino a qui utilizzati (psicologia dei gruppi, economia aziendale) e strumenti che permettano nuove modalità del lavoro in gruppo. Si cerca di mostrare come in genere le attuali organizzazioni siano l’esito tradizionale di taluni processi storici e sociali della produzione e del lavoro, e come, accanto a questi modelli, di tipo piramidale, esistano approcci di lavoro in rete, basati sulla partecipazione e la condivisione. L’Autore cerca di mostrare come i vari modelli influenzino diversamente aspetti centrali quali la fiducia, il controllo, la gestione delle informazioni, il clima relazionale e la motivazione, proponendosi di evidenziare le loro ricadute sul lavoro con i pazienti.

METODI: vengono esaminati i modelli generali di tipo piramidale che si sono succeduti storicamente, dall’etica protestante agli sviluppi recenti, con particolare attenzione a quello di Taylor e al modello psicologico di Mayo. Vengono descritti i modelli partecipativi in particolare la teoria Y e quella Z, cercando di delineare le caratteristiche di un buon ambiente di lavoro. Si cerca di individuare la presenza degli aspetti di tipo piramidale nel lavoro attuale nei DSM e di indicare le correlazioni con aspetti gestionali relativi ai pazienti. Vengono indicate possibili ipotesi organizzative alternative, legate ad aspetti realmente partecipativi ai processi decisionali e di valutazione, a una gestione trasversale della informazione e al team come strumento di lavoro di gruppo all’interno di una cultura condivisa.

CONCLUSIONI: emerge come i tradizionali modelli piramidali non siano, nonostante vengano dati per scontato, gli unici esistenti così come non sono i più vantaggiosi nella organizzazione generale del lavoro ed in particolare in quello della salute mentale. Una psichiatria di rete richiede innovativi modelli di rete nel lavoro. Infatti, dal legame fra alcuni aspetti essenziali di un buon ambiente di lavoro e gli aspetti significativi delle buone alleanze terapeutiche, emerge la necessità di una riflessione sulle organizzazioni di lavoro che includa modelli più completi di analisi della gestione delle risorse umane nei Dipartimenti di Salute Mentale.

Parole chiave: equipe, management, team, lavoro in rete

SUMMARY

OBJECTIVE: this paper argues for the necessity of rethinking the traditional organization of work in psychiatry, looking for analysis models that go beyond those until here used (groups psychology, business economy) and tools that allow new modalities of working in group.

It aims at drawing as usually present organizations are the traditional outcome of some historical and social processes of production and work and, beside these models, of a pyramidal type, net-working approaches based on participation and sharing exist.

Author tries to show as the various models influences some central aspects like trust, job control, information management, relational climate and motivation, aiming at emphasizing their spin-off for working with patients.

METHODS: the following one another of general pyramidal models, is traced, from Protestant ethics to recent developments, giving special attention to Taylor’s model and Mayo’ psychological one. Also Participative models are described, in particular "Theory Y" and "Theory Z", trying to outline the features of a good work environment. Author tries to individualize aspects of pyramidal models in present working in Mental Health Departments and to underline their links to care management with patients. Possible alternatives organization hypothesis are pointed out, tied up to aspects of real participation to decision-making processes and of evaluation, to a transversal management of the information and to the team as a tool of working group, inside a shared culture.

CONCLUSIONS: it emerges that traditional pyramidal models are not, despite usually taken for granted, the only existing as they are not the most advantageous in the general organization of job and in particular in that of mental health. A net-psychiatry needs new networking models. In fact, from the tie between some essential aspects of a good setting of work and elements of good therapeutic alliances, it emerges the necessity of a reflection on the work organizations that include more complete models of analysis of the management of the human resources in the Departments of Mental Health.

Keywords: Workgroup, management, team, net-working

 

INTRODUZIONE

In questo lavoro vorremmo cercare di argomentare due tesi: la prima è che nella attuale organizzazione del lavoro in psichiatria, si danno spesso per scontati taluni modelli generali che non sono né unici né particolarmente vantaggiosi, ma solo quelli che hanno imposto la tradizione e specifici sfondi storici e sociali; la seconda è che queste modalità con cui la organizzazione si rapporta agli operatori, influenzano il modo con cui questi si rapportano ai pazienti.

L’attenzione alle dinamiche organizzative ed al loro riflesso nella gestione dell’attività caratterizza da tempo la psichiatria, che ha peraltro selezionato in modo molto specifico gli strumenti di analisi e di operatività. L’attenzione per il ruolo della risposta emotiva della struttura curante nel condizionare l’intervento, la familiarità clinica con dinamiche gruppali, le componenti psicodinamiche nei rapporti autorità-dipendente, hanno privilegiato strumenti psicologici per la elaborazione dei meccanismi in gioco. La necessità poi di gestire la complessità propria di una psichiatria multidisciplinare ed attenta agli aspetti di comunità, ha indicato nel concetto di "équipe" un riferimento costante,

Così, problemi organizzativi (e lo stesso burn–out) sono spesso stati letti come difficoltà psicologiche individuali o del gruppo, oppure vere e proprie disfunzioni psicopatologiche nel ruolo di leader o di dipendente, da affrontare con strumenti terapeutici. La organizzazione del lavoro viene così implicitamente considerata come l’unica o la migliore possibile, senza tuttavia che i suoi presupposti vengano esplicitati e possano quindi essere messi in discussione. Queste modalità richiamano approcci fortemente clinicizzati al disagio mentale, ove i problemi vengono espropriati dai loro contesti e da una ricerca di senso e fatti rientrare comunque nei modelli nosologici esistenti, considerati un punto d’arrivo del sapere.

Le modalità tradizionali non sono a-priori del lavoro, ma attingono un senso legato alla linee generali della organizzazione produttiva ed al suo condizionamento storico-sociale, la cui analisi si affianca a quella psicologica per fornire un ulteriore essenziale spazio conoscitivo ed operativo.

Inoltre l’atmosfera operativa che si costruisce con i pazienti risente della struttura assunta dalle relazioni nella organizzazione di lavoro, aggiungendosi quale fattore ulteriore nel gioco già complesso delle interazioni reciproche fra gli aspetti psicopatologici del paziente, le risposte degli operatori, e la loro elaborazione in équipe.

Senza questi strumenti più ampi, la lettura delle organizzazioni di lavoro e dei suoi problemi è più difficoltosa, anche perché non è mai un unico aspetto a svelare il modello utilizzato. Spesso anzi si tenta la coabitazione fra modalità organizzative strutturalmente diverse, possibile peraltro solo con lo svuotamento del loro contenuto effettivo. E proprio di questa confusione risente spesso il concetto di equipe, così inflazionato da implicare un rischio di rarefazione degli effettivi contenuti, non certo sanata dal proliferare delle varianti (minièquipe, macroèquipe, équipe integrata…) o dal moltiplicarsi del numero delle riunioni. Le sue linee comuni di sfondo rimangono quello di un gruppo di lavoro che mette insieme le proprie competenze in forma multidisciplinare e che condivide gli obiettivi e le strategie su progetti operativi specifici; ma questo quadro si presta a infinite varianti locali e, se non meglio specificato, non dice nulla sulla reale filosofia gestionale, essendo compatibile con modelli organizzativi che vanno da quelli strettamente gerarchici a quelli ampiamente partecipativi. La nostra impressione è che una psichiatria complessa ed integrata come quella attuale richieda strumenti più specifici, quali possono essere i modelli di condivisione orizzontale, cioè i modelli di lavoro in rete.

I MODELLI DI ORGANIZZAZIONE PIRAMIDALE

Il modello protestante

L’etica protestante del lavoro, propria del capitalismo, ed attualmente dominante in gran parte del mondo occidentale, nasce dalla logica che governa il monastero benedettino, dove il precetto che l'ozio è nemico dell'anima trasforma il lavoro in un "dovere voluto".

In questo modello l’autorità sceglie l’obiettivo ed un gruppo ristretto di persone per svilupparlo ed elaborarne risultati, che devono poi essere accettati così come sono. Si ispira in fondo alla assenza di discussioni con cui i monaci adempiono ai lavori assegnati, ove non è concepibile che il superiore ordini qualcosa di irragionevole e in ogni caso l’importanza del lavoro non risiede in ciò che si fa, ma proprio nell’abbandonarsi alla obbedienza. Così nascono i pregi del dipendente "laborioso, affidabile, leale", ed i criteri che trovano oggi ampia applicazione negli usuali schemi di valutazione del personale.

Il pensiero protestante crea l'equivalenza fra tempo e denaro ed il conseguente concetto di "ottimizzazione". Presuppone poi che la maggior parte delle persone non siano responsabili e debbano essere guidate dall’autorità e legate all’orologio, in analogia alle regole benedettine che codificano la ripetizione rituale alle medesime ore canoniche, impoverendo passione e creatività.

L’etica protestante rafforza l’idea di proprietà, e, in continuazione della norma monastica, dove la curiositas è considerata un vizio, la estende anche alla informazione, ammettendo solo flussi piramidali ed unidirezionali, ove la conoscenza va al manager, senza restituzione.

Il modello di Taylor

Taylor perfeziona il modello protestante con una organizzazione "scientifica" del lavoro. Partendo da una visione diffidente e negativa, ritiene che i lavoratori possano essere costretti ad una "cooperazione armoniosa" con il management solo da una analisi scientifica e imparziale di ogni mansione, che in modo oggettivo elimini le controversie e definisca la migliore produttività.

Per regolare scientificamente una produzione ottimale, costruisce un sistema burocratico, parcellizzato e gerarchico. La burocrazia risiede in una rigida descrizione di regole e mansioni, che neutralizza nei dipendenti iniziativa ed intelligenza, sentite come destabilizzanti e da riservare ai manager. A questi vanno riservate anche la progettazione e la responsabilità complessiva, lasciando al dipendente solo lo specifico frammento operativo che gli ha dato la catena di montaggio. Questa gerarchia si lega poi a un costante, e talvolta offensivo, controllo sulle attività, attuato con una rigida contabilità ed un meccanismo piramidale di supervisori, da cui originano inappellabili ingiustizie ed una politica che contrappone gli operatori e li espropria delle relazioni.

Il taylorismo, nonostante danneggi la produzione, lasciando che alienazione e noia sostituiscano fiducia e conoscenza, ha impregnato il modo di lavorare. La diffusione delle tecniche del management scientifico, nel tentativo di prescrivere "l’unica via migliore" di lavorare, ha portato a trasformare qualunque attività in una linea di assemblaggio da suddividere in singoli frammenti analizzabili. La filosofia della catena di montaggio si è estesa così anche di fuori della fabbrica, al prezzo della perdita della visione complessiva e della responsabilità globale.

Chi pensasse che tale sistema non riguardi il lavoro in psichiatria, dovrebbe fermarsi a riflettere su alcuni indizi, in particolare nella gestione della complessità dei percorsi psichiatrici. Il tentativo di costruirsi identità ed autorevolezza all’interno delle logiche aziendali e cliniche delle ULSS, è stato spesso risolto con la strada apparentemente più facile e "scientifica", cioè pensando l’insieme come una catena di montaggio del mentale, smontabile in frammenti sequenziali, analizzabili per essere ottimizzati e quantificati, dove i problemi, persa la loro interezza, diventano "aree specifiche di intervento", da affidare ai settori competenti. Parallelamente è emerso il tentativo di omogeneizzare la complessità al livello più basso e quindi più standardizzabile, ottimizzando le procedure attraverso rigidi protocolli o linee di comando. La gestione di équipe diventa allora spesso il tentativo di recuperare aspetti della frammentazione che il sistema ha creato e di illudersi su una possibile integrazione e partecipazione. Queste contabilità dimenticano, parafrasando Carlzon, che un servizio non è solo l’insieme delle sue risorse, ma anche, e più importante, la qualità del contratto fra i pazienti e gli operatori. (Carlzon, 1977).

Collaborazione e partecipazione vengono limitate a aspetti marginali, quando non mascherano la richiesta di adesione a decisioni già prese, o la delega per la responsabilità di decisioni svantaggiose. La reale filosofia di fondo viene resa indiscutibile, ritenendola ovvia e spesso addebitandola ad un universo istituzionale popolato di incombenti poteri intangibili, quali le "decisioni del Dipartimento" o "gli obiettivi strategici dell’Azienda".

Anche la frequente accentuazione gerarchica delle procedure, facilita forse la documentazione delle attività, ma costruisce un sistema rigido, che non può concepire esigenze individuali, ma solo immodificabili regole generali quantificabili, non sempre adatte per gestire i problemi di organizzazione o nei rapporti con i pazienti. Quest’atteggiamento meccanico-burocratico sostituisce un reale rapporto terapeutico con una interazione spersonalizzata, talvolta guidata da autorità evanescenti quali la "scienza" o le "direttive dipartimentali", che impone la collaborazione sulla base del "sapere" e delle regole.

Il modello psicologico di Elton Mayo

La tendenza ad usare strumenti psicologici per analizzare ed intervenire nella organizzazione del lavoro, trova radici nel cosiddetto "effetto Hawthorne", dal nome dell’ambiente sperimentale utilizzato da Elton Mayo nel 1923, nel tentativo di comprendere quali variabili fossero state trascurate, e spiegassero il fallimento produttivo del management scientifico.

Il risultato fu sorprendente: taluni cambiamenti (illuminazione, pause, turni, etc.), miglioravano la produttività, ma la mancanza di una correlazione specifica mostrava che la effettiva variabile era più generale e consisteva nel diverso clima delle relazioni sul lavoro. Il supervisore aveva solo funzioni di osservazione comprensiva e attenta, le persone si sentivano protagoniste e partecipavano alle decisioni in un clima di fiducia. Emergeva così il ruolo del fattore umano mettendo in crisi la idea Tayloristica dei lavoratori come macchine da regolare in modo burocratico.

Mayo tuttavia orienta la questione in termini psicopatologici, pensando di ridurre la componente umana a problemi psicologici personali del lavoratore, in particolare una "risposta ossessiva" all'ambiente di lavoro, dove la insoddisfazione porta a parlare in modo distorto dei problemi ed ad influenzare negativamente la produttività. Quest’approccio riduce le critiche ad elementi emotivi, svuotandole nel loro contenuto e nella possibilità di intaccare l’assunto che la organizzazione sia la migliore possibile. Superare le difficoltà non richiede allora mutamenti nelle politiche dell’azienda, ma solo cambiamenti nelle menti dei dipendenti verso un maggiore adattamento, ottenibile discutendo i problemi personali con strumenti di counselling.

In fondo, Taylor e Mayo presuppongono entrambi che solo il management può stabilire in modo ottimale organizzazione e strumenti di lavoro, senza poter pensare che il dipendente abbia qualcosa da dire. La concezione di Mayo è più ingannevole, quando afferma di poter migliorare i problemi, pur mancando della capacità di affrontare i conflitti e portare reali cambiamenti; e quando proclama l’impegno di rendere i lavoratori soddisfatti, sperando in realtà che siano così più produttivi. E’ un fine legittimo per un'azienda ma che inganna i lavoratori, e trascura che la produttività non si correla linearmente alla soddisfazione, risentendo di aspetti delle relazioni di lavoro molto più specifici e concreti.

Nonostante questi gravi limiti, la concezione di Mayo ha impregnato molti ambienti di lavoro, ed in psichiatria ha forse contribuito ad inquinamenti fra gruppi organizzativi e gruppi terapeutici, o alla prassi di affrontare in équipe le difficoltà operative come una risonanza emotiva sugli operatori delle difficoltà dei pazienti, ma non il problema delle reali condizioni organizzative.

Questa non vuole essere una critica alla importanza di elaborare i meccanismi emotivi che sono presenti nel lavoro individuale e di équipe con i pazienti, ma una richiesta di analoga consapevolezza sulle dinamiche organizzative ed i loro limiti funzionali, sociali e storici. Ed è anche un passaggio che spesso ci si trova a dovere affrontare con i pazienti, che cioè il mutamento non passa esclusivamente attraverso tecniche di elaborazioni intrapsichiche, ma anche in una analisi serena dell'ambiente e della possibilità di modificarlo in termini realistici.

I modelli piramidali recenti

Sia Taylor che Mayo rappresentano varianti della così detta "Teoria X", che individua i modelli tradizionali, di tipo piramidali.

Il taylorismo ha aperto la strada al modello di Drucker (Levering, 2001) dove professionisti in management si focalizzano solo sugli obiettivi economici, giustificando a tal fine ogni mezzo. E’ un orientamento per risultati e non per processi, che porta a non preoccuparsi della qualità dell’ambiente di lavoro, bensì solo di una produttività traducibile quantitativamente. Anche se lo stesso Drucker ammette che la persona che fa il lavoro lo conosce meglio di chiunque altro, è netta la divisione fra dirigenti per professione, che comandano con apparente sicurezza in aree dove sono sempre più lontani dalle conoscenze specifiche, e gli operatori, che devono solo prendere ordini, senza alcuna autorità e responsabilità per le decisioni. E’ un aspetto molto criticato da Carlzon, che sostiene invece la necessità di dare al personale di front-line il pieno potere di agire. (Carlzon, 1977)

Il modello di Mayo ha invece aperto la strada al "management della eccellenza" di Tom Peters (Peters & Waterman, 1995), che tende a sfruttare motivazioni emotive, quali l’aspirazione alla lode o al ritenersi bravi o protagonisti, rafforzandole in maniera indipendente dalla effettiva realtà. La illusione di un buon ambiente di lavoro viene creata facendo credere all’operatore di fare parte di un meccanismo decisionale che in realtà risiede altrove, in genere con continue riunioni su tutto, durante le quali tuttavia le decisioni non vengono assunte o vengono poi svuotate in altre sedi. Il modello trascura volutamente che l’importante non è fare riunioni, ma fare riunioni in cui i problemi vengano realmente posti e venga chiarito o deciso qualcosa. Questa "tecnologia dell’entusiasmo" è una falsificazione della realtà che manipola aspetti non razionali della persona, dove ad una informazione corretta si preferiscono slogan ed eventi celebrativi, mentre fallimenti e problemi vengono taciuti o fatti passare in second’ordine. La mancanza di una reale informazione impedisce la critica e scelte libere, diventando una persuasione ingannevole, non sanata dalla integrità di chi gestisce la situazione o dal fine di un ipotetico vantaggio del dipendente.

Spesso si riflette sui pazienti, coinvolti da momenti innovativi in spinte al mutamento che corrono il rischio di sopravanzare una valutazione realistica delle loro possibilità, aprendo la strada alla delusione e al fallimento. Talvolta emerge anche nel tentativo di alcuni terapeuti di giustificare una non piena informazione circa la terapia con l’apparente vantaggio per il paziente.

MODELLI ORGANIZZATIVI CONDIVISI DI RETE: I "BUONI AMBIENTI DI LAVORO"

La attenzione nella formazione manageriale in Psichiatria è passata dalla competenza clinica ad una preparazione gestionale che si incentra sugli aspetti burocratici ed economici, ma prescinde in genere, da una conoscenza delle organizzazioni di lavoro.

In realtà proprio una adeguata gestione delle risorse umane risulta determinante per una buona operatività, suggerendo alternative positive al quadro che abbiamo fin qui descritto, inquietante, ma non certo inusuale. Questi modelli non tayloristici sono noti sotto il nome di "Teoria Y" (McGregor, 1985) e della evoluzione che ne ha fatto Ouchi (Ouchi, 1981), la "Teoria Z", con termini che mostrano un voluto contrasto con il modello tradizionale, la "Teoria X",.

Trovano i loro fondamenti nel lavoro nel mondo antico e nella prassi della Accademia, caratterizzato dalla passione e dalla dedizione, e costruito attraverso la condivisione e l'autorganizzazione. Vi è la motivazione di creare qualcosa che la comunità dei pari possa ritenere socialmente prezioso, costruendola attraverso un sistema aperto, in cui tutte le idee prodotte sono offerte al vaglio critico di chiunque. Ripreso nel Rinascimento, sopravvive oggi nella etica propugnata dagli hacker, in molte forme della impresa scientifica e del lavoro. Questo approccio "open source", ove il lavoro prodotto, reso pubblico, viene usato e migliorato dagli altri, non è solo una scelta etica, ma di efficacia, perché si è rivelato il più motivante, creativo e produttivo.

Si parte da un problema sentito tale, non dalla autorità, ma dalla comunità degli operatori, e vengono fornite soluzioni utilizzabili e criticabili da chiunque, la cui importanza non risiede solo nel risultato finale, ma anche nella catena di discussioni ed informazioni che hanno portato alla individuazione del problema, a progettare soluzioni, e al risultato stesso.

La posizione di autorità non è permanente, ma è basata sui risultati, spingendo a coltivare gli interessi e a costruire una rete con chi li condivide. Mancano così gli ostacoli al pensare ed agire, propri dei rigidi meccanismi delle strutture autoritarie e, diversamente dalla regola benedettina: "parlare ed insegnare spetta al maestro, tacere ed ascoltare all'allievo", è ovvio che chiunque insegni ciò che ha imparato.

I modelli Y e Z riprendono questi aspetti, caratterizzandosi per una qualità particolare delle relazioni nell'ambiente di lavoro, relative ai colleghi, ai manager ed al lavoro, che, nel caso specifico della psichiatria, è rappresentato soprattutto dal rapporto con i pazienti ed il loro ambiente. Si tratta di sistemi di lavoro costruiti a rete, cioè con legami in orizzontale, ed il cui pregio è che gli individui si sentono pienamente i punti di intersezione.

Il nucleo centrale di un buon ambiente di lavoro infatti viene di solito indicato in un orientamento alle persone, che si sentono trattate come esseri umani, unici e non trasformabili in modo umiliante in puri strumenti meccanici. I suoi componenti sono un clima relazionale di fiducia, di effettiva partecipazione alle decisioni e di corretta gestione della informazione.

Il livello di fiducia è il fattore che più influenza l’ambiente di lavoro, ed è anche il più deperibile: non "data" una volta per tutte, ma "prestata" solamente, la fiducia obbliga ad un impegno costante. Mentre il tentativo di costruirla attraverso "tecniche" legittima facilmente il sospetto di artificiosità, ottenendo il risultato opposto di distruggerla, viene nutrita dalla percezione reale di essere rispettati e riconosciuti nella propria realtà di esseri umani unici.

Questo ruolo centrale della fiducia e dei suoi meccanismi sul lavoro pone uno stretto parallelo con le situazioni terapeutiche, e condiziona ampiamente l’ambiente e la possibilità per gli operatori di farne uno stile di lavoro con i pazienti.

Il tradimento della fiducia rappresenta una lesione per la dignità, che apre al lavoratore la strada della protesta, oppure quella del ritiro di ogni investimento sul lavoro, portandosi sullo scambio minimo, quello che offre "ore contro denaro". Questo, a sua volta, rafforza la sfiducia nei manager, accentuando i controlli e la costruzione di aspetti formali e regole sempre più minuziose.

Se la fiducia ed il rispetto vengono invece coltivati, il dipendente offre una maggiore disponibilità al coinvolgimento, che, in un circuito virtuoso, ripaga la azienda dei rischi e la porta a fidarsi ulteriormente, rischiando ancora con la delega dei controlli sulle attività.

La fiducia viene così a modificare di fatto il valore del lavoro.

La interazione base è la equivalenza "tempo & fatica = paga", dove il lavoro rappresenta una merce strettamente equivalente al compenso, ed entrambe le parti contrattano più o meno apertamente per cercare di avere il massimo vantaggio con il minimo costo. In genere le progettazioni di budget considerano solo questa variabile, secondo una ottica contabile che riduce il contributo del dipendente ad un bene intercambiabile e lo tratta alla stregua della dotazione di lampadine. In questa logica, se qualcosa va male, si possono sempre contrattare aggiustamenti.

Ciò che denota invece i "buoni ambienti" è un plus valore che definisce quel qualcosa di strettamente personale che viene ceduto al lavoro, sotto forma di iniziativa, di creatività e di componenti di natura emotiva, quali l’interesse o l’entusiasmo. Originariamente utilizzato dalla analisi marxiana della economia per spiegare come, dalla sua sottrazione, nasca l’accumulazione del capitale e la complementare alienazione sul lavoro, di recente è stato riscoperto proprio perché, riproponendo componenti personali, può controbilanciare gli aspetti disumanizzanti. nel lavoro

Il manager può gestire il plus valore secondo due strade opposte: di solito tenta di incentivarlo fino a pretendere una donazione totale da parte del dipendente, pagandola però come una merce, con una transazione asimmetrica, dal momento che i doni non sono né obbligatori né monetizzabili. La seconda strada porta il manager a ripagare con la delega delle responsabilità e del potere, ponendosi cioè sul piano della fiducia reciproca e del dono, dove entrambe le parti decidono di rinunciare a qualcosa senza la garanzia di cosa si riceverà in futuro, e dove la scorrettezza crea il danno insanabile del tradimento.

Inutile sottolineare i riferimenti nell’ambito delle relazioni terapeutiche, ricordando in particolare la questione di quanto nel "contratto terapeutico" rappresenti uno scambio tecnico, definito e quantificabile, e quanto coinvolga dimensioni diversi, dove il dono, l’impegno umano e le fiducia sono centrali. Ci rendiamo conto che questi riferimenti sono frammentari e rischiano di essere superficiali, ma proprio questa consapevolezza ci sottolinea, all’interno dei limiti che questo scritto deve tenere presente, la numerosità e la centralità delle possibili ricadute dei modelli di lavoro, riproponendo la domanda se sia possibile chiedere al personale un certo modo di rapportarsi con i pazienti, quando viene gestito in forma diametralmente opposta.

La reciprocità della fiducia appare centrale per quanto riguarda errori e responsabilità, costringendo a distinguere fra una costante incapacità di rispondere alle aspettative concordate e il commettere errori onesti di valutazione. Seguendo il principio che solo chi non lavora non sbaglia, i "buoni ambienti" accettano la possibilità che vengano commessi errori in buona fede; lo standard di qualità e la responsabilizzazione individuale vengono tenuti alti, aiutando a correggere i problemi e ad imparare dagli errori per non ripeterli, invece di cercare qualcuno da punire.

Di solito le organizzazioni, sulla base di false generalizzazioni, ritengono erroneamente di sapere cosa interessa i dipendenti (come si evidenzia incrociando le convinzioni manageriali sui dipendenti con i pareri degli interessati) e li trattano come se fossero tutti simili, non ammettendo che alcuni possano lavorare meglio con ritmi e modalità differenti. La diversità non viene quasi mai considerata una risorsa, ma solo un problema, scambiando l’omogeneizzazione per l’integrazione, e dimenticando che la varietà dei problemi richiede una varietà di risorse e di talenti.

Sono atteggiamenti che emergono anche nel rapporto con i pazienti, sia per quanto riguarda la frequente pretesa della psichiatria di conoscere gli stati mentali privati e in fondo sconosciuti delle "altre menti", meglio degli interessati, sia per la facilità con cui si generalizza dai problemi alle diagnosi e da queste alle soluzioni, ricercandole in adeguati protocolli.

Un ambiente di lavoro viene percepito come buono se ammette differenze individuali di cui tenere conto, nelle risorse e nel modo in cui vengono espresse, costruendo quindi una relazione specifica con ciascun dipendente. Tenere conto poi delle differenze nel tempo nello stesso individuo, rende poco utili rigide definizioni di mansioni che devono comunque modificarsi con il crescere delle competenze. Questo modello, per cui i compiti devono spesso adattarsi alle persone e non viceversa, è l’opposto della logica della catena di montaggio, che considera i lavoratori come robot da programmare per spazi e mansioni rigidamente predisposti.

Un altro punto fondamentale è la partecipazione reale nella gestione.

Negli ambienti scadenti gli operatori "non sono pagati per pensare" e non viene dato spazio alle loro opinioni su come migliorare il lavoro, attuando in fondo la regola monastica (Basilio di Cesarea - IV secolo) "nessuno si ingerisca nel modo di governare del preposto". Ne nasce una mortificazione dell’intelligenza, che porta ad esprimersi in modo distruttivo e conflittuale.

Il quadro cambia quando si cerca il coinvolgimento degli operatori perché si ritiene che possano offrire reali contributi per risolvere i problemi e migliorare il lavoro. Questa concreta attenzione ai suggerimenti, restituisce loro l’impegno della responsabilità del lavoro e degli eventuali cambiamenti, e permette di incanalare la intelligenza in modo costruttivo e creativo.

Le tecnologie che sfruttano l'illusione di partecipazione per stimolare un maggiore entusiasmo dei dipendenti, pensando che sia questo a condurre ad un lavoro migliore, dimenticano che questo nasce invece dagli effettivi contributi dei partecipanti, consentendo loro di sperimentare le proprie idee se si prendono la responsabilità di farle funzionare. Non sono le riunioni a fare la differenza. Solo un reale ascolto per critiche e suggerimenti che porti a effettivi cambiamenti, modifica lo scetticismo dei dipendenti, e li spinge ad utilizzare e condividere conoscenza ed esperienza per risolvere i problemi. Non servono quindi i raduni d’incitamento, o le lettere di esortazione per Pasqua o Natale, ma la coerenza nel prendere e mantenere gli impegni, un fattore di credibilità irreparabilmente leso dalle promesse non mantenute.

La partecipazione si lega ad un effettivo cambiamento nel potere, perché non è possibile un maggiore controllo degli operatori sul proprio lavoro senza la complementare rinuncia dei dirigenti a parte della loro autorità. L’entità di questo mutamento costituisce la differenza centrale fra "teoria Y" e la più radicale "Z", entrambe essenziali per una organizzazione duttile, centrata sull’utente, incompatibile invece con la piramide gerarchica, più orientata agli esiti o ai processi. Solo se il manager accetta il rischio insito nella rinuncia al controllo totale su ogni aspetto del lavoro, può chiedere ai dipendenti di assumersi più responsabilità.

Anche la questione della formazione risente di queste logiche. Nelle strutture piramidali importanti sforzi formativi vengono vanificati da una logica che punta solo ad una acquisizione standardizzata di competenze decise dall’alto senza tener conto delle individualità o della effettiva richiesta del personale, talvolta con mortificanti modalità impositive. Questo problema si fa evidente nella mediazione fra le necessità formative del Servizio e gli orientamenti strategici che caratterizzano la ASL. Un sistema partecipativo vede il centro in una formazione, intesa come un processo continuo di "coaching", di un apprendimento in cui il soggetto è aiutato a migliorarsi da sé, secondo le proprie abilità individuali differenziate.

La reale partecipazione è diversa dal far sentire tutti manager, dove condividere gli obiettivi, sentirsi necessari e una flessibilità che lascia spazio per le capacità creative, porta a una forte motivazione iniziale, ma anche a una successiva delusione. Con il tempo, la reale struttura di queste relazioni di lavoro viene letta come uno sfruttamento mascherato, dove la partecipazione alle decisioni diventa l’obbligo di una responsabilità eccessiva, senza ricompensa, senza regole, e con conseguenti aspetti logoranti che non vengono mai considerati problema, aggirandoli attraverso la sostituzione con novizi entusiasti. Di fatto poi questa managerialità si rivela illusoria, del tutto vuota di un effettivo potere, che rimane in un vertice sempre lontano, che costringe poi i presunti manager a svolgere anche i lavori monotoni e prosaici di qualunque dipendente. Spesso questo modello si ritrova in ambienti paternalistici ove figure carismatiche affascinano con nuove idee e un clima da grande famiglia felice.

Non si tratta di risolvere i problemi con le votazioni, ma della importanza che le persone possano intervenire sugli argomenti che le toccano direttamente, costruendo collettivamente la decisione, anche se l’ultima parola appartiene al leader (Ouchi, 1981). I modelli condivisi sottolineano la necessità che il manager diventi un leader, orientandosi ad un legame trasversale fra gli operatori che li renda più indipendenti dall’autorità. Il leader quindi non punta a prendere tutte le decisioni da solo, ma rappresenta un facilitator delle attività e delle interazioni che deve solo creare la giusta atmosfera perché tutti facciano meglio il proprio lavoro, ed una organizzazione aperta basata sulla delega e la responsabilità piuttosto che l’autorità. Gli strumenti per questo sono una condizione di fiducia basata su una attenzione privilegiata ad ogni singola individualità del gruppo, di cui vengono colte le potenzialità senza imporre i propri orientamenti; la capacità di mettere in discussione le proprie modalità di gestione; la costante riproposizione dei compiti e dei fini condivisi da una parte, mentre dall’altra si punta a una continua volontà di crescita professionale. (Carlzon, 1977; Kharbanda & Stallworthy, 2001).

Da diverso tempo una questione analoga è emersa in terapia, non solo come problema etico, ma come effettivo vantaggio in quella condivisione del progetto di cura e della sua attuazione che va sotto il nome di "alleanza terapeutica", e dove l’idea centrale è la possibilità di pensare insieme un progetto e costruire una collaborazione che aiuti il paziente a trovare e proseguire nel tempo in modo quanto più autonomo la sua strada per il cambiamento terapeutico.

L’informazione appare strettamente coinvolta nella gestione del potere, e mostra approcci diversi nei modelli organizzativi tradizionali e in quelli partecipativi, con importanti conseguenze sul lavoro.

Le organizzazioni gerarchiche limitano la condivisione di informazione, poiché si basano sull’idea che solo i livelli gerarchici elevati meritano fiducia, ritenendo quindi inutile e pericoloso comunicare informazioni altrove, e svelando la propria insicurezza gestionale nel preferire un dipendente reso più vulnerabile perché incapace di una critica appropriata; Questa limitazione non solo impedisce la visione complessiva del problema, ma distrugge la fiducia reciproca, blocca la collaborazione e la possibilità di dare un contributo consapevole.

Consentire la piena circolazione di informazioni ed idee aumenta invece il clima di fiducia e consente più coinvolgimento e cooperazione. Implica una libertà di parola e di discussione con chi detiene l’autorità, per cui è possibile porre domande su ogni argomento, senza che nessuno sia al di sopra della critica. Si oppone così alla condizione per cui si dà per scontato che possa esistere disparità di spazi democratici nell’ambiente di lavoro e nella società e che i diritti usuali si perdano con la entrata nel luogo del lavoro, non tenendo conto che la libertà di parola e di critica, come la garanzia di un trattamento equo, non hanno solo rilevanza etica, ma sono la base per migliorare qualunque situazione comunitaria.

Come nota Carlzon: "Una persona priva di informazioni non può assumersi responsabilità; una persona a cui sono date informazioni non può che prendersi responsabilità". (Carlzon, 1977). La condivisione senza segreti consente competenza e responsabilità, poiché il solo modo in cui qualunque gruppo o individuo può prendere valide decisioni operative ed assumersi delle responsabilità è quello di capire la situazione complessiva, conoscendo obiettivi e strumenti dei progetti manageriali..

E’ interessante che i sistemi informatici nei DSM vengono in genere progettati orientandosi in particolare (e talvolta esclusivamente) alla assunzione e la elaborazione dei dati ad uso del manager o delle varie contabilità, trascurando la loro enorme potenzialità nel senso di una costruzione di una rete di comunicazione e condivisione della informazione. (Angelozzi & Favaretto, 1999).

Anche se è evidente la difficoltà di costruire modalità di lavoro che rischiano di essere in dissonanza con il modello più generale su cui è costruita la ASL, tale operazione può essere resa praticabile proprio dagli aspetti della condivisione, che propongono di affrontare le difficoltà sulla base della chiarezza, della partecipazione e della assunzione di responsabilità.

Un concetto che viene sottolineato nelle modalità innovative di rete, in particolare nel modello "Z" (Ouchi, 1981) è quello di "team" di lavoro, che vuole indicare una equipe di lavoro dove al requisito base di cooperare per gli stessi fini, si aggiungono talune caratteristiche specifiche, legate al contesto organizzativo di partecipazione alle decisioni, cui conseguono interazioni orizzontali e uno specifico rapporto con il leader.

Il team modifica anche il ruolo della valutazioni o dei premi individuali, dati per scontato solo nelle organizzazioni tradizionali: basti il caso del Giappone, dove il giudizio si sospende per anni, preferendo la collaborazione fra il personale al rischio di distruttive competizioni, ed i premi individuali sono rifiutati dai dipendenti, che ritengono possibili i successi solo per il lavoro dell’intero team. Quello che tiene insieme il team è l’alto stato di consistenza della propria cultura interna, intesa come condivisione dei valori, degli obiettivi e degli strumenti validi. Il team mette a disposizione le competenze di ciascuno dopo averlo aiutato a trovare il proprio ruolo, facendolo derivare dalle competenze e dalle attitudini specifiche delle persone e non dalla posizione gerarchica, e definendo su questa base anche il leader. La essenza del team è la capacità di porre in modo naturale il contributo individuale in pieno accordo con il fine comune, come frutto di una condizione di accettazione, fiducia e con una comunicazione aperta all’interno, che consente di risolvere i conflitti con il chiarimento ed il consenso. Per dirimere le questioni l’unico potere ammesso è infatti quello delle argomentazioni. Il ruolo del leader è quello di portare una consapevolezza della interdipendenza ed una conciliazione degli interessi.

CONCLUSIONI

Abbiamo cercato di argomentare la tesi che l’attuale organizzazione del lavoro in psichiatria si sia sviluppata all’interno dei tradizionali modelli piramidali e che questo sfondo abbia specifiche ripercussioni sul lavoro con i pazienti, disegnando la forma assunta dalle relazioni terapeutiche. Il lavoro in equipe è un tentativo di superare la frammentazione che consegue in forma inevitabile a questi modelli di lavoro, e che richiede a questo scopo la sua evoluzione all’interno di un modello di partecipazione.

Pensiamo che, come tante volte nel lavoro con i pazienti, bisogna esplicitare e mettere in discussione cose considerate a lungo scontate ed ovvie, partendo dalla critica della organizzazione del lavoro e delle sue forme consolidare per cercare nuovi modi di lavorare con gli altri operatori e con i pazienti stessi.

In particolare, vanno approfonditi i modelli non piramidali, che propongono una reale partecipazione ai processi gestionali e si sviluppano su modelli trasversali, centrandosi su concetti quali fiducia, coerenza e la piena disponibilità dei meccanismi informativi. Sono modelli di gestione di rete, che sembrano rispondere meglio alla complessità del lavoro psichiatrico e alla richiesta sempre più significativa, da parte dei pazienti, di una effettiva partecipazione e condivisione di informazioni all’interno di un modello terapeutico centrato sulla fiducia.

Una trasformazione di questo tipo passa attraverso una reale condivisione della informazione con la disponibilità dei possibili strumenti (riunioni, sistemi informatici) e il loro utilizzo secondo modelli trasversali di rete, con la possibilità effettiva per gli interessati di dare e ricevere informazione.

Un aspetto centrale per tale mutamento è anche la modifica della gestione delle decisioni e del controllo, delegando parte di queste prerogative e accettando una reale condivisione di questi aspetti. Il passaggio da manager a leader costituisce la presa d’atto di un ruolo non di vertice, ma di spinta alla crescita professionale, alla assunzione di responsabilità e alla costruzione di una operatività condivisa, giungendo alla trasformazione del gruppo di lavoro in un team.

 

BIBLIOGRAFIA

Angelozzi A. & Favaretto G. (1999) La Psichiatria e la Rete. In Psichiatria on line (ed. F.Bollorino), pp. 11 - 55. Apogeo:Milano

Carlzon J. (1977). La piramide rovesciata. Franco Angeli: Milano

Himanen P. (2003) L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione. Feltrinelli: Milano

Kharbanda O. & Stallworthy E. (2001) Il lavoro in team. (La struttura piramidale è fallita. Come organizzare e guidare gruppi di lavoro nella nuova impresa-rete). Milano: Franco Angeli

Kets de Vries M. (1994). Leader, giullari e impostori. Sulla psicologia della leadership. Raffaello Cortina: Milano.

Levering R. (2001). Un gran bel posto in cui lavorare. Sperling & Kupfer: Milano

McGregor D. (1985). The Human Side of Enterprise. McGraw-Hill Companies: Boston, New York

Pellegrino F. a cura di (2000) La sindrome del burn-out. Centro Scientifico Editore: Torino

Peters T. & Waterman R.H.Jr. (1995). In Search of Excellence. Lessons from America’s Best-Run Companies. HarperCollins Publishers: London

Ouchi W.G. (1981).Theory Z. How American Business Can Meet the Japanese Challenge. Avon Books: New York

Weber M. (1991). L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Rizzoli: Milano

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