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Riccardo Barbarotto

Dove va la neuropsicologia?

Riassunto

La neuropsicologia studia la relazione tra cervello e comportamento. Viene percorsa brevemente la storia che ha portato gli studiosi a dimostrare che l’attività mentale emerge dal cervello e il tentativo di localizzare nella corteccia cerebrale le varie funzioni cognitive, a cui seguì la scissione tra approcci di tipo psicologico e approcci di tipo neurologico. La nascita della psicologia cognitivista negli anni ’50 e ’60 diede nuovo impulso teorico alla neuropsicologia, mentre parallelamente si svilupparono le prime tecniche d’indagine neuroradiologiche in grado di documentare in modo dettagliato la morfologia (TAC, RMN) e in seguito l’attivazione funzionale (PET. f-MRI) della corteccia cerebrale. Gli approcci di tipo connessionistico (reti neurali) hanno d’altra parte consentito di simulare alcuni compiti e funzioni cognitive. Viene discusso il contributo di queste metodiche riguardo al problema della localizzabilità delle funzioni cognitive.

Vengono infine riportati gli studi sui mirror-neurons (Rizzolatti e Arbib 1998) e sul rapporto tra memoria implicita e amnesia infantile (Mancia, 2003), per stimolare la riflessione su alcune nuove frontiere della neuropsicologia, particolarmente in relazione ad alcuni concetti propri della psicoanalisi freudiana.

Abstract

Neuropsychology is devoted to the study of the relation of brain to behavior. The historical course that lead to the demonstration that mental activity emerges from brain activity is here described, along with the attempts to localize cognitive functions in the cortex of the brain, and the following division between psychological and neurological approaches. The emergence of cognitive psychology in the fifties and sixties gave a new theoretical impulse to neuropsychology, while the appearance of the first morphological (CAT, NMR) and later functional (PET, f-MRI) neuroradiological assessment tools allowed a more detailed study of anatomo-functional aspects. Moreover, connectionist modelling has allowed the computer-simulation of various cognitive tasks and functions. The contribution of these approaches to the possibility of localize brain function is discussed

Studies on mirror-neurons (Rizzolatti e Arbib 1998) and on the relationship between implicit memory and infantile amnesia (Mancia, 2003) are reported in order to stimulate the reflection on some of the new frontiers of neuropsychology, particularly in relation to some psychoanalitic concepts.

La neuropsicologia è una disciplina che si propone di studiare con metodologia sperimentale la relazione tra cervello e comportamento. La nascita della neuropsicologia moderna avviene sul finire del 1800, con i pionieristici studi sull’afasia di Bouillaud, Broca e Wernicke, ma è solo negli anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale (il termine neuropsicologia nasce negli anni ’50, vedi Grossi e Boller 1996) che la neuropsicologia assume i contorni di disciplina autonoma, sia clinicamente che accademicamente, traendo le basi teoriche dalla psicologia cognitivista, che in quegli anni si andava sviluppando con Hebb (Hebb, 1949) e poi con Broadbent (Broadbent 1958). Le prime riviste scientifiche dedicate alla neuropsicologia escono negli anni ‘60: il primo numero di Neuropsychologia è del 1963 e quello di Cortex del 1964. La Società Italiana di Neuropsicologia nacque come Sezione della Società Italiana di Neurologia nel 1975 e ha acquisito uno status autonomo solo dal novembre 1997. Una disciplina recente quindi, ma che cerca di rispondere a domande che affondano le proprie radici nell’antichità.

DA DOVE VIENE LA NEUROPSICOLOGIA?

Il problema di come l’attività mentale emerga dal cervello, o per dirla con Cabanis (un medico francese del XVIII secolo) di come la mente venga secreta dal cervello, è stato affrontato da filosofi e naturalisti di ogni civiltà. Gli approcci si sono di volta in volta avvicinati a concezioni dualistiche, per le quali mente e cervello sono entità separate, o a concezioni monistiche per le quali la mente è soltanto un fenomeno prodotto dal funzionamento del sistema nervoso.

Il primo e non poco controverso passo fu quello di determinare che il cervello fosse la sede di tutte le attività mentali (Selnes 2001). Molte antiche civiltà erano convinte che il cuore fosse la sede del pensiero e delle emozioni, poiché il suo movimento è necessario per la vita e il suo battito dipende dalle stesse emozioni. Pur se Ippocrate (460-370 a.C.) era già arrivato alla conclusione che le funzioni mentali, percettive, emotive e di pensiero dovessero essere attribuite al cervello, e avesse scoperto che le lesioni site in un lato del cervello producessero sintomi controlaterali, Aristotele (384-322 a.C.) sosteneva che il cervello servisse a raffreddare le passioni del cuore e fosse sede dell’anima e delle attività intellettuali. Pensiamo a questo proposito ad alcune lingue come il francese o l’inglese, che usano tuttora termini riferiti al cuore per indicare l’apprendere a memoria (apprendre par coeur o learning by heart). Erofilo di Alessandria (ca. 300 a.C.), uno dei primi medici che potè utilizzare la dissezione dei cadaveri umani, prima che venisse vietata sino a circa il 1200 d.C., studiò con accuratezza il sistema ventricolare, arrivando alla conclusione che il cervello era la sede del pensiero, che il terzo ventricolo era la sede delle attività cognitive e che il quarto ventricolo era la sede dell’anima. Egli notò inoltre la differenza tra nervi sensitivi e motori, ma pensava che i nervi fossero tubi vuoti nei quali passava l’aria sospinta dal cuore e proveniente dai polmoni. Erisistrato (ca. 260 a.C.) mise in relazione il maggior numero delle circonvoluzioni cerebrali con le maggiori capacità intellettuali degli uomini rispetto a quelle degli animali. Galeno di Pergamo (130-201 a.C.), ironizzò su questo fatto osservando che il cervello dell’asino ha un maggior numero di circonvoluzioni rispetto a quello umano. Egli sezionò e studiò cervelli di molte specie animali, comprese le scimmie antropomorfe e in qualità di chirurgo dell’arena dei gladiatori potè studiare minuziosamente anche l’anatomia umana. Riconobbe che le arterie contenevano sangue, non aria, e che il cuore metteva in movimento il sangue aritmicamente, anche se non ne intuì il flusso circolatorio. Comprese anche che ai fini dell’attività nervosa era importante il parenchima cerebrale e non i ventricoli. Attribuì ai lobi frontali la sede dell’anima e riconobbe tre funzioni cognitive fondamentali: la percezione sensoriale, il ragionamento e la memoria. Durante il Medioevo fu dominante la teoria delle celle, per la quale le funzioni della mente erano localizzate nei ventricoli o celle: La prima cella (che comprendeva entrambi i ventricoli laterali) si pensava ricevesse afferenze da tutti gli organi di senso ed era considerato sede del senso comune, responsabile della formazione delle immagini e della fantasia. La seconda cella era sede delle capacità intellettuali, del ragionamento, della capacità di giudizio e del pensiero. La terza cella era responsabile della reminiscenza. I ventricoli apparivano a quell’epoca più adatti a fungere da intermediari tra l’anima e il corpo rispetto al più materiale parenchima cerebrale. Questa concezione fu avversata da Vesalio (1514-1564) che fece una delle più accurate descrizioni della corteccia cerebrale. Cartesio (1596-1650) considerava la mente (res cogitans) e il corpo come entità ontogeneticamente separate ma interagenti a livello della ghiandola pineale. I nervi erano da lui considerati come tubi vuoti che controllavano il corpo sotto il controllo dei ventricoli. Egli propose inoltre un meccanismo automatico di risposta agli stimoli esterni che viene considerato come l’origine della teoria dei riflessi (McCourt 1997). Thomas Willis (1621-1675), noto per il circolo cerebrale arterioso che porta il suo nome, mantenne la divisione aristotelica delle funzioni cerebrali (percezione, ragionamento e memoria), ma diede rilievo alla corteccia cerebrale e al corpo calloso (sede dell’immaginazione).

Fu però l’anatomo-fisiologo austriaco Franz Joseph Gall (1758-1828) che introdusse un preciso principio di localizzazione delle attività cerebrali, attribuendo a specifiche aree corticali specifiche funzioni cognitive e quindi comportamenti umani. La sua teoria localizzazionista, detta frenologia o cranioscopia, prevedeva che lo sviluppo quantitativo di un’area cerebrale corrispondesse allo sviluppo quantitativo della funzione sottostante. Derivò inoltre dalle teorie fisiognomiche il concetto che la forma del cranio e delle sue bozze riflettesse lo sviluppo della massa cerebrale sottostante e delle funzioni cognitive correlate a quelle aree cerebrali. Pensava che fosse pertanto possibile localizzare le funzioni cerebrali dall’esterno in base alle bozze craniche. Fu il primo a riconoscere l’individualità di alcune funzioni cognitive come il linguaggio (suddiviso in memoria per le parole e facoltà di parlare) e le abilità di calcolo. Incluse anche più di 20 altre bizzarre funzioni come l’amore filiale, l’amore coniugale o la speranza, che contribuirono a screditarlo, oscurando quelli che erano i punti migliori della sua concezione di localizzazione delle funzioni. Pierre Flourens, fisiologo francese (1794-1867), studiò le modificazioni del comportamento conseguenti alla asportazione di parti del cervello di animali così da inferire la funzione svolta da quella parte. Si convinse, in contrasto con i frenologi e in accordo con quanto più tardi dirà Lashley (Lashley 1929), che le funzioni cognitive non hanno sede in specifiche aree cerebrali, ma che tutte le regioni del cervello sono sostanzialmente equipotenziali e che le lesioni portano a perdite globali di funzionalità cerebrale, correlate solo con la dimensione della lesione (principio dell’azione di massa di Lashley). Vide inoltre che nel caso di lesioni non troppo gravi, la funzione poteva essere recuperata in modo compensatorio dal restante parenchima cerebrale integro (principio dell’equipotenzialità di Lashley). La disputa tra localizzazionismo ed equipotenzialismo si protrasse a lungo nel XIX secolo, passando anche attraverso il famoso caso di Phineas Gage (Macmillan 1996): un venticinquenne miracolosamente scampato a un grave incidente sul lavoro nel 1849, in conseguenza del quale i suoi lobi frontali furono penetrati da una lunga e pesante barra di ferro, che provocò gravi disturbi comportamentali (inaffidabilità, comportamento sociale inappropriato, atteggiamento irrispettoso dei sentimenti altrui), associati però a una scarsa evidenza di disturbi cognitivi. Questo fu interpretato come un punto contro il localizzazionismo e a favore delle teorie sulla equipotenzialità. Nel 1860 Gustav Fritsch and Eduard Hitzig (1860), confutarono alcune delle idee centrali di Flourens e degli anti-localizzazionisti, dimostrando che la stimolazione elettrica di specifici neuroni della corteccia motoria primaria provocava la contrazione di specifici gruppi muscolari nel lato opposto del corpo.

Gli studi di Jean-Baptiste Bouillaud (1796-1881), che inquadravano l’afasia come un disturbo del linguaggio interiore e non più come un problema di memoria, associandolo per la prima volta alle aree anteriori del linguaggio, diedero un nuovo impulso al localizzazionismo e a un più moderno inquadramento delle relazioni tra cervello e comportamento, preparando il terreno alle osservazioni di Paul Broca (1824-1880). Broca era un antropologo molto rispettato per la sua serietà metodologica e si era distinto per lo studio comparativo della forma, struttura e topografia del cervello di diverse razze umane e del cranio di numerose civiltà preistoriche. Nel 1861, in seguito ai suoi studi sui pazienti Leborgne (Tan) e Lelong annunciò l’osservazione che lo consegnò alla storia: associò il piede della terza circonvoluzione frontale di sinistra, da allora nota come area di Broca, alla produzione del linguaggio articolato, fornendo quindi la prova della localizzazione di una funzione cerebrale. Il tedesco Korbinian Brodmann (1868-1918) impiegando la allora nuovissima colorazione di Nissl, descrisse le 47 differenti aree cerebrali (la cui numerazione viene tuttora utilizzata) in base alle caratteristiche citoarchitettoniche: tipi cellulari, densità neuronale, tipo di lamine. John Hughlings Jackson (1835-1911) confermò nel 1864 le scoperte di Broca sul cosiddetto centro per il linguaggio, studiando presso il London Hospital pazienti affetti da epilessia, iniziando lo sviluppo dei moderni metodi per la localizzazione clinica delle lesioni cerebrali e l’indagine delle funzioni cerebrali localizzate. Vide che i sintomi motori delle epilessie focali si sviluppano in modo prevedibile, interessando progressivamente un gruppo muscolare dopo l’altro man mano che la scarica epilettica si sposta da una regione cerebrale a quella adiacente. L’interpretazione di Hughlins Jackson fu che diverse funzioni motorie e sensoriali fossero localizzate in punti precisi della corteccia.

Le osservazioni di Broca sugli aspetti di produzione e articolazione del linguaggio furono poi integrati da quelli del polacco Carl Wernicke (1848-1905), che cercò di correlare i diversi tipi di afasia con le diverse aree cerebrali, divenendo famoso soprattutto per la sua descrizione dell’afasia sensoriale e per la sua localizzazione nel terzo posteriore della circonvoluzione temporale superiore di sinistra, dimostrando anche la dominanza cerebrale per alcune funzioni cognitive. Cercò anche un approccio localizzatorio a tutte le patologie cerebrali nel suo Lehrbuch der Gehirnkrankheiten, pubblicato nel 1881. Wernicke, studiando i vari tipi di afasia, formulò la teoria che le due aree del linguaggio associate alla produzione e alla comprensione del linguaggio fossero connesse tra loro dal fascicolo arcuato, un tratto di sostanza bianca che, se lesionato, dava luogo a un particolare disturbo afasico. Curiosamente, non incluse nel complesso dei sintomi caratteristici della sindrome il deficit di ripetizione (funzione che emerge dalla connessione tra aree percettive e produttive del linguaggio), che fu in seguito valorizzato da Lichtheim (1885). Si trattava del primo esempio di sindrome da disconnessione, che si aggiungeva al più tradizionale modello di lesione di un’area cerebrale cui consegue il deficit di una funzione cognitiva. Si poteva avere un deficit di una funzione per interruzione della comunicazione tra due aree corticali, ma con risparmio delle aree corticali stesse. Liepmann diede conferma di questo nel campo delle aprassie (disconnessione tra aree sensoriali e motorie). Queste scoperte subirono un’eclissi di oltre 50 anni, e furono riprese soprattutto da Norman Geschwind nella sua famosa monografia (Geschwind 1965) sulle sindromi da disconnessone, e dal neuropsicologo russo Alexandr Romanovi¹ Lurija (1902-1977). Il ritardo fu in parte dovuto al fatto che questi lavori erano scritti in tedesco, mentre all’inizio del XX secolo iniziò il prepotente e invadente dominio della lingua e della cultura di lingua inglese nel mondo scientifico. Inoltre, la dominanza del behaviorismo e il rinnovato anti-localizzazionismo di Lashley negli anni ’30 contribuirono a oscurare questi originali contributi neuropsicologici. Le due guerre mondiali provocarono un numero grandissimo di pazienti con lesioni cerebrali traumatiche, che diedero un impulso notevole allo studio delle correlazioni clinico-anatomiche in campo neuropsicologico. Il metodo di indagine era quello neurochirurgico o autoptico e questo presentava delle evidenti limitazioni per una precisa analisi di correlazione anatomo-funzionale: nel caso della neurochirurgia perché le lesioni erano spesso gravi, interessavano ampie aree cerebrali e non consentivano quindi una localizzazione precisa dell’area responsabile dell’alterazione comportamentale; d’altra parte le autopsie permettevano nella maggior parte dei casi di arrivare all’osservazione della lesione solo a distanza di tempo dall’insorgenza della patologia e poteva risultare difficile distinguere la lesione primaria da eventuali altri fatti patologici intercorsi dall’esordio della sintomatologia sino alla morte del paziente.

Ci furono in seguito due sviluppi che determinarono il progresso degli studi neuropsicologici e che crearono una sorta di scissione di metodo e di scuole scientifiche, che in un certo senso, come vedremo, perdura sino ai giorni nostri. Da un lato la nascita, negli anni ’50 e ‘60 come già accennato, della psicologia cognitivista (Luccio 1982), che si contrapponeva alla psicologia comportamentista e che iniziò a fornire una serie di modelli psicologici da verificare con metodo sperimentale sui pazienti con lesioni cerebrali, ma anche su soggetti normali o con lesioni diffuse (es. Alzheimer). La localizzazione e l’estensione della lesione, cioè l’attribuzione di una certa funzione a una certa parte del cervello, diviene qui del tutto secondaria. Questa neuropsicologia divenne sempre più appannaggio di neuropsicologi di estrazione psicologica sperimentale e psicolinguistica e non più di impostazione medica e neurologica.

Da un altro lato invece, la disponibilità della tomografia assiale computerizzata (TAC) a partire dalla seconda metà degli anni ’70, permise ai neuropsicologi di formazione neurologica di indagare con più facilità e dettaglio le lesioni in vivo, in modo non invasivo, a breve tempo dall’insorgenza. Questo portò a una riclassificazione delle sindromi neuropsicologiche, in particolare di quelle afasiche. Emersero numerose eccezioni a quelle che erano le classiche associazioni tra sintomi e aree cerebrali, mettendo in crisi gli approcci più strettamente localizzazionisti. D’altro canto si confermò che la relazione tra ampiezza della lesione e gravità della sindrome clinica che ne deriva non era trasparente: alcune aree erano più sensibili e specifiche di altre per la perdita o la conservazione di una funzione. Si riapriva in chiave nuova il problema della localizzabilità o meno delle funzioni cerebrali.

Non sempre gli studi morfologici indagavano le funzioni cognitive in modo sufficientemente dettagliato e spesso si trattava di studi di gruppo, che accomunavano pazienti non del tutto omogenei ad un’indagine cognitiva più fine. In ogni caso emergeva il problema dell’impossibilità di sovrapporre il livello di indagine morfologico a quello cognitivo e pertanto la neuropsicologia neurologica e quella psicologica proseguirono su strade separate.

Recentemente si è aperto un nuovo orizzonte sullo studio dei sistemi cognitivi e delle correlazioni anatomo-funzionali nei normali con l’avvento delle più recenti metodiche di indagine in vivo, che possono essere di tipo morfologico (risonanza magnetica, RMN) o funzionale (tomografia a emissione di positroni, PET, risonanza magnetica funzionale, fMRI, stimolazione magnetica transuranica, TMS).

D’altra parte gli studi sui modelli di funzionamento cerebrale si sono notevolmente arricchiti dell’apporto della modellistica connessionistica legata alle simulazioni con le reti neurali. Vedremo ora più nel dettaglio questi nuovi approcci.

LO STATO ATTUALE DELLA NEUROPSICOLOGIA COGNITIVA

La moderna neuropsicologia cognitivista nasce in tempi molto recenti (Luccio, 1982; Harley, 2004): le prime riviste ad essa dedicate sono degli anni ’70 (Cognitive Psychology è del 1970 e Cognitive Science del 1977) e il primo numero di Cognitive Neuropsychology videro la luce nel 1984. I principi, il metodo e gli scopi teorici emersero da una sorta di manifesto stilato dagli autori che per primi vi si erano dedicati (Caramazza 1984, 1986; Coltheart 1985; Ellis e Young 1988): da un lato c’era il proposito di spiegare i quadri di normalità e patologia osservati nei pazienti cerebrolesi in termini di lesione a una o più componenti di un modello di normale funzionamento cognitivo; inoltre, specularmente, di trarre conclusioni sui processi cognitivi normali dai quadri di comportamento osservati nei cerebrolesi. Questo comportava l’assunzione del principio di trasparenza da un lato e di modularità dall’altro. Il principio di trasparenza presume che la patologia possa mettere in luce dei processi che nel normale passano inosservati e che il sistema cognitivo dei soggetti cerebrolesi funzioni nello stesso modo rispetto ai non cerebrolesi, tranne che per le modificazioni locali provocate dalla lesione cerebrale. Il principio di modularità vede il cervello come un insieme di moduli funzionali discreti e indipendenti tra loro che svolgono ognuno una certa specifica operazione (Fodor 1983). Un altro punto era costituito dalla priorità di studiare casi singoli invece che gruppi di pazienti. Gli studi di gruppo possono infatti fornire risultati fuorvianti perché è difficile formare gruppi davvero omogenei dal punto di vista cognitivo. Inoltre, considerando la media delle prestazioni di un gruppo, si possono offuscare le singole diversità. La localizzazione cerebrale dei processi cognitivi veniva, come già detto, considerata da alcuni del tutto irrilevante (Morton 1984; e si veda ad esempio il modello standard della lettura di Morton: Morton e Patterson 1980) e da altri di modesto interesse per la modellazione delle teorie cognitive (Ellis e Young 1988, Shallice 1988). In certi casi gli Autori non hanno più sentito la necessità di riferire la localizzazione della lesione (vedi ad es. il lavoro di Stewart et al. 1992) concentrandosi sullo studio e l’interpretazione delle prestazioni cognitive del paziente rispetto a un pre-esistente modello di una funzione cognitiva.

I modelli di quell’epoca si basavano inoltre su un assunto di serialità, cioè sull’ipotesi che i modelli cognitivi si potessero descrivere al meglio con diagrammi modulari di flusso di tipo sequenziale. Il connessionsmo mette invece oggi in evidenza invece l’importanza dei processi paralleli nell’elaborazione cognitiva. Vale la pena di riflettere qui un attimo su come lo stato dello sviluppo della scienza e delle tecnologie abbia da sempre plasmato, a seconda del momento storico, la modellistica e la rappresentazione del funzionamento cerebrale: dai neuroni visti come tubi che trasportano aria quando era stata scoperta l’idraulica, ai diagrammi di flusso seriali o paralleli a seconda della scoperta e dell’uso di computer rispettivamente seriali o paralleli.

L’attuale modellistica computazionale si propone di costituire un livello di spiegazione del rapporto mente-cervello al livello più basso, ovvero di come si possa studiare l’emergere di una funzione cognitiva dall’attività neuronale. Il connessionismo nasce con l’avvento delle reti neurali (PDP, parallel distributed processing; Rumelhart e McClelland 1986; Parisi 1989), cioè di quei computer che sono in grado di auto-apprendere dei compiti in base ai feed-back (risposte giusto/sbagliato) dell’operatore, senza far ricorso a un software che indichi in modo rigido alla macchina tutte le procedure da effettuare. Il primo vantaggio che si ha nel simulare delle funzioni cognitive in questo modo è quello poter aprire la macchina e osservare come il computer ha riorganizzato le sue unità funzionali per arrivare a eseguire un determinato compito. E’ molto interessante notare come due macchine, che hanno la stessa struttura di partenza, possono apprendere lo stesso compito con modalità diverse, attraverso modificazioni diverse della facilità di trasmettere un impulso da un nodo all’altro della rete neurale. L’aggiustamento dei pesi dei singoli elementi della rete neurale, simula il diverso livello di eccitazione o inibizione dei neuroni cerebrali. Un secondo vantaggio è che la rete può essere lesionata in vario modo: da un lato eliminando singole unità della rete oppure modificando le connessioni tra elementi, mimando così lesioni di aree cerebrali o sindromi da disconnessione. Si osserva poi nel dettaglio cosa succede alla rete e alla funzione che essa supporta, in conseguenza di questa lesione. Se ne può derivare che ciò che è importante non è la localizzazione della funzione, che per natura del modello è distribuita, ma la struttura della rete di informazioni. La lesione va quindi a interessare una architettura di informazioni e non un’area (un modulo) che svolge una precisa funzione. In questo senso non esisterebbe una localizzazione della funzione in senso stretto, pur potendo esistere parti della rete che svolgono maggiormente un compito rispetto a un altro, ma sempre nell’ambito di un’elevata interconnessione. Questo approccio ha permesso di arrivare alla modellazione di funzioni cognitive anche relativamente complesse, come testimoniano ad esempio i modelli sui disturbi semantici della lettura (Hinton e Shallice 1991) o quelli su alcuni aspetti visivi dei disturbi semantici (Farah e McClelland 1991; Gale et al. 2001).

L’approccio connessionistico (per un dettagliata discussione di questi punti vedi Harley 2004 e Dell 2004) è sicuramente stimolante perchè permette di verificare le ipotesi cognitive senza la necessità di indagare pazienti che sono spesso difficili da reperire, perché le richieste dei modelli cognitivi da verificare sono molto specifiche o perché le lesioni in natura sono raramente così selettive come sarebbe richiesto. Il principale limite di questo approccio è però quello di fornire modelli troppo potenti e in grado di spiegare sempre e comunque tutti i dati. Un’altra difficoltà consiste nel problema di verificare se nel cervello umano le cose si svolgono davvero così come predice il modello. Infatti, lo iato tra modello psicologico e livello neuro-anatomico o neuro-fisiologico non viene colmato dalla simulazione, pur dettagliata, di una funzione cognitiva. Un ultimo punto critico è quello che riguarda la complessità di questo tipo di approccio, specie se si considera che sinora sono stati implementati solo modelli di singole, isolate funzioni.

LE NUOVE TECNICHE PER IMMAGINI DI TIPO FUNZIONALE

L’altro approccio, che si è sviluppato al traino delle più recenti novità tecnologiche, è quello delle tecniche di indagine funzionale per immagini. Basti pensare che al Congresso delle Società Europee di Neuropsicologia, tenutosi a Modena nello scorso aprile, su 95 presentazioni orali, ben 45% erano basate su ricerche di imaging funzionale (f-MRI o PET). Queste metodiche si basano sul presupposto che le aree cerebrali metabolizzano più ossigeno quando si attivano ed evidenziando graficamente l’entità di questo metabolismo si può mappare l’attivazione cerebrale durante l’esecuzione di un determinato compito cognitivo. La possibilità di studiare le funzioni in vivo, nei normali, durante compiti controllati, ha riacceso un notevole entusiasmo per l’approccio localizzazionistico. Alcuni, trovando eccessiva l’enfasi per queste tecniche le tacciano di essere una sorta di nuova frenologia (Uttal 2001). Le critiche si pongono infatti a vari livelli. Un primo limite consiste nel fatto che per attivazione si intende semplicemente incremento di metabolismo, ma attualmente non è possibile distinguere l’attivazione eccitatoria di una determinata struttura da una sua attiva inibizione (Semenza 2001). Inoltre, il metodo (sottrattivo) implica che si possa localizzare una funzione cognitiva confrontando il quadro di attivazione generato da un compito specifico per quella funzione e l’attivazione generata da un compito di base. La sottrazione tra la prima e la seconda immagine fornirebbe la mappatura delle aree cerebrali cruciali per lo svolgimento di quella funzione. Il problema sta nel fatto che si possa avere un compito sufficientemente rappresentativo e selettivo per una certa funzione. Ad esempio anche il semplice span cifre (ripetizione ad alta voce di stringhe di cifre di lunghezza crescente) è sì una prova prevalentemente di memoria di lavoro, ma con componenti attenzionali e strategiche di tipo frontale, nonché di rappresentazione fonologica e visiva delle cifre: pertanto il quadro che ne emergerà ad un’indagine funzionale per immagini non si potrà automaticamente associare al quadro della memoria di lavoro in generale, ma in senso stretto solo al quadro di attivazione di quel particolare test. Inoltre, anche la definizione della funzione spesso non è facile da specificare in dettaglio. Infine, la scelta del compito neutro di base è cruciale e può essere incauto assumere che il compito in esame si sommi semplicemente a quello di base, senza alterare altri sistemi, o il quadro di attivazione nel suo complesso. In questo senso possono essere più affidabili gli studi di congiunzione, in cui vengono confrontati i quadri di attivazione di due o più compiti che condividono tra loro solo la funzione in esame. La scelta dei compiti e la scomposizione delle funzioni che vanno a studiare sono ovviamente punti cruciali e problematici.

L’aspetto più delicato è comunque quello che riguarda in generale la possibilità di localizzare una funzione, cioè di passare dal livello biologico a quello cognitivo (o viceversa), ciò che presupporrebbe una corrispondenza diretta tra un’area cerebrale e un processo psicologico. Così come non è possibile trovare un brano musicale aprendo una radio ed esaminandone i pezzi, non è possibile cercare una funzione cognitiva guardando come si attivano le aree cerebrali, senza già sapere cosa dobbiamo cercare, cioè senza avere un modello cognitivo complessivo prima di interpretare i dati che emergono dalle tecniche per immagini. In questo senso queste metodiche non aggiungono nulla di nuovo agli studi più tradizionali di correlazione anatomo-funzionale. In conclusione, i dati che si rendono disponibili grazie a queste nuove e potenti metodiche vanno letti con molta cautela quando si tratti di inferire il funzionamento del cervello. La disponibilità di queste metodiche non deve infatti far dimenticare l’importanza del contributo dei tradizionali studi neuropsicologici clinici su singoli pazienti, sicuramente più economici e raffinati dal punto di vista dei compiti studiati e dei modelli teorici implicati. Questo approccio costituisce forse tuttora il metodo più utile per falsificare un’ipotesi cognitiva.

 

Allo scopo di stimolare la riflessione e non certo di essere esaustivo sui recenti sviluppi della neuropsicologia, vorrei ora fornire l’esempio di due approcci forse un po’eterodossi rispetto alla neuropsicologia classica e che gettano un possibile ponte verso la comprensione e la reinterpretazione in chiave neuropsicologica di concetti che non appartengono alla sfera della psicologia cognitiva, ma a quella della psicoanalisi.

Mirror-neurons

In tutti i tipi di comunicazione (intenzionali o meno), chi trasmette e chi riceve deve condividere una comune comprensione di ciò che conta e la rappresentazione dei processi di produzione e percezione deve, in qualche punto, essere la stessa (Liberman 1993). Il neurofisiologo e neuropsicologo italiano Rizzolatti ha osservato che la maggior parte dei neuroni dell’area F5 della scimmia scaricano in correlazione con un’azione, piuttosto che con i singoli movimenti che la compongono. Una particolare sottopopolazione di questi neuroni scarica sia quando la scimmia manipola gli oggetti, ma anche quando la scimmia osserva l’esaminatore che fa lo stesso gesto (da ciò il nome di mirror-neurons, o neuroni specchio; Rizzolatti e Arbib 1998). Questi neuroni sono estremamente selettivi e scaricano solo quando la scimmia osserva una ben specifica azione e non altre azioni. In alcuni casi la specificità riguarda addirittura il modo in cui viene eseguita l’azione. Attraverso i mirror-neurons si formerebbe quindi nel cervello una rappresentazione fisica di quelle azioni. Questa rappresentazione viene utilizzata dalla scimmia per riconoscere l’azione fatta da un altro individuo e per compierla a sua volta in un processo che non è imitativo, perché le scimmie non sono in grado di imitare: si tratta di una risposta altamente specifica a uno stimolo. Questi neuroni possono quindi essere intesi come il legame tra chi trasmette e chi riceve, che Liberman ha postulato come prerequisito di ogni tipo di comunicazione. L’area F5 della scimmia è la parte rostrale della corteccia premotoria ventrale ed è omologa all’area di Broca del cervello umano (piede della terza circonvoluzione frontale o area 44 di Brodmann). Come è noto, nell’uomo l’area di Broca è considerata come un’area deputata alla produzione e all’articolazione del linguaggio, mentre nella scimmia F5 è considerata come un’area deputata ai movimenti della mano finalizzati a una localizzazione (prendere, sostenere, strappare). Alcuni dati ottenuti con la PET nell’uomo indicano però che l’area di Broca può attivarsi anche durante l’esecuzione di movimenti della mano o del braccio, durante compiti di imagery mentale, e durante compiti che coinvolgono rotazioni mentali e della mano. Considerando che nell’area F5 esistono anche neuroni mirror audio-visivi, che scaricano non solo in risposta all’esecuzione o all’osservazione di un’azione specifica, ma anche quando l’azione viene solamente udita (Kohler et al. 2002) si può dedurre che quest’area sembra abbia competenze mirror multimodali. Saremmo pertanto in grado di riconoscere un’azione (ma anche una verbalizzazione) fatta da qualcun altro perché l’attivazione neuronale elicitata nella nostra corteccia premotoria durante l’osservazione è simile a quella generata per produrre l’azione stessa, e che abbiamo appreso in passato. Esiste infine un’ulteriore sottopopolazione di mirror-neurons che è in grado di attivarsi sia durante la presentazione dell’azione completa, sia quando ne venga occultata la parte finale dietro uno schermo (es. l’oggetto da prendere), e che può quindi solo venire immaginata (Umiltà et al. 2001). Quando però la scimmia sa che dietro lo schermo non c’è nulla, questi neuroni non si attivano. Questo significa che la rappresentazione motoria di un’azione eseguita da altri può essere generata internamente nella corteccia premotoria dell’osservatore, anche in assenza di una descrizione visiva dell’azione. La mappatura cerebrale di un’azione (di uno stato d’animo?) altrui attraverso i mirror-neurons potrebbe essere dunque il meccanismo fisiologico attraverso cui l’azione (non imitata concretamente) può venire trasformata in memoria e quindi in un pensiero. Questi sistemi potrebbero stare cioè alla base della capacità di inferire gli stati mentali altrui, e forse alla base della neurobiologia dell’empatia.

Rizzolatti (Rizzolatti 2004) ci suggerisce così un esempio di come la neuropsicologia possa procedere dallo studio di ciò che un soggetto fa allo studio della modalità con cui un soggetto si mette in relazione con gli altri.

Amnesia infantile e inconscio non rimosso

Neuropsicologia e psicoanalisi hanno finora proceduto su strade diverse, anche se Freud inizialmente si era dedicato allo studio della neuropsicologia e dell’afasia in particolare (Freud 1891). Pur se recentemente, su impulso primariamente di Mark Solms è stata fondata una Società Internazionale di Neuropsicoanalisi che si riunisce annualmente e pubblica una rivista scientifica (Neuro-Psychoanalysis), dedicata a un riavvicinamento tra le due discipline, non sono molti i possibili punti di contatto. Tra questi c’è però sicuramente la memoria implicita e i sogni.

La memoria a lungo termine si suddivide in esplicita ed implicita. La memoria esplicita o dichiarativa, è cosciente e riguarda soprattutto le proprie esperienze autobiografiche, differenziandosi dalla memoria semantica che comprende tutte le nostre conoscenze sui concetti, decontestualizzati dal momento e luogo di apprendimento. La memoria implicita invece non è verbalizzabile, è inconscia e riguarda sia aspetti procedurali (i gesti che si eseguono in completo automatismo quando si padroneggia uno sport), che il priming (la facilitazione che esercita su un certo compito uno stimolo proposto quando il soggetto non è consapevole di percepirlo). Questi due tipi di memoria dipendono dall’integrità di aree corticali diverse: l’ippocampo e il lobo temporale mediale per la memoria esplicita e la corteccia associativa posteriore (temporo-parieto-occipitale) bilateralmente, ma prevalentemente dell’emisfero destro, per la componente implicita, oltre al cervelletto e ai nuclei della base (per le componenti motorie). Il neurofisiologo e psicoanalista Mauro Mancia, in un lavoro comparso recentemente sull’International Journal of Psychoanalysis (Mancia 2003), ha messo in luce come esista un insieme di memorie di carattere prevalentemente sensoriale e proto-relazionale, che iniziano a depositarsi nel cervello in epoca pre-natale e nei primi tre anni di vita del bambino. In questo periodo, le strutture cruciali per il funzionamento della memoria esplicita non sono ancora mature e quelle prime esperienze possono essere depositate solo nella memoria implicita. Le memorie pre-natali e quelle della primissima infanzia comprendono le esperienze sensoriali acustiche, visive, gustative e tattili e sono legate a esperienze non verbali di trasmissione degli affetti e delle cure, alle esperienze di allattamento, al tipo di holding, alla trasmissione degli odori, all’intonazione, al ritmo e alla musicalità della voce. Comprendono cioè aspetti omeostatici (caldo-freddo, fame-sazietà) e relazionali (tipo di risposta della madre alle frustrazioni del bambino). Le stimolazioni sensoriali inducono risposte riflesse, che una volta fissate formerebbero così una memoria implicita di base, un nucleo inconscio del sé, che non è rievocabile esplicitamente. Tutte queste fasi possono essere disturbate da eventi traumatici (singoli o cumulativi) che ne distorcono il percorso sino ad arrestarlo (come nell’ autismo o nelle psicosi). Nell’insieme sono momenti fondanti della personalità individuale e dell’organizzazione del carattere (Stern 1985, Mancia 2000). Le memorie (esperienze) implicite dei primi 2-3 anni andrebbero così a formare la base dell’inconscio, che influenzerà in modo importante tutte le fasi successive della vita. L’amnesia infantile sarebbe pertanto connessa alla non sincronica maturazione delle diverse componenti della memoria e non già alla rimozione, come supposto da Freud. La rimozione primaria non può esistere in quanto non ci può essere memoria esplicita a quell’età. Negli anni che seguono i primi tre c’è poi una trasformazione delle primitive rappresentazioni mentali di tipo sensoriale in rappresentazioni simboliche, attraverso i primi giochi, il disegno e infine il linguaggio. A questo punto si può sviluppare la rimozione. L’inconscio primario si formerebbe dunque in modalità non rimossa, mentre la rimozione si renderebbe disponibile solo in epoca linguistica, quando è sviluppata la memoria esplicita.

Per Mancia, si avrebbero sostanzialmente due modi per recuperare quanto depositato in questo nucleo inconscio primitivo del sé durante un’analisi: il transfert e il sogno. Del transfert va a questo scopo osservato l’aspetto relazionale nel suo insieme, sia per il contenuto narrativo, sia per la qualità della comunicazione, che si riflette nel tono, nel timbro e nel volume della voce, così come nel ritmo, nella sintassi, nei tempi e nella prosodia del discorso (dimensione musicale del transfert). Il sogno può d’altra parte essere inteso come una rappresentazione pittorica e simbolica di esperienze che in origine erano pre-simboliche e può essere utile per promuovere la mentalizzazione di esperienze che in origine non erano legate al pensiero e che non si possono rievocare in senso proprio. Il concetto freudiano di ritrascrizione della memoria durante il processo analitico, potrebbe fondarsi sulla trasformazione di materiale mnestico implicito in materiale esplicito, verbalizzabile e, in quanto tale, trasformabile: Semenza (Semenza 2001) usa l’analogia con un gesto sportivo a lungo appreso (quindi depositato nella memoria procedurale) e che deve essere corretto da un maestro il quale deve dapprima interrompere il fluire automatico e veloce di quel movimento che era inconscio, per renderlo consapevole e modificabile, con grande fatica e dispendio attenzionale (nonché economico!), e per riportarlo infine a un nuovo e più adattativo livello di automatismo.

Conclusione

Nel 1915, Freud si accommiatò dalla neurologia e dalla neuropsicologia del tempo per dedicarsi totalmente alla psicoanalisi che andava creando, pur con l’idea e la speranza che un giorno sarebbe stato possibile dare un fondamento neurologico al comportamento umano. Nella Metapsicologia (Freud 1915) afferma infatti che: "(…) la ricerca ha provato in modo incontestabile che l'attività psichica è legata al funzionamento del cervello più che ad ogni altro organo. Un tratto piú avanti (non sappiamo quanto) porta la scoperta dell'importanza disuguale delle diverse aree del cervello e del loro particolare rapporto con determinate parti del corpo e attività mentali. Ma tutti i tentativi di scoprire, su questa base, una localizzazione dei processi psichici, tutti gli sforzi intesi a stabilire che le rappresentazioni sono accumulate in cellule nervose e gli eccitamenti viaggiano lungo le fibre nervose sono completamente falliti. La stessa sorte toccherebbe a una dottrina che volesse, poniamo, individuare nella corteccia la sede anatomica del sistema C, dell'attività psichica cosciente, e localizzare i processi inconsci nelle aree subcorticali del cervello. Si apre qui uno iato che per il momento non è possibile colmare (…).

Rizzolatti, Solms, Semenza e Mancia ci fanno intravvedere che i tempi iniziano ad essere maturi per un autentico dialogo, se non proprio per una riunificazione, tra le discipline che affrontano il problema mente-cervello da un punto di vista psicologico e quelle che lo fanno da un punto di vista neuroscientifico.

 

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