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Tra terapia e riabilitazione:
l'esperienza di un gruppo di lettura

di Giovanni Del Puente

Nell’ambito delle attività sviluppate presso la Clinica Psichiatrica RR rivolte alle pazienti degenti, sono stati impostati trattamenti di psicomotricità, di disegno e di discussione su alcuni brani di lettura, condotti da medici del Reparto con la collaborazione di personale in formazione. La decisione di aggiungere agli strumenti abituali della terapia (costituiti in primo luogo da colloqui e dalla somministrazione di psicofarmaci) anche tali trattamenti sorgeva dal riscontro dell’esistenza di un ampio spazio di possibilità di approccio non coperto dalla routine quotidiana.

Questi trattamenti si proponevano quindi di aprire nuove vie di contatto e di relazione con i pazienti, utilizzando canali di comunicazione lasciati altrimenti inesplorati nel corso della degenza. Accanto a questa finalità più esplicitamente terapeutica si tentava inoltre di trovare soluzioni alla necessità di fornire sollecitazioni riabilitative a persone che, sia per la loro condizione patologica (frequentemente cronica), sia per la situazione stessa del ricovero, vivevano una fase di intensa regressione, favorendo al contempo momenti di aggregazione che potessero anche rappresentare l’avvio ad una successiva fase di più proficuo reinserimento sociale.

Un criterio basilare a cui ubbidivano i trattamenti era quello di fornire stimolazioni non rigidamente preordinate, né univoche e schematiche, tali quindi da permettere l’esplicitazione di potenzialità creative nelle pazienti.

In tale prospettiva furono selezionate (per i cosiddetti "brani di lettura") delle brevi fiabe di G. Rodari. Queste possedevano svariate caratteristiche che le rendevano utili allo scopo che ci si era proposto: la brevità, la chiarezza e semplicità dei termini, la facile comprensibilità, la possibilità di fornire livelli diverse di lettura, l’evocazione di sentimenti e problematiche comuni ad ogni persona.

Le modalità di svolgimento degli incontri, a frequenza settimanale e della durata di 90 minuti, prevedevano la lettura iniziale del brano, su cui le pazienti erano invitate ad esprimere le loro emozioni ed i loro sentimenti. I conduttori potevano mettere in atto sollecitazioni, suggerimenti, rassicurazioni, tutto quell’insieme cioè di atteggiamenti che permettessero di fruire di tale iniziativa nella maniera più libera e completa. La partecipazione ai gruppi era completamente volontaria e legata solo all’informazione che veniva fornita della loro esistenza, del loro orario e delle modalità e caratteristiche di svolgimento.

Essendo pazienti in condizioni di ricovero e quindi in fasi ancora acute di crisi (e spesso drammaticamente acute), appare intuibile la necessità per i conduttori di rinunciare ad una posizione di neutralità asettica per calarsi al contrario in una partecipazione molto più attiva, coinvolta e coinvolgente. Le modalità comunque di utilizzo del "materiale" fornito dalle pazienti, e restituito ad esse dopo averlo sottoposto a chiarificazioni ed interpretazioni, possono essere assimilate a quelle proprie della conduzione di un gruppo di psicoterapia.

La patologia presentata dalle pazienti ricoverate spaziava in una gamma piuttosto ampia di quadri clinici: schizofrenia, distimie, sindromi nevrotiche, quadri psicotici. Non abbiamo osservato il prevalere di una data patologia tra le partecipanti; queste cioè si disponevano grossolanamente in percentuale uniforme alle patologie rappresentate. Anche le diverse età anagrafiche erano ampiamente rappresentate, in rapporto proporzionale alla loro differente frequenza nella popolazione delle pazienti ricoverate nel Reparto.

Essendo pazienti ricoverate, appare evidente che molto spazio all’interno del gruppo venisse monopolizzato dal tema del rapporto con i medici e, più esattamente, dalle riflessioni sul modo con cui questi si mettono in contatto con le pazienti stesse. La figura del medico viene fatta oggetto di una intensa idealizzazione, che tuttavia molto spesso si colora di venature negative e sgradevoli denunciando in tal modo l’aggressività di cui viene caricata.

Alcune favole (in modo particolare "La fuga di Pulcinella") evocano in maniera più immediata il contrasto tra il bisogno dell’indipendenza da un lato e la paura di perdere la protezione di cui si gode dall’altro. I fili attorcigliati intorno al collo (questa è la trasposizione autobiografica compiuta da una paziente dell’immagine dei fili che muovono la marionetta della fiaba) richiamano l’aspetto soffocante della dipendenza; ma non meno sgradevole è la sensazione di vuoto e di abbandono quando i fili vengono tagliati.

In questo conflitto rientra il ruolo che viene fatto assumere ai medici: sono loro che direttamente o indirettamente tengono i fili: il ricovero, le restrizioni connesse alla degenza, la discrezionalità nello stabilire le dimissioni, le visite di controllo, i farmaci che prescrivono. Quando tuttavia ci si vuole emancipare da tale sudditanza, quando si vogliono tagliare i fili che continuano ad evocare la propria condizione di persona malata (sospendendo ad esempio autonomamente in periodi di apparente benessere l’assunzione della terapia farmacologica) ecco subito ricomparire il disagio, la sofferenza, i sintomi. Il medico si carica quindi di un ruolo onnipotente: egli ha la proprietà di far star bene, ma detiene anche il potere di conservare sempre viva la dipendenza, a pena, appunto, di far ricadere immediatamente nella sofferenza. Proprio queste caratteristiche spiegano l’irritazione ed il fastidio sperimentati sempre nei confronti dei medici, denunciandone l’incomunicabilità e l’impermeabilità affettiva.

A tratti tali sentimenti si precisano in veri e propri attacchi invidiosi. Nella discussione sulla favola "Il sole e la nuvola" emerge l’immagine del medico che possiede i raggi ma non li vuole mettere a disposizione di chi ne ha bisogno; le richieste e i bisogni dei pazienti non vengono mai soddisfatti. Viene implicitamente richiamata la ricerca di una immagine materna, le cui prerogative di oblatività e disponibilità vengono assunte come fondamento del rapporto terapeutico.

Tuttavia la figura del medico risente di una visione che incrina la sua onnipotenza: una paziente, sempre nel corso della stessa seduta, parla esplicitamente di "macchie solari", che vanno quindi a contaminare questa figura, proponendo il medico in una dimensione più riduttiva, fallibile e svalutata. La sua potenza non è dunque inesauribile.

"La passeggiata di un distratto" descrive la passeggiata di Giovanni, bambino felice e curioso della vita, che perde cammin facendo parti del proprio corpo. Queste vengono raccolte da passanti premurosi che le consegnano alla madre di Giovanni: la donna, per nulla preoccupata ed anzi divertita per la disattenzione del figlio, le riattacca affettuosa al corpo del bimbo che nel frattempo ha continuato a conservare una serena fiducia. La lettura di questa fiaba aveva suscitato una forte reazione emotiva in una paziente che, in preda ad uno stato di intensa angoscia, si era allontanata rapidamente dalla stanza al termine della lettura.

Possiamo ritenere che vi siano due livelli di comunicazione insiti nella favola: uno di tipo discorsivo-razionale ed uno di tipo emotivo-affettivo. Sembra che questa paziente colga chiaramente ed unicamente questo secondo codice, rispondendo ad esso praticamente priva di strumenti difensivi. Nella sua storia personale presenta infatti un rapporto estremamente conflittuale con la figura materna: è pertanto intensamente colpita proprio dall’elemento emotivamente più significativo della favola, e cioè dalla capacità contenitiva della madre (una vera e propria holding winnicottiana), dalla sua positività, dalla serena e rasserenante fiducia che offre, garanzia a propria volta di una fiduciosa aspettativa nei confronti della vita.

L’angoscia manifestata dalla paziente costituisce la risposta più "sintonica" con la sollecitazione emotiva. Le altre partecipanti colgono nei loro interventi due caratteristiche diverse delle attitudini materna: alcune sottolineano la presenza di funzioni emancipative effettive e valide ("Giovanni era contento perché sapeva che c’era la madre che l’aiutava"), che sono quelle appunto che permettono al figlio di mantenere ben salda la propria identità. In questo caso viene assunta implicitamente l’ipotesi di una perdita, nella storia di queste pazienti, di un rapporto positivo con la madre.

Per altre si intuisce invece la mancanza di tale rapporto, che quindi non è stato mai incontrato e conosciuto. Sono le pazienti che delle attitudini materne individuano la sola funzione passivo-contenitiva. Esse non si sentono pensate dalla madre, o meglio non si sentono adeguatamente accolte nel suo pensiero; e, per la trasposizione madre-medico che molte di loro immediatamente istituiscono, tale immagine viene riferita appunto anche alla figura del medico.

La fase di intensa regressione vissuta dalle pazienti nella condizione stessa del ricovero sembra qui dunque funzionare da potente stimolo nell’introdurre questa traslazione madre-medico; ma nello stesso tempo sembra pure subire una analoga incentivazione proprio da essa.

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