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Aspetti psicoterapeutici del trattamento in ambito istituzionale di un caso di anoressia mentale

di Maurizio Marcenaro e Paola De Stefani

Affrontiamo in questo contributo la problematicità della terapia dell’anoressia mentale così come si articola in ambito istituzionale. La prospettiva di osservazione è quella del ricovero in un reparto psichiatrico, evenienza rara in queste pazienti per le quali il trattamento ospedaliero avviene di solito in reparti internistici, endocrinologici, etc; questo per i motivi che ci sono noti, il disconoscimento della propria sofferenza psichica, l’estrema precarietà delle condizioni fisiche che si pone sempre in primo piano in modo pressante e inequivocabile. Lo psichiatra, in ospedale, incontra la paziente come consulente, all’interno di un contesto internistico, quindi in modo meno diretto, privo di quelle particolari condizioni di contatto e di setting attuate della degenza psichiatrica. Nel caso clinico preso in esame riteniamo che il ricovero abbia rappresentato per le sue caratteristiche concrete e peculiari, per i tempi e le modalità con cui si sono sviluppati, con la sua mediazione, l’approccio e il processo terapeutico e infine per il decorso assunto dalla patologia, un’esperienza paradigmatica per il trattamento di questa condizione.

Si tratta di una giovane di 26 anni, ricoverata in un reparto endocrinologico; rispetto alle altre pazienti come lei seguite congiuntamente dall’internista e dallo psichiatra, mette in crisi la prassi consolidata di questo tipo di trattamento ospedaliero. Ha messo a dura prova tutti, con le sue proteste e la sua lamentosità rivendicativa e il ricovero in reparto psichiatrico, da lei iterattivamente richiesto contro chi in quel momento si propone di assisterla e curarla, avviene in un’atmosfera animata da intense valenze persecutorie. È giunta giorni prima in ospedale in stato di coma, ultimo atto di una lunga storia di anoressia mentale. Da molti anni ormai il tempo della sua esistenza era scandito dai rituali legati alla patologica condotta alimentare. Fuori dal fugace contatto con l’esile quotidianità del lavoro, si chiudeva nella propria stanza e percorreva con "consumata" abilità il suo rito: divorava un’enorme quantità di cibo per il quale spendeva tutti i suoi guadagni e poi passava il resto della giornata a vomitare tutto in una situazione segnata da una pesante atmosfera regressiva. La gravità delle sue condizioni fisiche e il coma, presto regredito, prodotto dal disordine metabolico indotto dal vomito in un fisico ridotto allo stremo, l’avevano condotta, per il suo negativismo, ad un trattamento sanitario obbligatorio per motivi medici e alla degenza in reparto internistico.

Quando la incontriamo per la prima volta, dopo il trasferimento in reparto psichiatrico, è una presenza perturbante, con i ciuffi di capelli stopposi, i denti ormai completamente corrosi dai succhi gastrici e dall’incuria, il corpo consunto avvolto in un logoro vestito nero che non vuole cambiare mai, le mani scheletriche sporche di feci di cui compulsivamente vuole liberare l’intestino, il collo, ridotto all’osso, avvolto in una sciarpa dai colori vivaci, ultimo segno di una femminilità martirizzata e irriconoscibile. L’atmosfera di fallimento e di irrimediabilità distruttiva che sembrano condurla inesorabilmente verso la morte permea l’ambiente di ricovero e penetra prepotentemente nel personale di reparto. Il disagio emotivo così percepito sembra poter ritrovare inizialmente, per l’urgenza della situazione fisica e per il rischio incombente della morte, una sorta di controllo attraverso una risposta terapeutica più "mirata", più "fisica", più evidente e concreta nei suoi effetti. Questo, diversamente da quanto era mai accaduto prima del ricovero quando il cronico attentato organizzato dalla paziente verso la propria vita, sostenuto dalla sua pervicace opposizione a riconoscere la propria distruttività e a curarsi, aveva lasciato spazio nei curanti (medici e psichiatri via via incontrati), ad una "rispettosa" e "garantista" distanza da lei. Ora, con il coma, lo stato di necessità ha imposto di intervenire per salvarla. E quando poi la sua volontà risvegliata nuovamente è tornata ad opporsi, il pericolo troppo incombente di un nuovo sonno mortale le ha confermato l’obbligo a curarsi prima con il trattamento sanitario obbligatorio e poi con la quotidiana e protratta opera di convincimento a rimandare al giorno seguente la propria decisione di dimettersi dal reparto psichiatrico dove, come abbiamo visto aveva richiesto ella stessa rivendicativamente di essere trasferita. Il ricovero della paziente è durato complessivamente otto mesi; il decorso della sua psicopatologia si è svolto sostanzialmente attraverso alcune tappe significative, segnate dall’emergere, con espressività diverse, della sua distruttività. I primi due mesi sono contrassegnati dal suo rifiuto di alimentarsi, dalle sue provocatorie, colpevolizzanti opposizioni e rivendicazioni. Non esisteva in apparenza un contatto con lei se non attraverso la sua tragica lamentosità e le cure mediche atte a controbattere la sua tendenza a scivolare verso la morte: contrattazioni quotidiane per convincerla a rimanere, continue controlli somatici per il funzionamento degli organi che sembra gravemente compromesso, la necessità di sostenere i diritti del suo corpo a sopravvivere di fronte ai suoi continui attacchi, le imposizioni colpevolizzanti del sondino naso-gastrico, il confronto quotidiano con la bilancia, tra i suoi pianti disperati e le accuse per le "cattiverie" perpetrate su di lei con la pretesa di curarla. Per lo psichiatra si trattava di un incontro con il pesante fardello della distruttività, della colpa e di un diuturno, paziente e instancabile proporsi a lei permettendo questo accadere. Ciò richiama alla mente quanto Balint suggerisce a proposito del trattamento della regressione: permettere al paziente di ricostruire nella situazione terapeutica il rapporto primitivo secondo il suo schema, secondo le sue cristallizzazioni e badare a mantenerlo indisturbato fino a che esso non possa scoprire nuove forme di relazione oggettuale; l’analista per Balint deve svolgere da questo punto di vista il ruolo di una sostanza originaria indistruttibile e sempre presente. In questa fase la paziente, soggiogata dalla sua anoressia, sembra incapace di pensare suscitando però all’interno della mente dello psichiatra una serie di movimenti emotivi intorno all’angoscia di morte e alla colpa; la terapia medica, psichiatrica e assistenziale (cure somatiche, psicofarmaci, alimentazione forzata, fleboclisi nutritive, trasfusioni, esami clinici, controlli internistici, verifica quotidiana del peso, etc.) assumono, al di là del loro reale valore per la sua vita fisica, il significato non solo di risposte dirette a sdrammatizzare magicamente e in parte a negare la forte carica distruttiva presente in lei, ma anche di mediatori concreti delle sue proiezioni che così sono ricondotte continuamente all’interno di una situazione terapeutica definita e stabile che permette il recupero di una dimensione comunicativa e il loro contenimento. "Una delle finezze dell’assistenza istituzionale consiste nel sapere proprio in quale momento e in quale modo i rapporti mediati possono essere (inconsciamente) accettati e utilizzati senza perdere di vista l’obiettivo ideale che è quello di superarli" (Racamier, 1970). L’intervento esclusivamente centrato sulla medicalizzazione, spogliata dei suoi significati comunicativo-relazionali, acquista un valore espulsivo di tutte quelle angosce distruttive che peraltro la paziente riesce a far percepire emotivamente. Pertanto un luogo, fisico e mentale insieme, che soltanto il ricovero può fornire, in cui la paziente possa trovare alloggio configura accanto all’accudimento medico, realistico, necessario e concreto un altro tipo di accudimento, potremmo dire psichico, che riguarda l’accettazione della percezione dentro la mente del terapeuta delle emozioni suscitate dalla paziente.

Al termine di questo primo periodo si verificano alcuni mutamenti: la paziente perde la capacità di vomitare, che l’ha accompagnata nella prima parte del ricovero impedendole di prendere peso, e la capacità di astenersi dal cibo. Inizia ad ingrassare raggiungendo quel limite prefissato per la dimissione tanto sospirata e motivo della propria disperata protesta. Ma compaiono in lei vissuti di depersonalizzazione auto e somato-psichica che cerca di tenere per sè; qualcosa però è cambiato e la dimissione la trova incerta e timorosa; piange sommessamente tanto che le viene mostrata l’incondizionata disponibilità a prolungare il ricovero o a riaccettarla qualora lei ne senta il bisogno. In occasione di una visita a una settimana di distanza, la paziente chiede in lacrime di poter ritornare ad essere ricoverata, nonostante il parere contrario dei familiari. In reparto mette in atto un tentativo di suicidio con degli psicofarmaci che ha trovato a casa. L’ingrassamento è per lei intollerabile, si sente angosciata, minaccia di uccidersi ancora. La comparsa della bulimia, con vere e proprie orge alimentari, produce un ingrassamento tanto rapido e inarrestabile quanto ancora una volta pericoloso per i suoi organi estremamente provati. In questa nuova e perturbante condizione comincia ad esprimere delle emozioni, la sua disperazione per l’incapacità a riconoscersi in quel corpo trasformato che la fa sentire come lo scarafaggio della novella di Kafka. Inizia qui un lungo periodo in cui la paziente esce dal suo isolamento e permette, al di là della dimensione fisica altrettanto presente e pressante come prima, una nuova alternativa di rapporto con lei. Ora la condizione che le consente di esprimere la propria disperazione, attuale e di tutta la sua vita, è l’obesità sentita come incurabile, obbligatoria e obbligante ad una vita fuori dal mondo, per sempre in ospedale o chiusa in casa, lontano dallo sguardo delle persone, per lei intollerabile. Lo psichiatra si ritrova, ancora una volta, a provare e a dover tollerare sentimenti di colpa per aver indotto in lei, strappata forzatamente al destino che s’era scelta, dei cambiamenti il cui effetto non sembra più controllabile. Però, a differenza di prima, la paziente si permette un’alternativa alla rigida espressività precedente e una nuova possibilità di contatto. Infatti, man mano che la sua obesità esplode, diventa affettuosa, ricerca il contatto, spesso anche fisico, con i curanti, e dimostra una familiarità impensabile per lei; sorgono altri desideri accanto alla sua disperazione, compera dei vestiti nuovi, inizia timidi contatti con l’esterno, accetta di vedere qualche vicino di casa e i colleghi di lavoro, si sottopone a cure dentistiche e i capelli ricresciuti vengono affidati alle cure del parrucchiere; fa ritorno in ufficio e conta di riprendere il lavoro abbandonando però il contatto diretto con il pubblico. Permangono le angosce di sempre, la minaccia di suicidarsi, l’intenzione di sottoporsi al trattamento di un chirurgo che cura l’obesità con l’asportazione di un tratto dell’intestino. La dimissione avviene stando così le cose, con il progetto di un trattamento ambulatoriale con lo psichiatra che l’ha curata e con un nutrizionista che tenti di ridurre col tempo la sua obesità. La paziente però viene persa di vista, fa giungere soltanto tramite la madre saltuarie informazioni su di sè: è sempre bulimica e si fa accompagnare in auto al lavoro per sfuggire agli sguardi della gente. A distanza di un anno e mezzo la paziente si ripresenta tra lo stupore di tutti; è una ragazza carina, abbastanza curata, e ben proporzionata nel fisico. E’ venuta apposta per ringraziare, per mostrare come sta, e per dire al curante di un tempo che ora non ha più paura di lui. E’ sorridente, contenta di poter ritrovare, più serena e "guarita" chi l’ha curata.

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