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Giorgio Quintavalle

Qualche spunto psicoanalitico in tema di relazioni conflittuali.

Vorrei partire da una considerazione empirica in tema di conflitti. Se A e B si trovano nell’esigenza di acquisire x, e x è indivisibile e non può essere contemporaneamente disponibile ad entrambi, oppure se C necessita di x e y, e questi siano incompatibili; o ancora se D ama e contemporaneamente odia z, in tutti questi casi saremmo oggettivamente in presenza di una situazione conflittuale; ma non necessariamente, da un punto di vista soggettivo, di un conflitto. Quanto meno non ancora, giacché questo dipende dalle modalità di elaborazione del dato da parte del o dei soggetti. A e B vogliono x: è presumibile che uno dei due dovrà affrontare una frustrazione e un lutto. C vuole x e y incompatibili: anche C si troverà di fronte una frustrazione e un lutto, così come anche D dovrà elaborare la situazione conflittuale fra i suoi opposti sentimenti per z.

Melanie Klein, descrivendo la vita affettiva originaria del bambino, distingue due modalità fondamentali di assetto psichico e di relazione con l’oggetto: la posizione schizo-paranoide e la posizione depressiva. La prima, fondata sulla scissione dell’oggetto in oggetto buono e oggetto cattivo, tende a proiettare tutto il bene assoluto nell’oggetto buono, e tutto il male assoluto nell’oggetto cattivo. Questa posizione è caratterizzata dal sentimento di angoscia persecutoria, nel terrore che l’oggetto cattivo venga a distruggere il sé.

Scrive la Klein (1935) "Nei miei scritti precedenti avevo avanzato l’idea...che il bambino nei suoi primi mesi di vita provi delle angosce paranoidi, raffrontandole a un seno cattivo che si rifiuta e che è percepito come un persecutore interno ed esterno. Questa relazione con oggetti parziali [...] è la ragione del tipo di relazione fantastica e irreale che il bambino ha a quest’epoca con tutti gli oggetti che lo circondano, con tutte le diverse parti del proprio corpo, con le persone e le cose che gli stanno intorno e che egli percepisce in maniera estremamente confusa."

L’accesso alla posizione depressiva vede invece il progressivo abbandono dei meccanismi di scissione e la conseguente integrazione dell’oggetto, il riconoscimento cioè di un solo oggetto che può essere buono e al contempo cattivo.

Ne deriva la consapevolezza di avere attaccatto l’oggetto buono stesso e quindi l’angoscia non più di essere distrutto dall’oggetto cattivo ma, al contrario, di aver distrutto l’oiggetto buono (angoscia depressiva).

Scrive ancora la Klein "[In questo periodo] si produce un cambiamento nell’atteggiamento emozionale del bambino nei confronti della madre. La fissazione libidica al seno cede il posto ai sentimenti che il bambino prova per la madre in quanto persona. Così il bambino prova tanto i sentimenti amorosi quanto quelli distruttivi nei confronti di un unico e solo oggetto, e ciò provoca in lui una serie di conflitti profondi che lo turbano violentemente."

La posizione depressiva porterà, nel successivo sviluppo, a desideri riparatori nei confronti dell’oggetto ormai integrato e al superamento, se tutto va bene, delle angosce più primitive.

Così sommariamente accennati, questi processi affettivi sono stati individuati e descritti con riferimento alla primissima infanzia, nel rapporto del bambino dapprima con gli oggetti parziali — primariamente il seno -, poi con l’oggetto totale. Ma è certamente palese quanto questi assetti mentali pertengano altresì alla vita degli individui, dei gruppi, delle istituzioni, e quanto spesso ci accada di osservare come la posizione schizo-paranoide sia difficile da abbandonare.

Come scrive Giuseppe Di Chiara (1998) "...universalismo e particolarismo, lingue e dialetti, stati regressivi delle mente e stati evolutivi danno luogo a diverse costellazioni del mentale, nell’individuo e nel gruppo, secondo che lo stato psichico sia quello della posizione depressiva — nella quale si realizzano le integrazioni possibili — o quello della posizione schizo-paranoide, nella quale le integrazioni si interrompono e i legami si spezzano. Allora è ricco e vitale l’universalismo che sa contenere i particolarismi, i regionalismi, mentre è povero e rigido quello che li esclude e contrasta. E’ più ricca la personalità matura che sa dare spazio al suo infantile, ed è povera quella che, incapace di integrare adeguatamente l’infantile, lo rimuove." (pag. 39)

Ritorniamo ora ad A, B, C, D in situazioni conflittuali. L’assetto mentale del soggetto, a seconda del prevalere di meccanismi paranoidi e schizoidi ovvero di elaborazioni depressive, determinerà il verificarsi o meno di un conflitto, interpersonale o intrapsichico.

In altre parole, per avvicinare la psicodinamica di un conflitto occorre individuare la presenza e le caratteristiche delle istanze affettive entro le quali la situazione conflittuale oggettivamente si pone. Nell’assetto che abbiamo descritto come paranoide-schizoide (l’oggetto primario è stato scisso), tutto il male viene esportato in uno degli oggetti preservando tutto il bene nell’altro oggetto: l’oggetto nemico è cattivo, sadico, ci attacca continuamente, siamo terrorizzati dalla sua distruttività. L’oggetto persecutore contiene le proiezioni del nostro odio e della nostra distruttività, per questo viviamo nel terrore della sua vendetta. Per inciso, possiamo distinguere l’oggetto persecutore, che pertiene al mondo fantasmatico, dall’oggetto ostile, che può pertenere al mondo reale. Eventualmente, anzi, l’oggetto vissuto come persecutore nella fantasia può talvolta divenire per ciò stesso realmente ostile, come avviene frequentemente in situazioni paranoidi.

In questa situazione, quindi, la sofferenza e il dolore non vengono elaborati in sé, ma riportati all’oggetto persecutore che ne viene considerato la causa: ciò che Fornari (1970) ha descritto come elaborazione paranoica del lutto: "Quando infatti in una tribù primitiva muore una persona, tale morte non viene riconosciuto come il risultato di forze naturali, ma viene sentita come prodotto di un maleficio. La sede del maleficio è fantasticata essere nella tribù confinante: la morte cioè viene da oltre frontiera. Tutta la tribù allora, in virtù della solidarietà del sangue, per esportare il lutto al di fuori, muove guerra alla tribù confinante, sentita come la causa della morte-influenza malefica." (p.68 sg)

Agli albori della posizione depressiva nasce, con la riunificazione dell’oggetto, dapprima onnipresente nelle sue vesti scisse di buono o cattivo, la percezione dell’assenza. Da questa primitiva dolorosa percezione di un oggetto integro e assente nasce il pensiero; nasce come rappresentazione, come segno di ciò che sta per qualcosa che non è più presente; nasce quindi il segno del dolore.

Per questo nella conoscenza è insita una certa tonalità emotiva dolorosa, il desiderio stesso di sapere, che esprime la tensione del soggetto verso qualcosa ch’egli non possiede. Bion (1962) individua in questa tensione emotiva il legame K (Knowledge), definito come la relazione fra un soggetto che cerca di conoscere un oggetto e un oggetto che si presta ad essere conosciuto. Non essendo pensabile una relazione oggettuale priva di contenuti emotivi, né un’esperienza emotiva avulsa da una relazione, Bion propone di isolare, accanto a K, altre due emozioni fondamentali, che chiamiamo "amore" (L) e "odio" (H). Queste saranno presenti, in varie modalità, nelle diverse emozioni che hanno un nome nel nostro universo semiotico.

La costellazione edipica rinnova nell’arco della sua evoluzione l’intesa situazione conflittuale fra desiderio e divieto (o fra desiderio e impossibilità): per questo la rinunzia alla realizzazione dell’edipo costituisce la necessaria condizione per lo sviluppo della mente.

Scrive Gilda De Simone (2002), nel suo recentissimo e illuminante libro Le famiglie di Edipo: "Possiamo quindi immaginare il tramonto del complesso edipico come distanziamento dalla compulsività e dalla pulsione di impossessamento. Anche ammettendo la pulsione del bambino nel senso freudiano, vero è che il bambino non avrebbe comunque i mezzi per soddisfarla [...]. Allora il tramonto del complesso edipico non sarebbe dovuto all’angoscia di castrazione (come in Freud), ma l’angoscia di castrazione nascerebbe dal percepire il desiderio edipico come compito impossibile." (p.35)

La tensione di Edipo verso la conoscenza della propria identità esprime il drammatico conflitto della storia mentale dell’homo sapiens. Cito ancora Gilda De Simone "Freud [...] fece del mito di Edipo l’asse portante della struttura psichica nell’uomo: un mito che si dimostra interpretabile in numerose varianti e mostra infinite sfaccettature per la comprensione dei fatti psichici. Possiamo quindi continuare a parlare in termini ‘edipici’, io credo, privilegiando una lettura in chiave di conflitto per la conoscenza e l’identità."(p.71)

In sintonia, mi sembra, con il pensiero della De Simone, sono anche le considerazioni di Conforto (2003) sul tema del mito edipico "La narrazione mitologica è più ampia, dalla colpevole ascesi verso quella verità che l’indovino Tiresia ammonisce di non perseguire al prologo dell’intera tragedia, rappresentato dal nome di Edipo (oidipos: dal piede gonfio), che Giocasta passa sotto silenzio, provocato dal padre Laio quando gli legò i piedi abbandonandolo sulla montagna. Il percorso tragico che il piccolo dell’uomo trova inscritto nel proprio inconscio può allora essere guidato non solo da ciò che egli desidera (incestuosamente), ma, inevitabilmente, essere influenzato anche da quel quanto d’odio e di desiderio di cui i genitori, con tonalità e intensità pur assai diverse, sono portatori nei suoi confronti. In questa più complessa lettura l’Edipo... può essere si fonda su una differenza di sessi e di generazioni e si anima nel suo svolgersi a cavallo tra desideri libidici, gelosie mortifere, angosce punitive e catastrofi agoniche."

Quando, per un complesso insieme di concause, si verifica un arresto di crescita mentale, e meccanismi di fissazione o regressivi segnano un incaglio nell’evoluzione psichica, talché non viene sortita l’elaborazione e il superamento della posizione schizo-paranoide (assetti prevalentemente psicotici) né l’allontanamento dall’edipo (assetti prevalentemente nevrotici), di fronte ad una situazione conflittuale la mente del soggetto non potrà beneficiare di quel lavoro depressivo che gli consentirebbe di valutare travolto da H e da L, e dai meccanismi di scissione e proiezione che abbiamo descritto più sopra. Avverrà allora, fra A e B che vogliono x, l’attacco distruttivo, secondo un principio mors tua vita mea, e non ci sarà spazio per una ricerca ulteriore. Né per C che vuole contemporaneamente x e y sarà diverso il destino: non sopportando la frustrazione e il lutto conseguenti ad una scelta, C rimarrà prigioniero dell’angoscia di una situazione irrisolta. Non diversamente da D che, incapace di tollerare l’ambivalenza, perpetuerà una relazione alterna, spesso violenta e sadomasochistica, con l’oggetto del suo amore-possesso e del suo odio.

Osservavo più sopra come le modalità infantili si ritrovino spesso nel mondo anagraficamente adulto, e come queste stesse modalità altrettanto spesso permeino la vita dei gruppi e delle istituzioni. Un’evoluzione maturativi ha però differenti vicissitudini negli individui rispetto a quanto accade nei gruppi. Leggiamo ancora Fornari (1970) "Mentre infatti nella vita degli individui l’altro (sotto forma di presenza materna originaria) arriva, dopo una prima fase paranoidea a costituirsi come fondante del Sé, al contrario, nella vita dei gruppi , l’altro gruppo si costituisce esclusivamente sul piano paranoideo come originariamente distruttivo nei confronti del proprio gruppo. La vita dei gruppi rimane cioè a livello psicotico paranoideo (manicheismo dei gruppi). Poiché da un punto di vista psicanalitico ha un senso parlare di un altro gruppo o di un proprio gruppo solo in quanto si estendono ai gruppi qualità che hanno un senso solo nell’esperienza del singolo individuo (per cui ciò che chiamiamo gruppo non è altro che un’esperienza relazionale dell’individuo), è indubbio che dal momento in cui l’altro, a livello di esperienze di gruppo, anziché costituirsi come una condizione per la salvezza del Sé, si costituisce come una condizione di minaccia per il Sé, gli individui esprimono nel gruppo una propria disponibilità paranoie, che però viene occultata come tale in quanto viene condivisa collettivamente da tutti gli individui del gruppo. I gruppi così conoscono la necessità di amore per il proprio gruppo , cioè l’amore narcisistico. L’impossibilità di amore per l’altro (situazione tipicamente psicotica) viene perciò vissuta dagli individui nell’esperienza del gruppo, ma ancora una volta essa non è vissuta come psicotica, in quanto tale modalità non è condivisa da tutti." (p.149 sg)

Conseguentemente " Nella costituzione del gruppo la condizione paranoidea si evidenzia attraverso la deflessione, all’esterno del gruppo, delle intenzionalità distruttive degli individui appartenenti al gruppo. In tal modo la coesione di un gruppo diventa proporzionale all’esistenza di un nemico al quale vengono rivolte alle tendenze distruttive che, se non deflesse, renderebbero precaria la coesione del gruppo. La deflessione sul nemico del sadismo degli individui di un determinato gruppo che, nei casi in cui manchi un nemico esterno sul quale deflettere gli impulsi distruttivi, esso deve crearsi un nemico all’interno di sé, sotto forma di sadismo verso le minoranze (p.70)

La follia condivisa non è dunque percepita. Essa costituisce spesso il tentativo di risposta difensiva di fronte ad angosce profonde che pervadono l’individuo come il gruppo; difese impotenti, come le scissioni e le proiezioni sopra descritte, come la negazione onnipotente e in genere tutte le difese maniacali. Il tema della colpa ha un ruolo centrale, sia ove essa viene negata, sia dove venga onnipotentemente assunta. L’universo infantile della colpa persecutoria sbarra quindi il cammino verso l’assetto adulto della responsabilità che, a differenza della colpa, guarda al presente e al futuro, tende alla riparazione e alla cura dell’oggetto d’amore. Rimando su questo tema al chiaro ed esauriente volume di R. Speziale-Bagliacca, Colpa (1997).

L’invidia, che per molti versi è stata considerata il motore del mondo, svolge sempre una funzione essenziale nell’affettività, individuale e collettiva. Il suo rapporto con la distruttività è ben chiaro: non sia dato a me, purché sia tolto a te. E spesso è questo l’apparente vessillo di una pretesa giustizia distributiva che maschera, nel segno fiducioso e bonario di un’eguaglianza, l’invidia mina che vaga nelle profondità delle anime. L’invidia non consente di accedere ad un oggetto buono, interno o esterno, poiché esso è proprio perciò immediatamente maleficato dalle difese contro la sofferenza dall’invidia stessa provocata (si dice giustamente infatti "soffrire d’invidia"), difese fra le quali la svalutazione e il disprezzo nei confronti dell’oggetto invidiato sono le più comuni. In molti conflitti, intrapsichici, o fra individui, o fra gruppi, l’invidia è per lo più negata, consciamente o inconsciamente. Ma anche quando è completamente inconscia, è spesso evidenziata dall’emergere di assetti difensivi psicotici.

Riassumendo su questo tema il pensiero della Klein, Hanna Segal (1979) chiarisce " Poiché produce pena e angoscia, l’invidia eccessiva mette in moto anche potenti difese che interferiscono con la graduale evoluzione dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva. Se l’invidia è forte durante la posizione schizo-paranoide, la proiezione aumenta, l’oggetto è degradato e l’invidia è proiettata nell’oggetto degradato. Per questa ragione le angosce paranoici aumentano. Per difendersi da questo stato di cose, si intensifica la scissione e ci si serve di una idealizzazione eccessiva per ostacolare la persecuzione. […] Poiché l’eccessiva idealizzazione fa crescere l’invidia, stabilendo così un circolo vizioso, l’oggetto idealizzato si può facilmente mutare in un oggetto portatore di odio e persecuzione. (p.135 sg)

Sul piano delle relazioni fra individui e fra gruppi, un elemento caratteristico dei conflitti può essere riconducibile a quella che Fornari (1970) ha denominato militarizzazione della verità, per cui "una determinata evidenza, anziché essere esplicitata ed affermata per la verità che contiene, viene adoperata per sparare sulla verità emergente da un’altra evidenza" (p.212) "Il processo di militarizzazione della conoscenza trova la sua espressione storica, a livello di vita di gruppi, nelle ideologie […] Ogni ideologia infatti si fonda su un particolare tipo di rapporto di natura essenzialmente manichea con una determinata verità, che viene assunta a livello di oggetto parziale. Tipico di ogni ideologia è il processo di idealizzazione per cui una verità parziale viene assolutizzata. Il processo di idealizzazione a sua volta viene impiegato per nascondere la propria aggressività verso il proprio oggetto d’amore (nel caso dell’ideologia, la propria verità).L’occultamento della propria aggressività verso la propria ideologia coincide in questo caso con la necessità di alienarla mettendola in un’altra ideologia, che è sentita come distruttiva nei riguardi della propria e che perciò viene combattuta nell’illusione che ciò significhi amare la propria. […] L’esperienza ideologizzata di verità è cioè sostenuta essa stessa da un processo di bellicizzazione della verità, per cui più che condurre alla guerra è essa stessa una prassi bellica, vissuta sul terreno conoscitivo.(ib.)

Abbiamo parlato di gruppi come la famiglia, l’istituzione, lo stato, gli insiemi di Stati oppure altri sottogruppi trasversali, insomma quanti vogliamo immaginarne o riscontrarne nell’esperienza quotidiana. Più da vicino, vediamo come la famiglia, almeno nell’assetto pertinente alla cultura occidentale, costituisca spesso il contenitore, per lo più inadeguato, delle più esasperate e violente tensioni distruttive; come l’assetto dello stato democratico viva nell’estremo e continuo rischio di deperibilità, come in generale l’istituzione viva nella costante tendenza a divenire psicotica.

Tutto ciò inerisce a quelle che Di Chiara nel suo esemplare libro Sindromi psicosociali (1999) definisce "Come sindromi psicosociali quei comportamenti collettivi generatori di disagi immediati o futuri evidenziabili o ragionevolmente prevedibili, senza che, per questo, tali comportamenti cessino di avere luogo, pur non esistendo per essi motivazioni non rimuovibili. Essi corrispondono ad angosce consistenti e condivise dalla collettività, le cui origini reali sono inconsce. (p.3 sg)

Ci siamo riferiti, in generale, a tutti quei processi emotivi e a quelle istanze preconosce o inconsce che fanno sì che situazioni oggettivamente o anche soltanto virtualmente conflittuali realizzino nell’esperienza reale dei conflitti anche potenzialmente catastrofici per l’individuo o per il gruppo. E perché il gruppo — il grande gruppo, segnatamente — raggiunga gli alti livelli di meccanismi scissionali tali da produrre le risultanze catastrofiche cui storicamente abbiamo assistito ed assistiamo, "è necessario un coinvolgimento progressivo di gruppi sempre più vasti di persone: ciò avviene dopo un certo tempo: bisogna che si costituisca una cultura con quelle caratteristiche" (ib., p.21; cors. mio)

Credo che a questo proposito sia pertinente citare l’apologo dei bugiardi, così come lo propone Bion (1973) " I bugiardi diedero prova di coraggio e di precisione nella loro opposizione agli scienziati che con le loro dottrine perniciose minacciavano di privare le loro vittime di ogni minima possibilità di autoinganno e di lasciarle senza la minima protezione naturale necessaria affinché la loro salute mentale fosse preservata dall’impatto con la verità. Alcuni, pur conoscendo i rischi che correvano, rinunciarono alla propria vita in difesa delle bugie, di modo che il debole ed il dubitoso fossero convinti della verità delle proposizioni anche più assurde. Non è esagerato dire che la razza umana deve la propria salvezza a quella piccola schiera di dotati bugiardi disposti, anche di fronte a fatti incontrovertibili, a conservare la verità delle loro falsità. Persino la morte fu negata e furono utilizzate le più ingegnose argomentazioni per appoggiare proposizioni evidentemente ridicole […]. Le loro vite e le vite dei loro seguaci furono dedite all’elaborazione di sistemi di grande complessità e bellezza nei quali la struttura logica era conservata dall’esercizio di un intelletto potente e di un ragionare infallibile. Per contro, i deboli procedimenti per mezzo dei quali gli scienziati tentarono più e più volte di convalidare le loro ipotesi resero facile ai bugiardi mostrare la falsità delle pretese di questi villani rifatti, sì da rinviare, se non impedire, il diffondersi di verità che avrebbero potuto avere il solo effetto di indurre un senso di disperazione e vacuità nei bugiardi e nei loro beneficiari." (p.137)

E così commenta Di Chiara (1999) " L’apologo dei bugiardi […] vuole sottolineare la rivolta del gruppo contro coloro che indicano la realtà e la verità, e come questi siano fieramente avversati; il gruppo si appoggia ai bugiardi, che illudono, pur di sottrarsi all’evidenza che loro viene offerta dagli uomini di scienza: perché con l’evidenza si fa strada anche l’angoscia. I bugiardi con la loro capacità di negare la realtà diventano gli eroi del gruppo." (p.95)

Veniamo ora a considerare un altro vertice da cui possiamo guardare alle situazioni conflittuali, e cioè quello relativo al conflitto fra codici affettivi. La scelta, da parte di Fornari, al termine "codice" è in un certo senso comprensiva sia del rimando semiotico (Sebeok 1960; Jakobson 1963), sia di una pertinenza semantica attinente all’aspetto genetico e sia ancora di pertinenza classematica afferente al discorso normativo. Intendiamo con codici affettivi quell’insieme di competenze e modalità di relazione che pervengono specificamente ai personaggi essenziali della famiglia: la madre, il padre, il bambino e i fratelli: e parliamo quindi di un codice materno, di un codice paterno, infantile, fraterno. Il codice materno, fondato sull’appartenenza e virtualmente sull’uguaglianza (tutti i figli sono uguali), e il codice paterno, fondato invece sulla competenza di ognuno, devono essere, idealmente, integrati e complementari. Nella famiglia corrispondente all’Ideale dell’Io, l’integrazione e la complementarietà dei codici sarà la condizione necessaria capace di costituire, nell’evoluzione del mondo interno dell’individuo, la sua buona famiglia interna.

Nella patologia delle relazioni affettive assistiamo per contro, anziché alla complementarietà dei codici, alla loro esasperazione e di conseguenza alla loro inesorabile conflittualità. Consideriamo la patologia dei codici genitoriali: l’estremizzazione patologica del codice paterno potrà realizzarsi in un messaggio di rigida e assoluta responsabilizzazione (riassumibile schematicamente in un imperativo assoluto: "devi arrangiarti!"), così come l’esasperazione e l’egemonia del codice materno altrettanto schematicamente potrà condurre ad un’assoluta sostituzione deresponsabilizzante e ad una dedizione sacrificale. In queste situazioni è naturale che crescano e si amplifichino virulente alleanze perverse, di genitore-figli contro l’altro genitore, terreni ove spesso la triangolazione edipica, lungi dall’evolvere verso un percorso di maturazione, tenderà ad eternarsi e ad inibire completamente le possibilità di crescita.

Naturalmente non c’è chi non veda, come si suol dire, quanto questi paradigmi famigliari — e segnatamente i due codici genitoriali - valgano a descrivere anche ambiti sociali e istituzionali: da una parte la patologia dell’istituzione metaforicamente "materna", di tipo collettivistico, oblativo e livellante, potrà condurre alla deresponsabilizzazione e alla mortiferazione dell’autonoma iniziativa e della creatività del singolo o del sottogruppo; dall’altra la patologia dell’istituzione metaforicamente "paterna", di tipo liberalistico, ove sia esasperato l’assioma suae quisque faber est fortunae, potrà portare ad una delegazione di responsabilità da parte dell’istituzione e così negare al singolo o al sottogruppo l’aiuto di cui avrebbe bisogno e cui avrebbe diritto.

Siamo partiti da una convenzionale distinzione fra situazione conflittuale e conflitto, e potremmo anche dire, sempre convenzionalmente fra contrasto e conflitto. Potremmo isolare, arbitrariamente, i semi nucleari relativi al "contrasto" come:

oppositività + intersoggettività

mentre al "conflitto", e sempre arbitrariamente, potremmo ascrivere i semi nucleari :

oppositività + intersoggettività + emotività +incompatibilità + intenzionalità

Ma ciò che sarebbe del tutto insufficiente a pertinentizzare il "conflitto" così come l’abbiamo inteso. Come scrive Greimas (1991), "spesso i lessemi si presentano come condensazioni che coprono strutture narrative e discorsive estremamente complesse anche se poco esplicitate" (pag. 217). L’analisi che Greimas conduce nel suo saggio sulla collera è volta ad evidenziare e isolare le unità sintagmatiche pertinenti per ricomporle in seguito di una "configurazione passionale" che può essere considerata la "definizione" dell’emozione in oggetto ed il suo implicito programma narrativo. I contenuti di ciò che ho grossolanamente indicato con emotività, rimandando alle emozioni sopra isolate come legame L (amore) e legame H (odio) costituiscono elementi classematici differenziali capaci di realizzare o per contro vanificare il programma narrativo di "conflitto". E’ chiaro, in altre parole, che il contrasto fra A e B (individui, gruppi o istituzioni) fra cui esista un legame L porterà a risultati ben diversi rispetto a quelli che conseguirebbero all’esistenza, fra i medesimi A e B, di un legame H. Se H rappresenta la distruttività, intendo dire, questa preesiste al conflitto, e ne è la necessaria precondizione mentale. Il conseguente agire ne costituirà semplicemente la realizzazione storica.

Bene ci ricorda Lotman (1973) come la cultura in cui si è immersi — la propria, potremmo dire, identità tribale — venga storicamente ritenuta l’"unica cultura" concepibile, mentre le altre collettività sono considerate esprimere una non-cultura: ciò rappresenta ancora la permanenza, da parte dell’individuo e della collettività, in un ambito primitivo che conseguentemente utilizza nei confronti dell’altro i meccanismi paranoici e schizoidi sopra descritti. Tutto ciò tende ad evidenziare come, per contro, la composizione delle situazioni conflittuali, anziché la loro realizzazione in aperti conflitti, dipenda dall’orientarsi da parte di dei soggetti verso una posizione depressiva, che consenta la rinuncia all’esportazione della colpa sull’altro e l’assunzione della responsabilità anche all’interno del sé e del gruppo proprio.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bion W.R (1974) Attenzione e interpretazione, Roma.

Conforto C. (2002) Sul sentimento di giustizia in psicoanalisi, Relazione tenuta a Genova il 12 ottobre 2002 (pubblicata sul presente volume)

De Simone G. (2002) Le famiglie di Edipo, Milano.

Di Chiara G. (1998) "Prospettive psicoanalitiche" per Homo Sapiens, in Psiche, vol.I

Di Chiara G.(1999) Sindromi psicosociali, Milano

Fornari F. (1970) Psicoanalisi della situazione atomica Milano

Greimas A.(1963) Du sens II., Paris; tr.it. Del Senso II., Milano (1985)

Jakobson R. (1963) Essais de linguistique générale, Paris; tr.it. Saggi di linguistica generale, Milano (1966)

Klein M. (1935) A Contribution to the Psychogenesis of Manci-Depressive state, WMK, vol.I, 17; tr.it. Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi Firenze (1958)

Lotman Ju.M., Uspenkij B.A. (1973) Tipologia della cultura; tr.it Milano (1975)

Sebeok T.A. (1960) Style in Language, Cambridge

Segal H (1979) Klein, London; tr.it. Melanie Klein, Torino (1981)

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