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Prospettive di cambiamento nella cura
dle paziente psicotico

di Paul Racamier

Nel processo di cura dei pazienti psicotici spesso attraversiamo fasi di noia e di attesa: forse sono quelle che ci fanno più paura. In tutto il tempo in cui ho fatto parte di strutture di cura psicoterapeutica con psicotici, io e l'équipe di cura abbiamo sempre cercato di non annoiarci mantenendo vivo l'interesse per ciò che facevamo: questa condizione è essenziale per portare avanti un certo discorso a livello istituzionale. Fare cose interessanti per un'ora con i pazienti psicotici è molto semplice ma per più tempo — una giornata, un mese…— fare cose che restino interessanti e che resti interessante, è molto difficile. Si tratta di un lavoro che alterna fasi molto vivaci a fasi in cui piccoli passi celano potenzialità importanti. Siamo convinti che i pazienti con i quali trattiamo soffrano dal punto di vista psichico e che la loro sofferenza sia l'unica via che ci può guidare nella cura.

Voi sapete che la differenza tra normalità e anormalità è un concetto ingannevole e ha per noi un interesse limitato. Il concetto di sofferenza psichica, invece, è clinico e accessibile a tutte le persone che si occupano della cura e che sono sufficientemente sensibili. Attualmente possiamo distinguere due tipi di sofferenza psichica: uno riconosciuto dal paziente e uno disconosciuto e rifiutato dallo stesso.

In generale, siccome la sofferenza è un vissuto difficile da sostenere, i pazienti hanno la tendenza a neutralizzarla e a scaricarla. I pazienti psicotici neutralizzano la sofferenza psichica attraverso una serie di difese fortemente organizzate e potenziate mediante le quali riescono a tollerare la sofferenza. Una di queste difese è, per esempio, la proiezione, cioè il rifiuto fuori di sé della parte conflittuale che fa soffrire. In questo processo, l'équipe curante diventa recipiente e ricevendo i sentimenti dolorosi i fantasmi preoccupanti proiettati dal paziente: diventiamo così depositari della sofferenza dei nostri pazienti. Raramente il sistema difensivo del paziente è potente al punto da potergli permettere di evacuare o neutralizzare completamente il suo potenziale di sofferenza. Attribuisco molta importanza a quella che chiamo la "consapevolezza di sofferenza libera": in questo caso il paziente non riesce a neutralizzare né a bloccare attraverso i suoi meccanismi di difesa, talvolta molto rigidi, il suo malessere. Questa coscienza di sofferenza libera viene avvertita circolare, la avvertiamo nei rapporti che abbiamo con il paziente. Per noi è un segnale molto importante in quanto non ritengo che si possano porre le basi di un processo di cambiamento, di cura, se nel paziente non rimane una parte di sofferenza libera — nel senso in cui la intendeva Freud parlando di angoscia. Sentiamo la sofferenza del paziente soprattutto tramite i rapporti che ha con noi, attraverso i sentimenti controtransferali che ci fa provare: a questo punto sentiamo circolare qualcosa che può essere definito quoziente di libido libera. La libido del paziente psicotico è generalmente occupata in una costruzione di megalomania perdurante, permanente, talvolta distruttrice, che si autoalimenta. Anche in questo caso è importante sottolineare che questa libido, di cui Freud si è tanto interessato sottolineandone l'interiorizzazione ed il ripiegamento narcisistico verso il mondo interno, non è totalmente ripiegata, ma in parte circola, e noi possiamo sentirla. Percepiamo un interesse, che il paziente prova in modo fuggitivo per noi come esseri umani e reciprocamente proviamo lo stesso sentimento. Spesso è sulla base di questo criterio, insieme all'équipe curante, che decido di accettare o meno la cura di un paziente psicotico. Distinguiamo i vari sintomi, sappiamo che valore attribuire loro, valutiamo le manifestazioni esterne alla vita quotidiana dei pazienti, e siamo consapevoli della difficoltà del trattamento di pazienti che abbiano caratteri fortemente organizzati dal punto di vista difensivo. Pazienti che presentano a prima vista stati critici con manifestazioni molto chiare, proliferanti, fortemente psicotiche, quando hanno ancora un potenziale disponibile di sofferenza in loro stessi e di interesse libidico, sono più accessibili di altri con manifestazioni meno evidenti ma con strutture difensive più rigide.

Vorrei parlare ancora delle difficoltà che noi troviamo nel lavoro con i pazienti psicotici.

Talvolta essi hanno difficoltà ad avere un'attività di pensiero.Si dice spesso che gli psicotici pensino troppo, ma questo è totalmente sbagliato; si dice ancora più spesso che essi pensino male, che pensino in modo errato: ciò non è totalmente sbagliato, ma è una visione mal calibrata.

Penso che il problema essenziale sia che lo psicotico provi una paura terribile a pensare, indipendentemente dai contenuti ideativi che può avere. I pazienti psicotici hanno difficoltà a pensare, a formulare pensieri, a mettere in parole, in immagini ciò che pensano, e questo è difficile da capire soprattutto per persone che pensano senza paura.

Credo che, in particolare per i pazienti psicotici, esista una situazione funzionale che fa in modo che il pensiero sia perturbato nel suo funzionamento e mini le sue basi.

Ho già sostenuto e dimostrato che il fatto di pensare sia un atto in sé, un atto di autonomia, come i filosofi ci hanno insegnato da tempo. Nei pazienti psicotici questi atto di autonomia è vissuto e sentito intimamente come proibito. I pazienti si sentono degli emarginati, come criminali, in quanto sentono che a loro è proibito di pensare; questa proibizione è talmente profonda che essi nel tempo, molto spesso, mettono a punto metodi di pensare che li fanno sembrare persone "non pensanti".

Snoo metodi di pensiero folli che provocano comunicazioni paradossali attraverso sistemi diversi da quelli comuni e che derivano da un conflitto molto profondo tra bisogno e proibizione a pensare. Molto spesso ci troviamo con pazienti di questo tipo in situazioni in cui abbiamo l'impressione che la nostra testa funzioni con difficoltà, in modo troppo laborioso, inibito e impacciato; attraversiamo quindi dei momenti vuoti, di deserto. Come dicevo è proprio a questo punto che noi, internamente, siamo colpiti dalla difficoltà a pensare che è tipica dei pazienti psicotici.

E' inutile dirvi, a questo punto, che è estremamente importante, semplice e vitale, che nel nostro lavoro di cura — parlo del lavoro in cui si è veramente a contatto con la vita psichica del paziente — accettiamo momenti in cui non capiamo più nulla. Non voglio erigere l'incomprensione come metodo di cura, credo anzi che sia pernicioso questo tipo di lavoro, che è stato fatto da alcuni. Sono fermamente convinto che la fase di incomprensione sia una fase del processo di cura che per esperienza tende a risolversi. Conosco colleghi, "gli accaniti della comprensione", che vogliono interpretare tutto, che si sentirebbero demotivati, non capaci, se non capissero sempre tutto.

In Francia abbiamo specialisti ispirati dalle teorie lacaniane, ad esempio psichiatri e psicoanalisti, che sono artisti in questo tipo di esercizio brillante e vano.

Io penso che ciò generi nei terapisti auto-illusioni assolutamente inutili nella cura del paziente. Nel processo terapeutico è essenziale, inoltre, cercare di sentire ciò che il paziente prova e ci fa provare, così a poco a poco si arriva ad aiutarlo, a trovare la sua forza.

Io e la mia équipe, nella maggior parte dei gruppi di cura, trascorriamo diverso tempo con i pazienti. Tengo molto al fatto che tutto il personale si intrattenga con il paziente, dialogando con lui, e al fatto che poi ci si possa confrontare, in assenza del paziente, all'interno dell'équipe.

Credo che gli scambi che noi abbiamo in assenza o in presenza del paziente siano estremamente fecondi, in considerazione anche della diversa formazione delle singole figure professionali.

Più avanti vi spiegherò il modo in cui noi procediamo.

Una cosa importante da considerare è che i pazienti psicotici agiscono molto, forse proprio perché hanno paura di pensare e di parlare: la parola non è per loro un veicolo soddisfaciente, talvolta per loro è ingannevole.

Noi abbiamo l'abitudine di usare e valutare le parole piuttosto che gli atti, in quanto costa meno caro alla psiche e all'organismo: le parole sono un'economia, un risparmio rispetto alle azioni.

Ho molto meno difficoltà, come anche voi, a raccontare una scena di battaglia che non a farla di fronte a voi come a teatro.

Questo tipo di funzionamento penso sia altamente soddisfacente per noi. Con i pazienti psicotici, invece, non si tratta di un principio di vita così scontato, perché alcune esperienze che hanno avuto nella loro infanzia hanno dimostrato loro che le parole non sono sempre affidabili, possono essere un nulla, un'illusione, un doloroso tradimento. Hanno avuto esperienze in cui sono state dette loro, ripetutamente, cose totalmente errate.

Abbiamo pazienti che hanno vissuto con genitori molto ostili, collerici, che però non sopportavano affatto di venire considerati irritabili. Un esempio di comunicazione contraddittoria è questo: "se tu continui a dirmi che io mi arrabbio sempre, allora te lo faccio vedere io, ti sbagli totalmente se pensi questo". Un altro esempio è quello della madre che allontana il figlio con un gesto pur dicendogli "perché ti allontani? Vienimi vicino". A cosa dobbiamo credere? Al gesto o alle parole? E' il gesto che è più significativo. Quando le parole ed i gesti vanno in senso completamente opposto è difficile pensare in maniera normale e quindi si comincia ad utilizzare un linguaggio paradossale. A proposito di questo mi viene in mente, con un'associazione di idee, un aneddoto raccontato tempo fa da uno dei pionieri dell'approccio psicoterapico, la dottoressa Sechè, che in Svizzera, come voi sapete, aveva inventato un metodo di comunicazione simbolica — per me non del tutto simbolica — che chiamo "azione parlante".

Nel caso narrato da Sechè, riguardante una donna di 30 anni, la terapista prendeva sulle ginocchia la paziente in piena angoscia, disperata come una bambina senza madre, e le dava da mangiare una mela dicendole all'incirca: "mangia questa mela, è un po' come il latte materno". Questo metodo ha avuto molta diffusione, ha mostrato alle persone intelligenti che era possibile parlare di cose concrete e allo stesso tempo psichiche con pazienti che erano in piena angoscia psicotica.

Ha però dato da pensare anche a qualche operatore incapace che bastava copiare questi gesti o queste parole per vincere la battaglia della cura degli psicotici.

C'è un altro aspetto importante riguardo a questi pazienti: fanno molta fatica nell'adottare i contrari, le contraddizioni. Noi sopportiamo anche sentimenti ambivalenti, conflittuali ed ambigui, i pazienti no, non amano questo, non accettano di amarci o di odiarci contemporaneamente.

Sentono in loro di essere attirati e respinti da qualcosa, da qualcuno. Molti ad esempio sono pazzi di amore per noi, ci abbracciano fino a schiacciarci oppure sono pieni di odio verso di noi e ci rigettano completamente.

Nel fare ciò a volte si annullano come persone, a volte spariscono dal nostro campo di visione o di lavoro.

Csoì abbiamo molti pazienti le cui si cure sono interrotte per queste contraddizioni.

Cerdo che noi possiamo rendere un servizio ai nostri pazienti mostrando loro, non attraverso le parole, ma in modo vivo, empatico, che le loro emozioni e gli atti che manifestano sono complessi; a questo punto interviene il ruolo dell'équipe quale io lo concepisco.

Ho maturato la convinzione che, durante le riunioni di équipe con i pazienti, sia necessario fare emergere le contraddizioni che essi provano; ciascun membro dell'équipe può incoraggiare l'esternazione dei diversi atteggiamenti dicendo: "Sono d'accordo con quanto lei ha detto", "è molto interessante quello che lei afferma".

Molto spesso le posizioni che vengono manifestate sono conflittuali e inconciliabili tra loro, anche se vengono espresse talvolta con vigore; sono comunque convinto che sia utile la manifestazione del conflittuale nel lavoro con i pazienti psicotici.

Sono consapevole che questo metodo stupisca talvolta chi osserva il nostro lavoro, sembra che agiamo alla leggera; sostengo invece che noi diamo al paziente l'esperienza, la possibilità di integrare la propria conflittualità.

Il mio scopo non è di fare in modo che i pazienti risolvano tutti i loro conflitti, comunque non ci arriveremo mai, ma che arrivino a vivere e a sopportare un mondo conflittuale.

Mi è già capitato di sentire dei pazienti dire: "ebbene, prima vivevo in modo aberrante ma in modo più facile, adesso mi sembra che la vita sia più interessante anche se più complessa perché so che sono combattuto tra varie opinioni contrarie, so che ci sono sentimenti contrastanti.

Attraverso questo metodo penso si arrivi a un rapporto con gli psicotici che si basa sulla capacità di sopportarsi e di sopportare l'ambiguità di situazioni che non sono né carne né pesce.

Le persone normali sopportano queste situazioni incerte, ambigue nel senso in cui le intendeva Winnicot parlando del legame di transizione. Vorrei dirvi che con gli psicotici questo concetto dell'ambiguo è molto importante. Più metto in pratica questo concetto nel mio lavoro e più nella terapia con loro faccio formalizzare le ambiguità e non cerco di risolverle. Sono convinto che nel lavoro istituzionale che noi facciamo sia necessaria la cooperazione del paziente alla cura: senza pazienti partecipanti i nostri sforzi non avrebbero un gran valore. Perciò la cura istituzionale è un'opera comune che appartiene sia al paziente sia a noi. Vi presenterò un esempio di processo di cura che si basa su questi principi. Un mio paziente di cui ho già parlato molto spesso, era un grave psicotico che aveva eccessi di violenza: in realtà non erano tanto questi che ci davano da fare, quanto il fatto che egli tendeva a distruggere tutto quanto progettava di fare. Quando si riprometteva di fare qualcosa di piacevole, un viaggio, un'uscita, lo faceva con tanto ardore che tutta l'équipe curante lo incoraggiava e lo aiutava, ma all'ultimo momento, con un colpo decisivo, distruggeva e rendeva impossibili le soddisfazioni che si era prefissato; aveva ad esempio progettato un viaggio, e un'ora prima di partire buttava via il suo passaporto.

Abbiamo imparato a quel punto che non bastava interpretare questi comportamenti al paziente, cioè dirgli che non sopportava le gratificazioni: egli ascoltava queste interpretazioni ma senza integrarle, fino al giorno in cui gli ho spiegato che lui era diviso in due parti.

C'era una parte di lui rivolta verso la vita ed un'altra che era anti-vita; la prima l'abbiamo chiamata, per esempio, Giacomo e l'altra anti-Giacomo. A quel punto gli ho detto: "quando farà un bel progetto io mi occuperò del suo avversario, dell'anti-Giacomo, infatti Giacomo è abbastanza adulto per farcela da sè mentre l'anti-Giacomo ha bisogno di molte cure". Fino a quel momento l'avevamo incoraggiato a fare molte cose e quando buttava tutto per aria avevamo voglia di picchiarlo perché tutti eravamo delusi. La linea che ho adottato in seguito è questa: sono arrivato a chiedergli che ogni volta che lui progettasse qualcosa mettesse un'obolo in un maialino-salvadanaio.

Il maiale è un immagine che comporta tutta una serie di significati negativi: il maiale-salvadanaio è un oggetto ambiguo, in esso ci sono riferimenti culturali e simbolici. Perciò ho utilizzato l'idea del pagamento di un obolo alla presenza di un terapeuta ogni volta che il paziente avesse preso qualche iniziativa.

Questo era l'obolo dato all'anti-Giacomo; esso fa pensare ai riti propiziatori dei latini di un tempo. Questa somma di poca entità — 1.000 lire, 5.000 lire — era inventariata e dava luogo a una specie di scambio con i terapeuti; si poteva così parlare di qualcosa di materiale, cioè del salvadanaio-maiale e del denaro, e di qualcosa di psicologico, il piacere e l'anti-piacere.

Per me l'associazione tra il pragmatico del denaro e lo psicologico è essenziale. Capire, mediante quest'immagine dell'obolo, l'ha aiutato molto ad organizzare il suo mondo interno. Quindi, a mio parere bisogna passare, non solo attraverso la parola, ma anche attraverso atti concreti: quelli che io chiamo "atti parlanti". Ogni volta che il paziente metteva del denaro nel maialino-salvadanaio, compiva un gesto significativo poiché il messaggio era già contenuto nell'azione. Ci si può porre la domanda: "a chi appartiene, in definitiva, la somma che si è accumulata nel salvadanaio?".

La domanda è importante perché fondamentalmente ambigua: il denaro non appartenenva completamente al paziente perché ne aveva fatto un obolo, non apparteneva neppure a noi, evidentemente, perché non era un onorario che ci pagava, e non era nemmeno una multa, era un'obolo: questo maialino con il denaro che conteneva era un oggetto transazionale ambiguo. Il problema per il paziente non si è posto in quanto, compiendo finalmente un gesto autonomo, è riuscito a distaccarsi da noi, ritornando a casa per un certo periodo, senza reclamare il maialino salvadanaio. Anche in seguito, quando ci ha presentato un elenco nel quale chiedeva la restituzione dei suoi oggetti personali, non lo ha menzionato, e ancora oggi lo conserviamo preziosamente in un luogo molto importante del nostro Istituto: l'armadio dei farmaci. Non voglio dire che quello adottato sia un metodo di cura alternativo, né che i farmaci siano delle porcherie, voglio solo affermare che l'immagine del maialino è molto significativa perché ha in sé aspetti buoni e aspetti cattivi congiunti in uno stesso oggetto. Il maialino salvadanaio rappresenta un insieme nel quale è importante non cercare di distinguere troppo il lato buono da quello cattivo.

Non sono contrario all'uso dei farmaci ma penso che vi sia per gli accaniti sostenitori della cura farmacologica dei pazienti psicotici, il pericolo di considerare senza importanza le realtà-verità psicologiche. Spero con questo esempio di aver chiarito come, con i pazienti in piena organizzazione psicotica, l'interpretazione psicoanalitica possa essere trasposta sotto un'altra forma: quella di un'atto parlante. Come l'interpretazione, l'atto parlante non è una verità esterna; quando ha fatto la sua parte e non ha più nulla da dire ed è servita allo scopo, si cancella in modo naturale.

Un altro esempio di atto parlante, che ora vi presenterò, è stato utilizzato con un paziente psicotico molto difficile da sopportare. Egli disturbava molto le persone che aveva intorno; si era fatto espellere da diversi Istituti perché era molto rumoroso, ascoltava musica a volume elevatissimo, insopportabile da sentire in continuazione. Questo paziente aveva la strana caratteristica di non essere mai nel luogo in cui si pensava dovesse essere e di essere sempre dove non ci si sarebbe aspettati di vederlo. Era un motivo di disturbo: quando lo si cercava non c'era mai, mentre compariva nei momenti più impensati. Non approfondirò la storia familiare del paziente. Egli era stato voluto e non voluto dai genitori, era nato prima del matrimonio. Mentre oggi è abbastanza normale che succeda di concepire un figlio prima del matrimonio, a quel tempo e in quell'ambiente molto rigido e austero la nascita di un bambino non era accettata. Nel caso del paziente da noi seguito, il problema della sua nascita aveva condizionato negativamente i rapporti fra i genitori e le loro famiglie.

Il paziente era nato senza essere nato, faceva parte della famiglia senza farne parte, era ovunque e da nessuna parte. Cercava di essere ovunque attraverso il rumore che faceva e questo creava molti problemi, tanto che, più volte, parte dell'équipe ha proposto l'allontanamento del paziente dall'istituto. Si era arrivati ad un momento in cui non si poteva evitare una scelta tra due estremi: o allontanare il paziente e staccarlo in modo completo da noi senza sapere dove sarebbe finito, oppure rinchiuderlo. Abbiamo utilizzato queste due soluzioni, ma operando all'interno di questo dilemma — tra dovere trattenere per forza e dover buttar fuori per forza — rimaneva un qualcosa che non si capiva. Bisognava capire che c'è qualcosa che non si può capire.

In équipe abbiamo riflettuto molto su questo argomento, c'era chi voleva espellerlo, chi tenerlo ad ogni costo. Alla fine abbiamo avuto l'idea, che può sembrare pazza, di mandarlo a dormire non nel nostro Istituto, dove poteva dar fastidio a tutti, ma in un Albergo.

Certo, per un paziente che aveva manifestazioni e sintomi molto negativi e spettacolari, l'idea poteva sembrare assurda, anche se era il risultato di lunghe riunioni con la mia équipe.

Non eravamo sicuri del risultato, ci mettevamo nei panni di uno spettatore esterno che probabilmente avrebbe trovato pazzesca tale idea, soprattutto in quel momento di peggioramento delle condizioni del paziente.Avrebbe detto che gli ospiti dell'albergo non lo avrebbero sopportato, che avrebbe passato due notti in un albergo e due notti in un altro, che sarebbe stato peggio di un rappresentante di commercio.

Ci siamo più volte chiesti se la nostra idea avrebbe funzionato. Forse la sola persona che ha capito cosa intendavamo con la nostra proposta è stato il paziente stesso. Egli ha trovato formidabile l'idea, l'ha accettata di buon grado e ne ha tratto benefici tanto che la sua situazione è nettamente migliorata. Tutte le sere, con la sua valigia, andava in albergo a dormire; curava più di prima la sua persona per non sfigurare con gli albergatori ed era arrivato a condurre una vita più normale. Ho capito da questo miglioramento che l'albergo, quel posto provvisorio, transitorio, di passaggio e comunque vivo, era il suo ideale domicilio personale. Solo in quel luogo il paziente si sentiva a casa, si sentiva accettato. Non certo accettato dal padre e dalla madre, visto che era stato rifiutato da loro, ma accettato dai clienti: solo in albergo aveva finalmente una identità personale. Mandarlo in albergo ha assunto quindi un significato di atto parlante che gli ha dato la consapevolezza di essere qualcuno.

Non vorrei che prendeste questa soluzione come una facile ricetta in quanto è stata un'idea maturata nel tempo. Abbiamo dovuto pensare quello che il paziente non riusciva a pensare. Nel lavoro istituzionale, così come lo concepisco, è necessario sottolineare l'importanza, da un lato, dello scambio, dell'interazione costante tra lo psichico e il materiale, tra il mentale e il pragmatico; dall'altro, del rapporto tra noi, il paziente e la famiglia. Penso che se abbiamo la possibilità di organizzare questi aspetti possiamo evitare il rischio di un lavoro impostato in modo unilaterale, che non corrisponde alla complessità conflittuale e ambigua di cui ho parlato. Molto spesso invece vedo nelle istituzioni prevalere l'aspetto pragmatico su quello psichico: si tende più a fare che a pensare, è il paziente che, a volte, ci spinge a questo.

L'inquadramento del setting comporta regole definite e flessibili allo stesso tempo. E' necessario quindi definire bene con i nostri pazienti le condizioni e i fini del trattamento in modo che sia chiaro il momento dell'entrata in terapia e dell'uscita. Questa è una verità elementare che, per quanto ne so, è poco conosciuta e praticata dai colleghi che lavorano in ambito psichiatrico. Non si può terminare un processo se non si è iniziato, e per cominciare non è sufficiente incontrarsi, ma bisogna che l'incontro sia organizzato, che si possa dire da una parte e dall'altra: "cominciamo". Con questo non si è sicuri di arrivare al termine della cura, ma se ne ha almeno la possibilità. Uno degli aspetti importanti del nostro lavoro è la scelta reciproca tra noi, il paziente e la famiglia. Questa si definisce in seguito ad incontri successivi in cui ciò che non si dice è altrettanto importante di ciò che si dice.

In questo modo noi e il paziente operiamo una selezione reciproca, così si perviene ad una decisione che costituisce un inizio, l'ingresso nell'inquadramento del setting. Possiamo definire l'istituzione come un quadro elastico che comporta luoghi diversi, varie persone coinvolte. Penso che il significato profondo di questo quadro possa essere mantenuto nonostante il variare di questi elementi. Abbiamo diversi luoghi, tempi e momenti in cui i pazienti si riuniscono e interagiscono tra loro e con noi: ognuno di questi momenti particolari di attività può essere definito un "sottoquadro". Il paziente passando da un sottoquadro a un altro, da un'attività all'altra, da una riunione all'altra, effettua una specie di navigazione attraverso questi, imparando ad eliminare quella troppa eccitazione che lo fa soffrire.

Ripeto: è proprio a partire dalla fissazione di regole, dalla realizzazione di un quadro, di un setting, che è possibile arrivare ad un risultato. Voglio farvi un esempio che ho scelto come termine della mia relazione — propongo i miei esempi cercando qualcosa che colpisca la vostra immaginazione.

Uno dei nostri pazienti aveva come sintomo una struttura psicotica con coperture ossessive. La sua ossessione consisteva nel cercare di giocare con il tempo. Occorre distinguere gli ossessivi, che sono coscienti del tempo, dagli psicotici puri, per i quali il tempo non ha durata. Se esiste una copertura ossessiva, il tempo inizia a svolgere un ruolo importante. I pazienti di questo tipo trascorrono il loro tempo cercando di giocarlo, di ingannarlo, di distorcerlo distorcendo i loro rapporti con gli altri, alterando le regole di territorialità sia a livello di piccoli ambienti sia di sistemi più grandi e complessi.

Il paziente a cui faccio riferimento arrivava sempre in ritardo. Il nostro Ospedale è un Day-Ospital che prevede orari definiti. Il paziente tendeva a modificare il ritmo delle attività oppure addirittura non vi partecipava. La situazione provocava da parte della nostra équipe atteggiamenti di tipo trascuratezza-punizione: "sei arrivato in ritardo per il pranzo, allora non mangi" oppure tirannici: "devi rispettare gli orari".

Il personale era diviso tra le due alternative. Erano tuttavia posizioni che non portavano a un miglioramento della situazione del paziente. Ci è venuta in mente come immagine rappresentativa dei suoi ritardi quella del parcheggio con parcometro. In un parcheggio di questo tipo si può lasciare l'auto per un determinato periodo di tempo pagando una somma di denaro. Vi sono parcheggi in città nei quali i primi 20 minuti di disco orario non costano nulla, mentre i successivi sono a pagamento. Abbiamo deciso di adottare un sistema analogo con il nostro paziente. L'ho convocato e, spiegatogli le difficoltà che incontravamo per il suo comportamento sregolato, gli ho comunicato che nei successivi incontri avrebbe avuto diritto ad un ritardo di 14 minuti dall'ora prefissato, e che poi avrebbe dovuto pagare una somma fissa per il ritardo successivo.

Il giorno seguente, l'appuntamento era fissato per le ore 10. Il paziente, che fino a quel momento aveva avuto problemi nel controllare il tempo, soffriva per questo e creava disagi agli altri, quel giorno arrivò alle 10,14 un minuto prima dello scadere del termine del ritardo. Avevamo dato al paziente un modo per regolare il tempo,una regola semplice, niente altro, ma sufficientemente chiara e precisa. Non erano certo i pochi franchi di penalità ad avere raggiunto il risultato, ma la regola stessa che dava al paziente un mezzo per dare un senso ai suoi ritardi, al suo bisogno di essere in ritardo o al contrario di essere puntuale. Il paziente, che era una presenza disturbante e regolarmente in ritardo, è diventato una delle persone più puntuali che io conosca.

Garzie per l'attenzione.

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