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Luigi Rinaldi

Sulla psicoterapia in un Servizio Pubblico di Salute Mentale

 

E’ facile scrivere ricette

Più difficile è capire la gente

(F.Kafka)

 

 

La frase di Kafka, posta in esergo, sebbene possa sembrare scontata, non mi sembra tale per due ordini di motivi:

  1. La specificità di un Servizio Pubblico di Salute Mentale impone che non siano da capire solo le persone che si recano in quest’istituzione per chiedere aiuto alla soluzione dei propri problemi psicologici o psichiatrici —la cosiddetta utenza del Servizio - ma anche, necessariamente, gli operatori tutti dell’Istituzione e i suoi Amministratori.
  2. Le ricette di cui si parla non sono solamente le prescrizioni farmacologiche scritte dal medico, bensì tutte quelle direttive, proposte e suggerimenti, che sono presi dal serbatoio di risposte già pronte, fornite dalle proprie discipline teoriche o da astratti riferimenti normativi, senza nessun serio tentativo di contestualizzazione e confronto con le teorie e le pratiche altrui.

Incominciamo dal primo punto.

Sappiamo che per fornire una risposta efficace alla multifattorialità del disagio psichico il Servizio Sanitario Nazionale prevede delle équipes multidisciplinari composte in maniera tale da poter agire su tutti i versanti coinvolti, bio-psico e sociologici. Nei casi più problematici è necessario, molto spesso, un attento lavoro d’équipe per la decodifica della domanda d’aiuto e per approntare una risposta efficace. L’istituzione psichiatrica, però, non è un grande supermercato, dove si trova tutto quello che si cerca, è fatta di persone in carne e ossa: medici, infermieri, psicologi, diversi da un luogo all’altro, di indirizzi formativi differenti e a volte poco conciliabili (psicofarmacologi, psicoterapeuti di derivazione psicoanalitica freudiana, junghiana o di altri indirizzi, psicoterapeuti cognitivisti, relazionali ecc.). Ne deriva che la psicoterapia nei servizi pubblici non solo deve tener conto della situazione del paziente, della sua famiglia, del suo livello culturale ma, se non vuole essere un discorso astratto, deve tener conto delle risorse d’ogni singola istituzione, per utilizzare al meglio le conoscenze tecniche dei suoi operatori.

E’ necessaria, a questo riguardo una coordinazione dell’équipe, che, pur facendo leva sulla conoscenza teorica dei meccanismi psicologici che regolano il funzionamento di questi particolari gruppi di lavoro, ancora una volta, non può dettare ricette comportamentali, ma deve fondare la sua coordinazione sul cercare di capire le spinte propulsive e bloccanti (in gran parte idiosincrasiche) incontrate da ciascun componente dell’équipe nel proprio lavoro (Rinaldi, 1997). Solo in questo modo è possibile facilitare un buon incontro tra curante e curato ed eliminare gli attriti che si determinano nel lavorare fianco a fianco, fino a produrre situazioni d’impasse capaci di eliminare qualsiasi lavoro che richieda un coinvolgimento reale (duraturo e costante) di più operatori.*

* Mi permetto di rinviare al lavoro citato per un’estesa trattazione del mio punto di vista sulle grosse opportunità offerte dal lavoro d’èquipe una volta affrontate le difficoltà ad esso connesse.

Non solo, ciascun Operatore, ed in particolar modo il coordinatore, responsabile del gruppo istituzionale deve continuamente cercare di capire se il proprio operato entri nella vision e nella mission indicate dall’Azienda. E’ necessaria, in altre parole, una continua negoziazione che, per essere efficace deve cercare di capire sia le ragioni dell’utenza, sia le ragioni tecnico-sanitarie, sia quelle amministrative riguardanti gli inevitabili limiti di budget.

 

 

Il paziente che diventa utente

Capire la gente significa, ovviamente, passare dall’universale al particolare, per poi fare il tentativo inverso: il passaggio ad una possibile e ben definita generalizzazione, nel momento in cui, si voglia apprendere dalla propria esperienza e, come in questo caso, si cerchi di trasmetterla.

Qualche parola, allora, sull’utenza dei Servizi di Salute Mentale.

Per più ordini di motivi la parola utente ha pressoché sostituito o è diventata intercambiabile con quelle di paziente o con le più desuete ammalato psichiatrico, portatore di disagio psichico ecc. Poiché le parole hanno una storia e la storia è maestra di vita, credo sia utile riflettere su di esse. L’utente è "Chi per contratto usa un servizio, specie se pubblico, come l’erogazione d’elettricita, il telefono, il gas" (G. D’Anna, 1988). Nel nostro caso possiamo affermare che si tratta di qualcuno autorizzato ad usare il Servizio in cui noi lavoriamo per l’erogazione di cure rivolte a promuovere una salute mentale vacillante o che si teme di aver perso.

Cosa si è guadagnato sostituendo questo termine agli altri?

Un’accentuazione sulle capacità contrattuali, sul diritto di chi si rivolge al Servizio ad avere delle prestazioni, senza aver bisogno di un minus su cui fare leva: la condizione di malato, di colui che soffre. In altre parole, questo termine mette in risalto la pari dignità tra utente e fornitore del servizio, cercando così, attraverso il potere trascinante delle parole di eliminare il rischio d’abuso, derivante da una relazione asimmetrica, troppo sbilanciata in termini del potere di uno dei protagonisti della relazione rispetto all’altro (classicamente il medico sul paziente). Questa pari dignità potrebbe, inoltre, risparmiare all’utente quella quota d’umiliazione derivante dal sentirsi inferiore all’altro, ed eliminare così, la non infrequente, paradossale e inconsapevole risposta di non accettazione di quanto fornito, in modo da rendere impotente l’altro e riparare in questo modo la ferita narcisista subita.

Non solo. L’utente in parola, per definizione è fruitore di un Servizio, non si rivolge al singolo operatore. Un Servizio di Salute Mentale è appunto composto da una molteplicità d’Operatori e di Figure Professionali per fornire una risposta articolata e complessa alla multifattorialità del disagio psichico, e non una risposta ipersemplificante, riduttiva e sostanzialmente inefficace, quale potrebbe essere quella fornita da una singola disciplina e incarnata nel sapere del singolo Operatore.

In altri termini il biglietto da visita dell’"utente" ci allerta sull’indispensabilità (nei casi multiproblematici, nei casi più gravi) di predisporre per lui un attento lavoro d’équipe.

Cosa si rischia di perdere, però, attraverso la messa in cantina degli altri termini? Il fatto che la relazione tra l’utente del Servizio di salute mentale e gli erogatori di questo servizio è una relazione molto particolare, è una relazione molto asimmetrica, è una relazione di aiuto, in cui uno chiede all’altro la cura per la sua malattia o per i suoi problemi o per i suoi conflitti (dove i termini usati: malattia, problemi, conflitti, dipendono dal vissuto di gravità della situazione e dal grado socioculturale di chi li adopera).

L’ammontare delle aspettative in gioco, di benessere, guarigione, di essere liberati dal male, mette in moto dinamiche psicologiche tali che influiscono sullo stato di salute e d’equilibrio non solo di chi chiede aiuto ma, seppure in minor misura, anche di chi lo porge. A quest’ultimo è delegato un potere enorme, sulla sua figura sono sempre proiettate immagini grandiose, immagini di tipo genitoriale-onnipotente.

Queste tematiche, tanto più forti quanto più la persona che chiede aiuto si trova in difficoltà, sono particolarmente acute in persone che hanno difficoltà di natura psicologica, tanto da creare continuamente due ruoli complementari e polarizzati:

a) il ruolo di chi chiede aiuto, trovandosi in difficoltà, e si pone come una persona essenzialmente impotente;

b) il ruolo di chi, al contrario, è supposto portatore del bene più grande la salute, e quindi anche portatore di autorità e saggezza, e si pone come persona tendenzialmente onnipotente.

Questa costellazione psicologica messa in moto dalla relazione d’aiuto, il transfert, crea una sorta di "psicoterapia inevitabile", come recentemente argomentava Jervis (1999): un qualcosa che non si può decidere di fare o non fare, come accade nelle altre forme di terapia, ma qualcosa che c’è sempre in questo tipo di rapporti (col medico, infermiere, assistente sociale).

Ciò significa, continua acutamente Jervis, che:

1) quando si parla di psicoterapia, specialmente in un Servizio di Salute Mentale, non si può non tener conto di questa psicoterapia involontaria, informale e dei suoi effetti, che possono essere, come qualsiasi terapia, buoni o cattivi o che non fanno né bene né male.

2) questo tipo di psicoterapia, che non coincide in alcun modo con la psicoterapia in senso stretto, intesa come intervento professionale specialistico e codificato, al pari di quest’ultima, però, si basa su un’esperienza di rapporto reciproco e di contatto, generalmente mediato dalla parola ma facente ricorso anche ad altre forme di comunicazione extra verbale.

3) Per far sì che gli effetti di questa psicoterapia informale siano il più possibile benefici, è indispensabile cercare di capire cosa succede dentro le persone nel rapporto; si tratta cioè di capire quelle che in senso psicoanalitico sono chiamate le tematiche del transfert e del controtransfert, arricchite, io aggiungo, dalle concettualizzazioni sul "campo", che considerano queste tematiche come figure di uno scenario più vasto costituito dalla rete di relazioni che costituiscono l’istituzione.

 

 

Uno spazio di accoglimento e di rappresentabilità

Una riflessione attenta sulla "psicoterapia inevitabile" insita in ogni situazione di aiuto è indispensabile, a mio parere per un altro ordine di motivi.

Quanto più il paziente nelle sue comunicazioni fa ricorso al linguaggio non verbale, quale il linguaggio d’organo, l’acting improvviso, la crisi acuta, espressioni dell’incapacità di contenere in parole il caos emotivo e del conseguente senso di rottura e frammentazione del sé, tanto più egli non è in grado di fruire di un setting psicoterapeutico classico, di delimitare, cioè, uno spazio, i cui parametri costituiscano una specie di sbarramento contro la pervasività del Reale, permettendo alle vicissitudini del mondo interno di acquistare leggibilità. In questi casi, con molti pazienti psicotici gravi o regrediti, chiusi e difficilmente accessibili, le parole possono non avere effetto, giacchè esse rappresentano l’assenza, il non rapporto, e possono essere vissute addirittura come una "provocazione" dallo psicotico, in quanto stanno ad indicare l’esistenza del "non seno" (Bion, 1967), presentificano la volontà di non venire incontro ai loro reali bisogni.

In questi casi, per sbloccare situazioni psicologiche di pazienti altrimenti inavvicinabili, può essere necessario un rapporto psicoterapeutico assolutamente informale, quale quello fornito, per esempio, da un infermiere psichiatrico, a patto che si tratti di una persona serena, solida, equilibrata e disposta a stabilire un rapporto personale quotidiano col paziente, accompagnandolo in giro, guardando con lui la televisione ecc.

Su questo punto vorrei soffermarmi un po’, riprendendo un punto già altrove trattato più diffusamente (Rinaldi 1999, 2003).

Diceva Arieti nel suo Manuale di psichiatria: "La follia non è essere fuori di sé ma essere completamente dentro di sé". Sappiamo, infatti, che il problema centrale dello psicotico è la rappresentazione e l’organizzazione simbolica di un mondo interno estraneo, caotico e soprattutto sentito come pericoloso e sul punto di essere intruso. Per tale motivo, non potendo contare, su un solido confine di sé, sul sentimento di una propria identità, su un patrimonio di simboli ereditato dal proprio contesto culturale, lo psicotico non riesce ad usare gli scambi verbali per relazionarsi proficuamente con l’ambiente. Da qui deriva la sua inconfondibile chiusura autistica.

Ne consegue che compito primario dell’operatore psichiatrico è cercare di creare luoghi di potenti investimenti affettivi e cognitivi, in grado di aprire finestre comunicative con esseri umani completamente chiusi dentro di sé.

Le esperienze di quotidianità, rivolte all’acquisizione delle cosiddette abilità sociali e perciò ruotanti intorno alla cura della propria persona, la cura dell’abitazione, la gestione delle cure farmacologiche, la gestione del tempo libero, l’uso del denaro, l’utilizzo d’istituzioni e luoghi pubblici, raggiungono il loro scopo nella misura in cui queste attività sono reinvestite di senso, attraverso la presenza attenta, partecipe ed affettivamente viva dei "curanti". Le attività espressivo-creative, che si svolgono con varie modalità nei Centri Diurni di Riabilitazione, sembrano in molti casi indispensabili per il loro valore di intermediazione, per la possibilità che esse offrono di stabilire quella distanza relazionale accettabile per ciascun paziente, che gli permetta di non vivere il curante come necessariamente assente, minaccioso o intrusivo.

In questi casi il contatto con la creta, la tela, un’attività, offre ad utenti ed operatori linee di fuga e possibili obiettivi condivisibili e non traumatici, rispetto ad un coinvolgimento emozionale ed affettivo troppo intenso o troppo tiepido. Correttivi o linee di fuga più difficili da trovare allorché si lavora solamente con la parola e si sta soli in una stanza.

L’individuazione, di volta in volta, della distanza accettabile per quel dato tipo di paziente rappresenta il requisito perché il rapporto continui e possa evolvere, se necessario, fino al punto in cui l’operatore possa diventare per il paziente un "compagno vivo" (Alvarez, 1992), colui che, condividendo intere sequenze di vita quotidiana col paziente, è in grado di cogliere un vissuto, di provare per due, assumendo eventualmente in sé quella tal emozione, che il paziente sembra non poter provare o nominare. Una volta che quest’emozione sia stata veramente accolta, si può tentare di elaborarla e trasformarla per poi cercare di manifestarla in una forma e in un registro accessibile al paziente.

Si tratta, in sintesi, di un accompagnamento che per essere veramente tale si svolge su due binari paralleli, quello dell’offerta di un duplice spazio: di accoglimento — dove potremmo dire il paziente impara principalmente a "sentirsi", dopo che ha raggiunto la sicurezza a livello dell’essere, dell’essere accettato nel proprio deficit e nelle sue modalità idiosincrasiche di relazionarsi agli altri — e dell’offerta di uno spazio di rappresentabilità — dove il paziente impara a rappresentarsi e raccontarsi.

Si tratta di un cammino lungo ed impervio che passa attraverso la riscoperta di nessi e legami associativi tra parole, cose, emozioni e pensieri, grazie, in definitiva, all’introiezione di una presenza dialogante, in grado di fungere da modulatrice di affetti insostenibili, che, in quanto tali, non riescono ad essere "contenuti" in parole e pensieri trasmissibili.

Questa funzione di accompagnamento mira, in definitiva, a realizzare una sorta di "unità di intenti", "l’essere con" il paziente, ciò che "tiene", ciò che più di tutto può riuscire, a volte, a favorire la coesione e ricostruzione dell’intelaiatura di sostegno del sé.

S’intuisce da quanto detto che questa funzione di accompagnamento indispensabile da fornire ai casi più gravi che si rivolgono ai nostri Servizi costituisce una complessa funzione psicoterapeutica, che può essere fornita solo dal Servizio di Salute Mentale nel suo insieme, un Servizio che non vuole appiattirsi a rispondere alle emergenze per evitare che succeda il peggio, oppure ridursi ad una mera funzione assistenziale — offrendo agli psicotici una struttura dove passare qualche ora, in alternativa al ritiro arroccato in casa o a laceranti conflitti familiari — o ad una funzione pedagogica, volta all’adattamento sociale — privilegiando ciò che appare nel comportamento esterno di un individuo, a prezzo di una violenza e catastrofe interiore, e piuttosto a vantaggio dei vicini (parenti, operatori, amministratori) che si tranquillizzano mettendo una pietra sopra a fratture e incrinature che permangono.

 

 

CONCLUSIONI

Concluderei con la proposta che il compito delle discipline psicologiche e segnatamente della psicoanalisi non debba esaurirsi nel cercare di mettere a punto la tecnica psicoterapeutica migliore con il paziente, anzi, se quest’obiettivo è perseguito in maniera acontestuale, non tenendo presente quanto avviene nella stanza accanto e quanto è avvenuto prima o dopo la nostra ora di psicoterapia, si rischia di approfondire la patologia da scissione, che sappiamo caratterizza lo psicotico. La Psicoterapia sarebbe segregata nella stanza dello psicologo e con essa tutto quanto la psicoanalisi ci ha insegnato sui dinamismi psicologici, i timori, le aspettative e le speranze più recondite che si accendono nell’animo umano nel relazionarsi ad un Altro, cui si chiede o si porge aiuto.

Le considerazioni svolte sulla psicoterapia "inevitabile", "informale", e sulla distanza relazionale accettabile, perché un rapporto possa proseguire e permettere di accompagnare il paziente psicotico in un percorso che lo porti a reinvestire la realtà, vogliono avere lo scopo di mettere in guardia contro il pericolo che l’operatore psichiatrico perpetui una scissione isomorfica a quella compiuta dai suoi utenti più gravi. E’ quanto succederebbe se si esiliasse nella stanza della psicoterapia anche quell’armamentario dello psicoterapeuta che dovrebbe far parte dell’abito mentale, ormai, di qualsiasi operatore psichiatrico. Mi riferisco, innanzi tutto, ad un assetto mentale orientato nella dimensione di quell’ascolto attento e partecipe che è l’elemento fondamentale di qualsiasi cura: sia farmacologia, sia psicoterapica, sia riabilitativa.

Questo tipo d’ascolto passa, a sua volta, attraverso l’offerta al paziente di una dipendenza affidabile e tollerabile. Perché, quello che c’insegna la parola cura, che ha una lunga storia, è proprio questo: la cura non è solo il rimedio alla malattia, è anche la ricerca di qualcuno che si prenda cura del bisogno di dipendere da una persona affidabile in tutti quei casi (immaturità, malattia, vecchiaia) in cui abbiamo bisogno, per il nostro benessere o per la nostra sopravvivenza, di affidarci a qualcuno.

L’offerta di una dipendenza affidabile e tollerabile, passa, a sua volta, attraverso la capacità di potere identificarci con i nostri pazienti, vale a dire di "entrare con l’immaginazione, in modo cauto e delicato nei pensieri, sentimenti, nelle speranze e timori di un’altra persona, permettendo all’altro di fare il contrario" (Winnicott, 1970). E’ solo su questa base, in definitiva, che si può individuare la distanza giusta tra i due poli dell’assumere l’onnipotenza attribuitaci dal paziente e il rifiutarla completamente, per il timore che il paziente si deresponsabilizzi. Nella capacità di trovare la giusta distanza tra questi due poli si basa in gran parte la nostra competenza terapeutica, quella competenza che sappiamo prescindere in gran parte dalla competenza tecnica, perché trova le sue radici in una qualità emotiva della persona, che, forse proprio in quanto non vincolata da schemi teorici di comportamento o da affanni personali, riesce, nella sua libertà d’espressione, a dare risposte terapeutiche particolarmente significative, immediatamente aderenti al contesto vissuto, e quindi autentiche ed efficaci.

Da quanto detto scaturiscono le seguenti conseguenze:

  1. Poiché la follia è innanzitutto una patologia del legame: tra elementi mentali, senso-percezioni, emozioni e rappresentazioni, fino ad arrivare alla perdita del potere rappresentativo e comunicativo della parola, simbolo per eccellenza del legame tra gli uomini e tra le generazioni, con le loro posizioni reciproche e le loro differenze, la cura di questa patologia del legame può avverarsi cercando di trovare le connessioni e di ristabilire i legami, là dove si sono persi.
  2. Nella psicoterapia intensiva, psicoanaliticamente orientata, la cura di questa patologia del legame passa attraverso l’instaurazione di un setting, di una cornice operativa che, già nei suoi ritmi e nella sua frequenza, contempla una relazione molto stretta, in grado di provocare un transfert efficace. In questo modo le vicissitudini di questo tipo di legame, la sua formazione e il suo scioglimento, per esempio all’inizio e alla fine di ogni seduta, sono vissute ed analizzate al fine di rivisitare il patrimonio pulsionale affettivo e ideativo e promuovere nuovi rapporti di forze nell’economia psichica, a favore, in definitiva, di quella parte del Sé, dipendente e capace di instaurare legami libidici, messa in scacco dalla parte onnipotente e distruttiva del Sé, formatasi, in gran parte, in risposta ad un legame patologico tra l’individuo e il suo ambiente.
  3. Poiché non solo gli uomini possono diventare folli, ma anche le loro istituzioni e perfino, o ancor di più, quelle istituzioni deputate alla loro cura, la "psicoterapia intensiva" per queste istituzioni consiste, ancora una volta, nell’evitare le scissioni e nel favorire i legami. Si può tendere a questo obiettivo cercando, innanzitutto, di promuovere un clima in cui si respiri facilità di comunicazione, confronto e rispetto delle posizioni altrui, in altre parole promuovendo una cultura psicoanalitica, il cui insegnamento forse più grande (per gli operatori di un Servizio di Salute Mentale) è rappresentato dall’acquisizione della consapevolezza che nessuna disciplina psicologica è un serbatoio di risposte già pronte, e che solo aprendo uno spazio di riflessione sul proprio lavoro, all’interno del gruppo-équipe, si può tentare di trovare la risposta giusta per i nostri pazienti. Solo in questo modo è possibile:

    1. evitare di relegare l’ascolto e lo sforzo di capire la gente nella stanza dello psicologo attraverso la scissione rigida tra l’operare psichiatrico e quello psicologico;
    2. cercare di promuovere una cultura della cura in cui il prendersi cura, il fare attenzione a, non è scisso e sostanzialmente svalutato rispetto alla cura intesa come rimedio;
    3. nonostante la cultura del gruppo di lavoro e del lavoro di équipe sembri un concetto acquisito, sancito oramai da leggi e progetti nazionali e regionali, non si è ancora formata nei Servizi di Salute Mentale una vera mentalità di gruppo, una "mente curante" di gruppo, con il suo assetto e le sue procedure, che esistono invece a livello di altre pratiche sanitarie. Il lavoro tra gli operatori dei servizi è molto spesso poco o nulla coordinato e si fonda su burocratiche attribuzioni di ruolo, fonti di conflitti corporativi e di rigide demarcazioni tra esecutività, per esempio, che caratterizzerebbe il lavoro infermieristico, e quello decisionale e creativo del medico e dello psicologo. E’ quindi importante un lavoro che annodi e riannodi legami, forme di comunicazione tra terapeuti, innanzitutto, in modo da promuovere il passaggio dall’essere un raggruppamento di operatori — più o meno in lizza per difendere la propria supremazia personale o del proprio sapere tecnico mutuato dalla propria disciplina — ad un gruppo-èquipe che lavori secondo il modello della interdisciplinarietà, privilegiando un codice fondato sull’intersoggettività, lo scambio, le connessioni e la mutualità.

4) Quest’aiuto a fare funzionare il gruppo curante credo, in definitiva possa essere il maggior contributo che uno psicoanalista possa fornire. Tanto più che, le ferite narcisistiche derivanti dal lavoro di équipe, dall’essere dipendenti dagli umori dei colleghi per portare avanti proficuamente un progetto terapeutico, e le esperienze positive che da questo lavoro ne derivano, possono suggerire agli operatori "le parole per dire" ai propri utenti quanto sia necessario abbandonare le proprie difese narcisistiche (che hanno assunto un carattere onnipotente e distruttivo, molto spesso per reazione alle ferite multiple e ripetute ricevute dal contesto ambientale) a favore di un modello di rapporto fondato sulla condivisione, sulla capacità di preoccuparsi e di instaurare una rete di relazioni affettive.

5) Il setting più adeguato, infine, perché questo possa realizzarsi è rappresentato dalla discussione di un caso in équipe, meglio se alla presenza di un Supervisore esterno. La riunione del gruppo dei curanti, oltre ad essere indispensabile per rimettere insieme gli spezzoni di vita psichica del paziente, riflessi e dispersi nei diversi incontri con loro, rappresenta il luogo elettivo per riportare le emozioni controtransferali suscitate dall’incontro col paziente grave in quello specifico contesto rappresentato dall’istituzione. Rappresenta il luogo elettivo, cioè, per analizzare anche la fantasmatica istituzionale: il complesso di fantasie inconsce, legato al fatto di far parte dell’istituzione, e che influenzano potentemente la messa a punto degli interventi. Prima tra tutte, mi pare, la fantasmatica materna di tipo orale, che, vedendo l’istituzione come una fonte inesauribile, è uno dei principali motivi di spreco di risorse e d’indebito allungamento dei trattamenti. E rappresenta, infine, il luogo elettivo dove è possibile sciogliere gli imbrigliamenti tra affanni personali e lavorativi, e costruire, invece, una rete protettiva che facilitando il contenimento degli stati emotivi allarmanti sperimentati nel contatto con i pazienti a rischio, permetta all’operatore di potersi avvicinare il più possibile al paziente e identificarsi con lui (Rinaldi, 1995). Questo è possibile se ciascun membro dell’équipe è sicuro di essere seguito dallo sguardo dei colleghi e degli altri operatori nel suo rapporto col paziente grave, in modo da non trovarsi, eventualmente, nella stessa situazione dei protagonisti del film Il Coraggio, come ricorda Anna Ferruta (2000) nel suo bel libro dedicato al lavoro dell’infermiere psichiatrico. In questo film Totò, compiendo un tentativo di suicidio, si getta nel Tevere e viene salvato da Gino Cervi, cui Totò poi si affida, insediandosi a casa sua e sostenendo che lui non voleva vivere e che ora la continuità della sua vita deve essere assicurata dall’altro.

BIBLIOGRAFIA

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Rinaldi L. (1995) La supervisione nel lavoro di équipe. In Correale A., Neri C., Contorno S., (a cura di) Fattori terapeutici nei gruppi e nelle istituzioni. Fasc.2 Borla, Roma.

Rinaldi L.(1997) Problemi e prospettive del lavoro in équipe. In Correale A. e Rinaldi L. (a cura di) Quale psicoanalisi per le psicosi? Raffaello Cortina Editore, Milano.

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Rinaldi L. (2003) Dall’intrattenimento al trattamento: psicoanalisi e riabilitazione psichiatrica. In RINALDI L. (a cura di) Stati caotici della mente. . Raffaello Cortina Editore, Milano.

Winnicott D. W. (1970) La Cura. In Dal luogo delle origini. Tr. It. Raffaello Cortina Editore, Milano 1980.

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