In Personalità/Dipendenze, Vol. 8, Fascicolo II, settembre 2002, Mucchi Editore, Modena; p. 179-197
Parte I: Introduzione storica
Un rilevante progresso nella ricerca sulluso e sullabuso di sostanze (e i disturbi psichici ad essi collegati) negli adolescenti e nei giovani adulti è stato determinato dalla focalizzazione sui fattori di rischio, sui fattori protettivi e sulla visione dei cosiddetti "cammini etiologici multipli" (Glantz & Hartel, 1997, Weinberg et al., 1999).
In altri termini, si intendono sostanzialmente due cose: la prima è che lo stesso quadro psicopatologico può essere il punto di arrivo di percorsi evolutivi molto diversi tra loro , la seconda è che lo stesso punto di partenza può dare vita a diversi percorsi che produrranno esiti molto diversi tra loro. I due punti sono riassumibili, come noto, nei concetti di equifinalità e multifinalità (vonBertalanffy, 1968).
Negli ultimi trentanni (Szapocznick & Coatsworth 1997) é stata posta una attenzione sempre crescente, sia sul piano empirico che sul piano teorico, allo studio degli antecedenti della psicopatologia e dei disturbi del comportamento. La ricerca basata sui fattori di rischio offrì lopportunità di studiare un gruppo di bambini vulnerabili ad esiti negativi per isolare i fattori genetici, individuali ed ambientali implicati nelle cause della psicopatologia. Al tempo stesso, lo sforzo di isolare i fattori di rischio mise in luce lesistenza di fattori protettivi, cioè quellinsieme di fattori che "migliorano, modificano o alterano la risposta della persona a qualche pericolo ambientale che predispone a un esito negativo" (Rutter,1985).
Il principio guida fu lassunto che, una volta che tutte le variabili influenti fossero state evidenziate, allora avremmo potuto predire ed, in ultima istanza, manipolare le traiettorie evolutive di bambini ed adolescenti verso un esito positivo.
In una prima fase, la lunga lista di fattori di rischio e di protezione fu elaborata in termini statici. Di volta in volta un fattore o un evento discreto (p.e. il divorzio dei genitori), o uno specifico disturbo (p.e. luso di sostanze in adolescenza), o un fattore generale e pervasivo dello sviluppo (p.e. la conflittualità intrafamiliare) , nel momento in cui fu identificato come rischio, si vide attribuire una valenza causale.
Una seconda fase della ricerca si focalizzò sulla riorganizzazione al fine di proporre una affidabile precisazione della moltitudine di fattori. Hawkins (1992) mise in luce 17 aree di fattori di rischio e di protezione per luso e labuso di sostanze, arrivando a dividerli in due categorie: una contestuale (di tipo sociale o psicosociale) e una individuale -interpersonale.
Tra i fattori di rischio contestuali vi sono le norme che favoriscono luso e la disponibilità di sostanze, lestrema deprivazione economica e la disorganizzazione della comunità sociale. I fattori individuali-interpersonali includono i fattori fisiologici (sensitività alle sostanze, maggiore attività elettroencefalografica di onde-lente), attitudini familiari verso lalcool e le sostanze, inadeguatezza dei membri a gestire le pratiche familiari, conflitti familiari, basso legame affettivo nella famiglia, problemi comportamentali persistenti e precoci, basso livello di coinvolgimento a scuola, rifiuto dei coetanei nelle scuole elementari, associazione con coetanei che fanno uso di sostanze.
Questo è stato un passo molto significativo perché la struttura organizzazionale ha offerto una cornice per identificare classi o fattori comuni a tutti gli studi. Ciononostante, sia lorientamento teorico che lorganizzazione della lista di fattori tendono a focalizzarsi pressoché esclusivamente sulla interazione della persona allinterno di una singola dimensione (la famiglia, o la scuola o i coetanei, p.e.) trascurando i potenziali effetti di interazione di un fattore sull altro.
Di qui nacque la logica degli indici di rischio-multiplo e la ricerca fu riorganizzata lungo linee diverse. Indici di rischio multiplo che sommano i fattori di rischio in un singolo indice di esposizione di rischio aiutano i ricercatori ad affrontare simultaneamente un ventaglio più ampio di fattori di rischio. Ma questo pose in primo piano la necessità di cogliere anche la specificità dei meccanismi tramite quali i fattori di rischio diventano operativi e in quale modo interagiscono con i fattori protettivi.
Daltra parte, è riconosciuto (Kaplan,1995) che ogni modello specificamente deviante può ricoprire significati molto diversi. Senza dubbio esso riflette storie passate di circostanze stressanti, ma nella sua attualità può rappresentare una forma di adattamento, oppure può significare che mancano sia i meccanismi convenzionali di coping che le risorse personali e sociali che avrebbero permesso allindividuo di affrontare circostanze di vita stressanti senza adottare modalità devianti. A questo si aggiunge che le stesse circostanze stressanti favoriscono ulteriori modalità devianti, comprese le esperienze di apprendimento sociale nei gruppi che delinquono, lassenza dei legami convenzionali e la ricerca di circostanze socialmente disapprovate che inducono il rifiuto sociale e il conseguente disagio psicologico al quale lindividuo si adegua tramite labuso di sostanze o di altre modalità devianti. In sostanza, quindi, esplosioni che si pensa indichino psicopatologia possono riflettere simultaneamente lassenza di modelli adeguati di coping, storie di circostanze di vita avverse e soggettivamente stressanti che dispongono alla psicopatologia e conseguenze soggettivamente stressanti della psicopatologia stessa.
Parte II: Ricerca e rischio psicopatologico
Prima di discutere i dati sulla ricerca longitudinale che si pone lobiettivo di spiegare lemergenza di uso/abuso di sostanze in adolescenza e il legame causale che li associa ad altri disturbi psichiatrici, sarà istruttivo analizzare il ruolo della ricerca sui fattori di rischio in considerazione allemergenza dei quadri psicopatologici.
Il livello di esaustività di una ricerca dipende dalla misura in cui lassociazione tra un fattore e un esito psicopatologico indicherà crescenti livelli di specificità riguardo a quanto il fattore in esame saprà suggerire o costituirsi come processo causale nel contribuire lesito psicopatologico (Cicchetti & Rogosch, 1999).
Quando abbiamo stabilito che un putativo fattore di rischio opera nella stessa situazione temporale in cui si manifesta un esito psicopatologico, abbiamo il diritto di considerare il fattore di rischio putativo come un correlato del disturbo. Ma siccome la valutazione è stata concomitante, non sappiamo determinare se il fattore di rischio ha prodotto lesito psicopatologico o viceversa. Per esempio, dire che adolescenti che abusano di sostanze hanno amici che pure abusano, significa che i due fattori sono correlati. Non è possibile definire cosa determina cosa. Un altro esempio viene dai maggiori studi epidemiologici (p.e. lEpidemiologic Catchment Area, Robins & Regier,1991, oppure il National Comorbidity Survey, Kessler et al. 1996) in base ai quali la grande maggioranza degli individui che soddisfano i criteri di Disturbo da Abuso di Sostanze soddisfano anche i criteri per altre diagnosi psichiatriche. Ma la causalità non può essere inferita dai dati attuali (Weinberg & Glantz,1999): in alcuni casi uso e dipendenza da sostanze possono sfociare in sintomi di disturbi psichiatrici, anche quando non è presente un disturbo psichiatrico primario; in altri casi vi sono individui che iniziano la sostanza per auto-medicare sentimenti di disforia; in molti casi ancora sia luso di sostanze che la sintomatologia psichiatrica possono essere la manifestazione di una patologia o una predisposizione sottostante (come nel caso dei temperamenti sensation-seeking). Come vedremo, la limitazione dei dati può essere ovviata non limitandosi alla trasversalità (cross-sectional) degli studi, ma applicando una indagine longitudinale e prospettica.
Per stabilire che un costrutto è un fattore di rischio che porta ad un esito negativo, è necessario determinare che il fattore putativo di rischio precede lemergenza di un esito negativo. In questo senso è importante lo studio degli antecedenti infantili. Un DC (Disturbo della Condotta) o la presenza di un padre alcolista permettono di affermare che un bambino è ad alto rischio di manifestare, più avanti nello sviluppo, problemi legati alluso di sostanze. Il rischio implica una più elevata potenzialità ed è probabilistico.
Ma sapere che un costrutto funziona come fattore di rischio non stabilisce che esso opera per causare lesito negativo. La fase successiva della ricerca, necessaria nella direzione verso una comprensione etiologica degli esiti psicopatologici, è differenziare tra indicatori di rischio e meccanismi di rischio (OConnor & Rutter, 1999). I meccanismi di rischio specificano i processi attraverso i quali i fattori operano per generare un esito. Kraemer (1997) tentò di dividere i fattori di rischio in marker e fattori di rischio causali. I primi sono fattori di rischio non coinvolti causalmente nella produzione dellesito, perché possono essere fissi e immodificabili (p.e. il sesso o la nascita prematura), oppure variabili (sia naturalmente, come letà, o tramite interventi, come lo stato socio-economico). Se la modificazione di un marker variabile produce un cambiamento nel potenziale di un esito negativo, allora il marcatore variabile è implicato come fattore di rischio causale.
Per quanto i marcatori non siano coinvolti nel causare un esito negativo, essi sono purtuttavia necessari per fare luce sui processi che hanno un impatto causale sugli esiti. Un marcatore può contribuire a delineare un terzo fattore che contribuisce direttamente sia al marker che allesito negativo. I marker quindi hanno una relazione spuria con gli esiti seppure siano molto importanti per chiarire i meccanismi causali. Per esempio, se il drop-out scolastico è associato ad un successivo aumento di uso di sostanze , allora il drop-out è implicato come fattore di rischio per luso di sostanze. Se fosse però applicato un intervento per abbassare il grado di drop-out, e se non ottenessimo una modificazione nellimpatto di uso di sostanze, allora lassociazione sarebbe spuria, e il drop-out andrebbe considerato un marker variabile. Dovremmo quindi considerare limplicazione di altri fattori che contribuiscono sia al drop-out che alluso di sostanze. Per esempio, il DC potrebbe potrebbe essere questo terzo fattore. Al contrario , se un intervento mirato a ridurre il drop-out scolastico abbassasse il livello di uso di sostanze, allora avremmo un fattore di rischio causale per luso di sostanze. Ma anche qui, avere identificato un fattore di rischio causale non implicherebbe che la causa di un esito negativo è stata individuata. . Il meccanismo causale deve ancora essere identificato, anche se il drop-out scolastico andrebbe considerato come parte del proceso causale. Delineare altri fattori di rischio causali potrebbe fornire la direzione verso la fonte delle cause, e ciò grazie al chiarire i modi in cui multipli fattori di rischio causali sono interrelati. Così facendo, potrebbe essere individuato un elemento comune che possieda più potere esplicativo come meccanismo causale di rischio. La ricerca deve quindi procedere per stadi, al fine di isolare meccanismi di rischio da una miriade di correlati, fattori di rischio, marker e fattori di rischio causali (Cicchetti & Rogosch, 1999).
Come abbiamo visto luso e labuso di sostanze dipendono da processi multipli più che da singole cause (Glantz & Pickens, 1992). Non solo, ma è molto plausibile che individui diversi acquisiscano problemi legati alluso di sostanze attraverso differenti costellazioni di processi. Una volta ben definiti singoli processi di rischio, è possibile che questi non abbiano potere sufficiente per produrre, da soli, problemi da uso di sostanze. Però il loro impatto può diventare più potente se questi sono combinati con fonti di rischio addizionali. Insieme, i processi multipli di rischio possono operare additivamente, e in aggiunta, possono co-agire sinergisticamente con un impatto esponenziale più che additivo nel favorire esiti negativi (Garmezy et al., 1984)
Inoltre i fattori di rischio tendono a manifestarsi insieme piuttosto che isolatamente. I giovani che crescono in quartieri poveri hanno più probabilità di dover fare fronte ad una moltitudine di rischi, come la presenza di sostanze, la violenza, le minori risorse della comunità, scuole inadeguate etc..
I fattori che abbiamo elencato non riguardano conseguenze unicamente specifiche per lo sviluppo di uso di sostanze, bensì si associano a esiti di danni generici, in pratica in tutte le aree dello sviluppo individuale.
Oltre ai fattori e ai meccanismi di rischio, loperazione dei processi di rischio deve essere ulteriormente considerata nel contesto di fattori protettivi che lindividuo incontra nel processo di sviluppo. I processi protettivi funzionano per promuovere uno sviluppo competente e ridurre limpatto negativo dei processi di rischio (Cicchetti & Garmezy, 1993, Rutter 1990). Quindi i fattori protettivi possono controbilanciare limpatto dei processi di rischio, abbassando la possibilità che i processi di rischio finiscano in esiti negativi.
Ancora, i fattori protettivi possono operare in modo interattivo; il fattore protettivo può avere un alto potere nel ridurre lesito negativo in una popolazione ad alto rischio, ma essere poco significativo in una popolazione a basso rischio (Garmezy et al., 1984). Tre categorie generali sembrano organizzare i dati sullargomento (Kazdin,1997): la prima è costituita dagli attributi personali del bambino (attributi che sono stabili nel corso dello sviluppo), la seconda dai fattori familiari, e la terza dai sostegni esterni.
Parte III: Ricerca etiologica nell uso di sostanze
Le aree attorno alle quali si é sviluppata la ricerca etiologica sono cinque (Weinberg et al.,1998): linfluenza genetica, le caratteristiche individuali, lorganizzazione funzionale familiare, i coetanei e i fattori cuscinetto" (resiliency).
Nellambito della indagine genetica, due sono i possibili meccanismi coinvolti (Cadoret et al., 1995) e ciò é stato individuato principalmente attraverso gli adoption studies di figli di alcolisti. Un primo percorso implica che lalcolismo nei genitori biologici sia direttamente predittivo del disturbi da uso di sostanze nei figli, mentre un percorso alternativa implica un fattore di mediazione: nei genitori biologici alcolismo e Disturbo Antisociale di Personalità predicono una prole con alti livelli di aggressività, con Disturbo della Condotta (DC) e, alla fine, Disturbo Antisociale di Personalità e uso di sostanze.
Luso e labuso di sostanze, per quanto implichino una base genetica, non sono legati alla presenza di un singolo gene. Più geni sono coinvolti e labuso di sostanze é solo uno dei possibili esiti comportamentali problematici in individui ad alto rischio (Weinberg et al., 1997).
Per quanto riguarda le caratteristiche individuali, é noto che i bambini a rischio mostrano diverse caratteristiche che hanno una base biologica e una diretta influenza sul rischio. A livello temperamentale laccento é stato posto sulla disinibizione, che può manifestarsi sia come aggressività che come segno di Disturbo della Condotta (Windle & Windle, 1993). Il comportamento novelty-seeking é correlato alluso di sostanze in adolescenza (Cloninger, 1987). Tra i bambini studiati nella comunità, il rischio maggiore é stato attribuito a quelli con aspetti di timidezza e aggressività (McCord, 1988). Il "temperamento difficile", che include alto livello di attività, risposta negativa di ritiro dai nuovi stimoli, disregolazionedel ritmo, rigidità e distraibilità si associa sia ad altri fattori di rischio di disturbi da uso di sostanze nella preadolescenza (Blackson, 1994) che a disturbi da uso di sostanze e delinquenza in adolescenza (Windle, 1991) (v. parte IV e V).
Sempre nelle caratteristiche individuali, un posto particolare meritano l Executive Cognitive Dysfunction (ECD) e i Disturbi Oppositivi. L ECD é un insieme di aspetti che non costituiscono un disturbo ma che possono essere alla base di diverse diagnosi psichiatriche che implicano la debolezza delle funzioni cognitive esecutive. Queste sono funzioni controllate dalla corteccia prefrontale ed includono la capacità di pianificare, di organizzare, di mantenere lattenzione, di produrre ragionamenti astratti, di auto-monitoraggio (o auto-osservazione), di elaborare flessibilmente concetti, di controllo e programmazione motoria, di problem solving e di anticipazione delle conseguenze (Giancola et al., 1996). I deficit tipici dell ECD attraversano diverse diagnosi psichiatriche, come il Disturbo Antisociale di Personalità e i Disturbi Oppositivi: tutti i quadri psicopatologici quindi legati alla prole di genitori biologici con disturbi da uso di sostanze.
Lassociazione tra il Disturbo della Condotta (DC) e la patologia legata alluso di sostanze é molto consistente (Biederman et al. 1997). Gli stessi studi hanno rilevato che l Oppositional Defiant Disorder, frequente antecedente del DC, non é associato con altrettanta gravità. Inoltre sia studi epidemiologici che clinici (Rounsvaille et al.,1998) hanno evidenziato che tanto il Disturbo Antisociale di Personalità quanto i comportamenti antisociali in senso lato esiti frequenti del DC- sono altamente correlati ai disturbi da uso di sostanze.
La triade comportamenti antisociali, Disturbi della Condotta e uso di sostanze é larea di maggior rilevanza di correlazione e indagine multifattoriale nelletiologia dei disturbi da uso di sostanze. Linterazione di questi fattori, sia sul piano causale che su quello evolutivo, non é stata chiarita (riprenderemo questo punto nella parte IV, , nella discussione sul costrutto del problem behavior).
Diverso é il discorso per quanto concerne il Disturbo da Deficit di Attenzione-Iperattività (DDAI) . In contrasto con gli studi retrospettivi, gli studi prospettici hanno generalmente rilevato che unassociazione tra DDAI e uso di sostanze esiste soltanto con la mediazione del DC. Ciò significa che, quando sottoposti a controllo e misurazione statistica, sono i DC, e non l DDAI, che spiegano lassociazione con luso di sostanze sia in adolescenza che nella prima età adulta. Sono stati tuttavia rilevati sottogruppi di individui con DDAI che sono a rischio di uso di sostanze; uno di questi sottogruppi sembra essere quello in cui il deficit attentivo si accompagna ad un deficit delle abilità sociali (Greene et al., 1997), un altro quello in cui il DDAI persiste nelletà adulta, e un altro ancora quello a sintomatologia più grave.
In conclusione, se da un lato lassociazione tra disturbi del comportamento aggressivo in particolare delinquenza- e uso di sostanze è assodato, dallaltro è dato acquisito che il DDAI non è correlato alla persistenza di uso di sostanze quando questa si co-manifesta con problemi aggressivi.
Per quanto riguarda lambito delle ricerche sulle famiglie, la ricerca continua a fornire elementi illuminanti di clustering familiare e di fattori familiari che mediano labuso di sostanze. In particolare l"assortative mating" (due genitori che si scelgono sulla base di un tratto condiviso) tra genitori abusanti é un elemento di grave rischio (Merikangas et al. 1992), così come lo é la psicopatologia parentale. Anche in questo settore rimane da studiare il meccanismo dazione di questi fattori di rischio e la loro interazione con elementi di ordine psicologico-evolutivo e sociale associati con luso di sostanze: stile genitoriale, vittimizzazione dei bambini, stress intrafamiliare, basso livello socio-economico. Sul piano psicosociale Reinherz et al.(1997) hanno evidenziato, in uno studio nella comunità, che luso di sostanze in un genitore é un fattore di rischio soltanto per i ragazzi. Il dato che l 85% dei genitori che facevano uso di sostanze era padre, suggerisce lipotesi che il meccanismo che porta allesito negativo sia costituito dalla patogenicità del modello di ruolo esercitato dal genitore dello stesso sesso.
In uno studio longitudinale sui figli maschi di padri con uso di sostanze, Clark et al. (1999) hanno dimostrato che il gruppo a più alto rischio è in effetti a rischio di disturbo antisociale che a sua volta è predittivo di una quota più alta di abuso di sostanze. Anche in questo caso si evidenzia la necessità di ipotesi mediazionali e dimensionali che descrivano il processo di interazione dei fattori di rischio. Ad esempio, Beitchmann et al. (1999) in un altro studio longitudinale hanno rilevato che disturbi del linguaggio nellinfanzia non distinguono, nella giovane età adulta, tra patologie da uso di sostanze e patologie di altro genere. Però il gruppo di coloro che presentava sia uso di sostanze che disturbi del linguaggio presentava un più alto livello di comorbidità psichiatrica. Questo dato suggerisce che le difficoltà precoci del linguaggio possono sottendere e implicare altri fattori di rischio per esempio, basse abilità sociali, impulsività o fallimenti scolastici- e spiega limportanza delle competenze di base nel ridurre la vulnerabilità alluso e allabuso di sostanze. In senso più ampio questi dati sostengono lutilità di un approccio più dimensionale per comprendere rischi e protezioni.
Linfluenza dei coetanei é un fattore molto indagato da ricerche che si fondano sulle teorie del social learning, e le sue applicazioni sociologiche hanno sottolineato che linfluenza dei gruppi di coetanei sono la causa principale del prevalere di conformità o devianza . In una interpretazione della letteratura, White et al. (1998) giungono alla conclusione che la maggior parte degli studi ha trovato che linfluenza dei coetanei è il predittore più significativo sia per luso di sostanze che per la delinquenza.
Così come in ogni altro settore di sviluppo psicopatologico, non esiste un singolo fattore "cuscinetto" (resiliency); ve ne sono diversi ai quali viene attribuita una capacità protettiva: lintelligenza, la capacità di problem-solving, le relazioni familiari di sostegno, modelli di ruolo positivi, e le capacità di regolare le manifestazioni degli affetti.
Parte IV: Uso di sostanze, aggressività e delinquenza in studi longitudinali
Uno dei quesiti che, al momento attuale, esige una risposta è come mai vi sia una consistente proporzione di adolescenti e giovani adulti che mostra contemporaneamente più di un singolo problema comportamentale. Ventanni di ricerche hanno ampiamente documentato la forte interrelazione tra diversi comportamenti problematici, al punto da ipotizzare una "sindrome del comportamento problematico" (problem-behavior syndrome). E stato ormai ben documentato il co-manifestarsi di delinquenza, aggressività e uso di sostanze, e in talune ricerche è stata avanzata lipotesi di una associazione predittiva ( Brook et al.,1996;Huizinga & Jacob-Chien, 1998),.
E però altrettanto vero che vi è unaltra rilevante percentuale di casi in cui lassociazione è tra la presenza di sintomatologia "internalizzante" (depressione, ansietà, comportamenti distaccati e timidi) e uso regolare di sostanze (Aselstine, Gore & Colten, 1998; Clark, Jacob & Mezzich,1994) . A differenza di quanto avvenuto nello studio delle dipendenze da alcool (Cloninger, Sigvardsson & Bohman,1981; Zucker et al.,1996) in cui sono state ipotizzate differenti tipologie sulla base dellesordio, dei problemi internalizzanti ed esternalizzanti, non è stata ancora acquisita una classificazione per luso di sostanze in età giovanile, fondata sul co-manifestarsi di altri problemi comportamentali e su dati prospettici.
Diverse sono le ipotesi proposte e le teorie che sono state avanzate per rispondere alla domanda: questi quadri condividono gli stessi fattori di rischio e/o hanno un percorso evolutivo comune?.
Una prima ipotesi è che sia luso di sostanze a condurre al comportamento delinquenziale oppure, al contrario, che i responsabili delluso di sostanze siano lattività criminale e la devianza comportamentale, (p.e. Kandel et al., 1986). Entrambe queste ipotesi implicano che un comportamento sia funzionale allaltro: nel primo caso luso di sostanze porta alla criminalità al fine di ottenere sostanze, nel secondo gli adolescenti devianti selezionano preferenzialmente gruppi di coetanei che usano sostanze. Questultima è la tesi sostenuta dalle "teorie dellattaccamento" (Fonagy,1997): le relazioni con i gruppi di coetanei servono a consolidare la relazione tra diversi comportamenti devianti. I bambini che manifestano problemi precoci nella condotta sono rifiutati dai coetanei non devianti, che attribuiscono ai bambini devianti motivazioni aggressive anche quando questi ultimi si comportano normalmente; a loro volta, questi ultimi vedono aggressività negli intenti altrui anche quando gli stimoli sono neutri (Dodge,1991 e v. la discussione su Moffit, parte V). Ne deriva che la scelta dei coetanei rafforza le predisposizioni già esistenti. Le cosiddette gang sono figure di attaccamento, allinterno delle quali sono soddisfatte molte funzioni parentali. Lappartenenza al gruppo deviante fornisce, seppure in senso maladattativo per la società, la sola possibilità per il giovane di esprimere il bisogno biologico di un legame che sia disponibile.
Una tesi diversa ritiene che le ipotesi precedenti siano corrette e che le sostanze "dispongano" gli individui a impegnarsi in altre forme di devianza abbassando le barriere inibitorie allacting-out, il che sottende lassunto che delinquenza e uso di sostanze siano forme di una generale disposizione alla dimensione del cosiddetto problem-behavior . A sostegno di questa tesi vengono portati lavori che confermano che le forme di aggressività infantile aumentano il rischio sia delluso di sostanze che della delinquenza. Robins (1966) e Robins e Wish (1977) sono stati i primi a sostenere che i due comportamenti hanno comuni origini biologiche, psicologiche e sociali e possono essere parte di una condizione clinica che esisteva precedentemente lesordio delluso di sostanze o la delinquenza.
Ancora, è possibile che uso di sostanze e delinquenza siano forme tra loro indipendenti che condividono antecedenti comuni di tipo biologico o psicosociale, ma che siano legate tra loro da una relazione spuria (p.e. McCord, 1995, negli studi longitudinali sul rapporto tra alcool e crimine).
Tutti questi studi hanno una certa validità e le conclusioni cui giungono lasciano aperto il problema. Le limitazioni della ricerca, e le contraddittorie conclusioni cui essa giunge, vanno forse individuate nel fatto che gran parte degli studi sulla continuità dei comportamenti è stata di natura correlazionale e non ha spiegato come avvengano, allinterno degli individui, i cambiamenti di modalità, di escalation, di eventuale desistenza e di specificità di problemi comportamentale (Farrington, 1988).
Per semplificare, abbiamo individuato tre principali modelli che hanno influenzato le posizioni teoriche del problema, oltre a esserne essi stessi un derivato.
Il primo è limpostazione longitudinale eterotipica, il secondo sono le dimensioni del "problem behavior" emerse dalla ricerca longitudinale del Pittsburgh Youth Study, il terzo è il modello della "similarità/dissimilarità" etiologico-evolutiva.
La longitudinalità eterotipica. Dobbiamo a Terrie Moffit il concetto di continuità eterotipica o di coerenza comportamentale- secondo la quale i problemi comportamentali cambiano in accordo con la maturazione e lo stadio evolutivo, secondo criteri di corrispondenza funzionale.
Questo concetto merita una digressione ed un approfondimento, anche se, in origine, esso è stato indagato primariamente lungo un asse di continuità/discontinuità del comportamento antisociale, e non delluso di sostanze. In una serie di lavori, Moffit ha elaborato una teoria evolutiva del comportamento antisociale che spiega la persistenza e la desistenza di questi comportamenti sulla base delletà di esordio . Esistono due dimensioni, tassonomicamente differenziabili quindi spiegabili con differenti costrutti psicopatologici, differenti precursori psicologici e biologici, differenti aspetti evolutivi: uno è il comportamento antisociale persistente nel corso della vita (Life Course Persistent LCP) ed ad esordio nella prima infanzia, laltro è limitato, per esordio e desistenza, alladolescenza (Adolescence Limited AL). La differenziazione in base alletà di esordio è stata così significativa che il DSM-IV ha definito la differenziazione dei sottotipi di DC proprio in base alletà di esordio.
Il primo costrutto (life-course-persistent) parte da un generico danno neuropsicologico su base genetica o ambientale: i dati empirici hanno correlato i disturbi antisociali a anomalie fisiche di grado minore, a uso di sostanze in gestazione, a iponutrizione prenatale, a esposizione pre- o postnatale ad agenti tossici, così come, per le fasi postnatali, lo sviliuppo neurale può essere danneggiato da deprivazione nella nutrizione, nella stimolazione e nellinterazione affettiva. Due tipi di deficit neuropsicologico sono associati empiricamente al comportamento antisociale: essi riguardano le funzioni verbali e le funzioni "esecutive" (v. parte III, la descrizione del Cognitve Executive Dysfuntion). I deficit verbali nei bambini antisociali sono pervasivi, colpiscono la lettura e lascolto ricettivo, il problem solving, il linguaggio espressivo, e la memoria. Incapacità attentiva ed impulsività sono poi i maggiori correlati nella sfera esecutiva. Nella ricerca longitudinale condotta in Nuova Zelanda (Moffit, 1990,1993, et al. 1996), i bambini con DC e DDAI con iperattività avevano un alto punteggio nei deficit neuropsicologici e persistenza dei sintomi antisociali attraverso ladolescenza.
Lelemento che merita la più attenta indagine rimane però il percorso evolutivo. Moffit (1993) intende, innanzitutto, il termine neuropsicologico in una ampia accezione, comprendendo il "grado in cui strutture anatomiche e processi fisiologici, allinterno del sistema nervoso, influenzano caratteristiche psicologiche come temperamento, sviluppo comportamentale, abilità cognitive". Per esempio, la variazione individuale nelle funzioni cerebrali può causare differenze tra i bambini nel livello di attivazione, nella reattività emotiva o nellauto-regolazione (temperamento); nel linguaggio, nella coordinazione motoria e nel controllo degli impulsi (sviluppo comportamentale); e nellattenzione, linguaggio, apprendimento, memoria e ragionamento (abilità cognitive). I bambini che hanno livelli subclinici di questi problemi, sono stati definiti con termini come "temperamento difficile", o con "disabilità cognitive lievi", o con "ritardo dellapprendimento". Vi è una ampia letteratura sullo sviluppo infantile (p.e; Chess & Thomas,1987; Rutter,1983) che definisce la vasta gamma di disagi evolutivi legati a questi deficit.
La tappa successiva è che, in unottica psicopatologica evolutiva, lambiente non può essere considerato una variabile costante. I bambini vulnerabili sono presenti in misura sproporzionatamente maggiore in ambienti che non possiedono funzioni migliorative, perché molte fonti dellanomalo sviluppo neurale si co-manifestano con svantaggi e devianze familiari. Ne consegue che, siccome alcune caratteristiche di genitori e bambini tendono a correlarsi, è maggiore la probabilità che i genitori di bambini a rischio forniscano un ambiente qualitativamente "antisociale". E stata del resto documentata la trasmissione intergenerazionale di comportamenti antisociali per almeno tre generazioni (Huesman et al., 1984)
Inoltre, dal momento che è nota la parziale ereditarietà di tratti temperamentali, come il livello di attivazione e lirritabilità, è altamente probabile che bambini, la cui iperattività e inclinazione allesplosività collerica potrebbero essere "contenute" da uno specifico stile genitoriale, si ritrovino genitori disciplinarmente inconsistenti e incoerenti, perché loro stessi tendono a essere impazienti ed irritabili. Plomin, Chipuer & Lohelin (1990) hanno dimostrato questa convergenza ereditaria di tratti sia per i tratti negativi (iperattività, irritabilità, incapacità di regolare le emozioni) sia per i tratti positivi (capacità dei genitori di relazionarsi con calore e bambini tranquilli e sicuri). Se ne può concludere quindi che i bambini vulnerabili sono spesso soggetti ad ambienti familiari e a contesti sociali avversi, dal momento che nascono da genitori che condividono le stesse vulnerabilità (Plomin & Bergeman,1990).
La sovrapposizione di un bambino vulnerabile e difficile ad un contesto ambientale di crescita inadeguato, attiva il rischio di quadri di comportamento antisociale persistenti per il corso della vita. Linterazione bambino-ambiente è transazionale e di reciproca influenza (Sameroff & Emde, 1987), ma segue diversi indirizzi: la transazionalità può essere evocativa (il comportamento del bambino difficile evoca uno stile reattivo nei genitori), può essere reattiva (bambini diversi reagiscono agli stimoli ambientali secondo modalità altamente individuali e specifiche, p.e. i bambini aggressivi interpretano stimoli ambigui come portatori di intenti minacciosi per loro stessi da parte degli altri), oppure ancora vi può essere una interazione proattiva ,quando il bambino seleziona o crea ambienti funzionali a supportare il proprio stile di personalità.
Diverse ricerche hanno confermato lesistenza di queste citate modalità interattive. Le conseguenze longitudinali, cioè linfluenza che hanno nel corso della vita sono di due tipi (Caspi & Bem,1990): conseguenze cumulative e conseguenze contemporanee. Che le differenze individuali attivino un "effetto a cascata" di conseguenze, seppure non ancora sufficiente: il Berkeley Study Guidance (Caspi et al., 1989) ha disegnato un percorso di continuità e conseguenze su un arco longitudinale di 30 anni:le indoli colleriche predicono un più basso livello di prestazioni educative, il quale a sua volta predice uno stato occupazionale più basso, il quale predice una maggior inclinazione alla devianza. Ma ancora bisogna gettare una luce più chiara su più specifiche fonti di continuità (v. parte II).
La continuità del comportamento antisociale è spiegabile attraverso due processi che hanno leffetto finale di restringere le possibilità di cambiare il comportamento: a) in questi soggetti il processo psicopatologico, iniziato così precocemente, infarcisce a tal punto gli anni formativi da impedire loro di apprendere comportamenti alternativi ai comportamenti antisociali. b) questi soggetti restano intrappolati in una concatenazione di comportamenti devianti (sessuali, sociali, relazionali) per i vantaggi che ne derivano (v. lipotesi fondata sui meccanismi di attaccamento e di apprendimento sociale).
La rilevanza psicopatologica del costrutto life-course persistent consiste perciò nella tassonomia di una dimensione patologica che ha come elemento essenziale la persistenza nel tempo e lestrema difficoltà a produrre cambiamenti nella sequenza di tappe evolutive marcate dalla devianza. La sindrome è tenace attraverso il tempo e nelle diverse circostanze; non vi è nessuna fondata validità nellaffermazione che lofferta di nuove opportunità ambientali sia in sé sufficiente ad attivare il cambiamento della risposta comportamentale in questi soggetti.
Il secondo costrutto comprende i comportamenti antisociali che esordiscono nelladolescenza (adolescence limited). Essi hanno, come evoluzione naturale, la tendenza alla desistenza ed a scomparire nella prima età adulta.
I due costrutti sono molto diversi per etiologia, patogenesi e prognosi. Sul piano trasversale essi non sono fenomenicamente distinguibili (Moffit, Caspi et al., 1996) : due adolescenti portatori di tipi diversi di comportamento antisociale si presentano clinicamente in modo identico; soltanto lindagine longitudinale consente la diagnosi differenziale e, vista lindicazione prognostica, impone strategie differenti di trattamento.
Il "multiple problem-behavior". La concettualizzazione della Moffit implica lesistenza del problem behavior (Jessor & Jessor,1977), al punto da considerare dirimente i risultati di tre studi longitudinali (Elliott, Huizinga & Menard, 1989; Farrington et al.,1990; Moffitt,1993), in base ai quali la presenza di disturbi comportamentali multipli predice la persistenza di comportamenti illegali nel corso del tempo. Come abbiamo visto, però, la sua teorizzazione poggia su un elemento temporale: esistono due diverse sindromi, quella a esordio infantile e quella ad esordio adolescenziale, che si distinguono per etiologia, patogenesi, decorso e prognosi. La multiple behavior syndrome è la forma clinicamente adulta del primo tipo.
Il gruppo di ricerca diretto da Loeber, meglio conosciuto come la ricerca del Pittsburgh Youth Study (Loeber et al., 1999), partendo dai contributi di Terrie Moffit, sostiene, a differenza di lei, che "studi longitudinali, con misurazioni regolarmente ripetute, indicano che lesordio di forme persistenti di delinquenza non è concentrato nella prima infanzia ma tende a emergere gradualmente fino alletà di 14 è 15 anni" (Loeber & Farrington, 1988), ed una percentuale sconosciuta di questi soggetti antisociali associa uso o abuso di sostanze.
A spiegare lemergere della gioventù multi-problematica, il gruppo di Pittsburgh chiama in causa la diversa combinazione di tre fattori, che esordiscono sia nellinfanzia che nella prima adolescenza: uso continuo di sostanze, delinquenza persistente oppure persistenti problemi di internalizzazione.
Ne deriva che la ricerca deve muoversi lungo due assi. In primo luogo una classificazione deve essere "evolutiva", nel senso di tener conto delletà di esordio e del decorso, e ciò perché la finestra di rischio è ampia (cioè abbraccia un ampio arco di fasi dello sviluppo); in secondo luogo un modello evolutivo è necessario perché, in individui che usano regolarmente sostanze, i problemi esternalizzanti (come aggressività e delinquenza) possono manifestarsi insieme a problemi internalizzanti, con maggiore prevalenza a partire dalladolescenza (Loeber et al.,1999).
Sulla base quindi di due parametri, età di esordio e indagine longitudinale, il Pittsburgh Youth Study concluse ipotizzando levoluzione di quattro percorsi dimensionali che producono diverse tipologie di problem behavior in cui è costante la presenza di uso di sostanze: a) un tipo misto, in cui troviamo soggetti con una storia di comportamenti distruttivi e delinquenziali insieme a sintomi internalizzanti (ansia e depressione) e con un esordio clinico manifesto nella media e tarda infanzia; b) un tipo internalizzante in cui vi sono persistenti segnali di depressione ma senza comportamenti delinquenziali; questa tipologia è evidente nella tarda infanzia e nelladolescenza; c) un tipo delinquente, in cui luso di sostanze si associa a persistente e grave delinquenza ma vi è assenza di ansia e depressione. Lesordio copre la fine dellinfanzia e ladolescenza; d) un tipo non-deviante in cui non vi sono segni internalizzanti né esternalizzanti in concomitanza con luso di sostanze; è il tipo che esordisce nelladolescenza.
Premessa la cautela di ogni interpretazione sul forte legame tra la persistenza della delinquenza e la persistenza delluso di sostanze ( e qui viene confermato che la gravità delluna cresce anche con laltra), gli autori conclusero che, prendendo come punto di partenza luso persistente di sostanze, emersero differenti configurazioni di problemi che si co-manifestano nella media o tarda infanzia rispetto a quelle della adolescenza.
Nel primo caso, cioè riferito alle fasi preadolescenziali, il tipo più comune mostra insieme i due comportamenti (uso persistente e delinquenza) e, in metà dello stesso gruppo, si aggiungevano problemi internalizzanti. Nel secondo caso, cioè nelladolescenza, un terzo dei soggetti con uso persistente di sostanze non manifesta altri problemi persistenti.
Se ne può concludere che una primaria disregolazione dellumore (che si manifesta in depressione, ansia, timidezza e distacco) può incidere nelluso di sostanze in una logica di self-medication, mentre lassociazione tra la disregolazione dellumore e la disregolazione del comportamento (nei segni di impulsività, aggressività e delinquenza) tende a manifestarsi in un periodo più precoce dello sviluppo, e precedente ladolescenza. (Loeber et al. 1998, Loeber et al. 1999).
Il modello della "similarità-dissimilarità" Fin qui la ricerca che sostiene il "problem behavior".
Un diverso indirizzo metodologico di ricerca, pur riconoscendo lesistenza di forti legami tra delinquenza, aggressività e uso di sostanze, lamenta, per così dire, che questi esiti sono stati indagati separatamente piuttosto che contemporaneamente; quindi non può essere chiarito se questi esiti condividono gli stessi fattori di rischio . Il compito centrale diviene quindi lidentificazione di meccanismi e fattori di rischio condivisi e non-condivisi.
In una serie di lavori (Cohen & Brook, 1987; Brook et al., 1995, Brook et al. 1996) il problem behavior fu indagato, in una prima ricerca, tramite linterazione di due componenti , abuso di sostanze e problemi della condotta; già in questa indagine emerse che alcuni fattori di rischio appartengono ad un esito negativo ma non all altro. Successivamente fu aggiunta lindagine di una terza dimensione, la delinquenza. Anche qui si evidenziò che talune aree di indagine (famiglia, coetanei, ambiente scolastico) erano consistenti con lipotesi di una causa comune dei problemi, mentre altre aree (in particolare la specificità del legame genitore-bambino) imponevano una ipotesi che prevede meccanismi causali non univoci (Cohen & Brook, 1987).
In uno studio ulteriore (Brook, non pubblicato, citato in Brook et al.,1995) furono indagati i cammini evolutivi comuni e separati in un campione di giovani portoricani per luso di sostanze e la delinquenza. I risultati confermano lesistenza di fattori di rischio sia condivisi che specifici per i due quadri, e che questi fattori sono più numerosi per la delinquenza che per labuso di sostanze.
Nello studio successivo i ricercatori hanno indagato le dimensioni della aggressività, del furto-vandalismo e delluso di sostanze (Brook et al.,1995): quattro aree indagate longitudinalmente (antecedenti di personalità, famiglia, coetanei e contesto sociale) hanno mostrato un impatto significativo su ognuna delle tre dimensioni problematiche del comportamento.. E stato poi possibile isolare una serie di fattori di rischio, alcuni dei quali erano comprensibilmente di natura generale (attitudini alla non-convenzionalità, conflitti familiari, e devianza dei coetanei) mentre, più specificamente, soltanto la disponibilità alla ribellione e il rifiuto dei ruoli sociali ( sia nei confronti della famiglia che delle istituzioni sociali come la scuola) erano correlate a tutte le dimensioni del comportamento problematico. E curioso che , mentre molti fattori di rischio erano condivisi per uso di sostanze e furto/vandalismo (nella misura del 70% delle variabili psicosociali indagate) soltanto per il 45% vi era una condivisione di tutte tre le dimensioni: il che significa che se vengono analizzati gli antecedenti, emerge che due terzi dei fattori di rischio sono differenti per luso di sostanze e i disturbi aggressivi. Ciò sostiene lipotesi di un "modello di cause dissimilari", a differenza della linea prevalente delle ricerche precedenti, che aveva ipotizzato una covarianza tra aggressività, vandalismo e uso di sostanze.
I dati più recenti dimostrano quindi che, se è vero che questi comportamenti condividono alcuni antecedenti comuni, almeno nella giovane età adulta essi non sono correlati. Non cè predittività tra uno dei comportamenti e lo sviluppo degli altri. E stata invece evidenziata una forte predittività negli antecedenti dello stesso tipo di comportamento (il vandalismo predice il vandalismo e laggressività predice laggressività). E quindi più bassa la quantità di varianza in un esito comportamentale che possa essere spiegata da altri antecedenti comportamentali.
A cosa si deve la differenza dei dati emersi ? lipotesi più probabile è che essa sia dovuta al fatto che tra antecedente infantile e comportamento adulto, la ricerca evolutiva longitudinale ha introdotto uno stringente controllo sulle variabili intermedie. Visto che il multiple problem behavior è determinato da antecedenti comuni e antecedenti invece specifici per ogni tipo di comportamento disturbato, da un lato è sostenuta ulteriormente la necessità di modalità di ricerca di tipo evolutivo, mentre dallaltro si impone lesigenza di individuare più discrete e specifiche dimensioni di problem behavior.
In uno studio successivo, gli stessi ricercatori ( Brook et al.,1996) focalizzarono, nelladolescenza, lesame di potenziali meccanismi di mediazione, attraverso i quali laggressività infantile conduce alluso di sostanze e alla delinquenza nella giovane età adulta. Trova conferma limportanza del nesso tra aggressività infantile e delinquenza adolescenziale , ma, grazie allaver protratto lindagine longitudinale fino alla giovane età adulta, viene evidenziato che la stabilità di questi comportamenti non è soltanto tra inizio e tarda adolescenza, ma anche tra tarda adolescenza e giovane età adulta.
La stessa ricerca ha dimostrato che, allinterno di uno stesso periodo di sviluppo, luso di sostanze ha un impatto rilevante nello sviluppo di delinquenza, e che vi sono relazioni temporalmente trasversali (p.e. la delinquenza nella giovane età adulta è correlata alluso di sostanze nella prima e seconda adolescenza). In sostanza, rimane assodato che laggressività infantile è legata alluso di sostanze nella prima adolescenza, che a sua volta è legata alluso di sostanze nella seconda adolescenza. Al tempo stesso laggressività infantile è riferita alla delinquenza durante la tarda adolescenza. I legami di mediazione tra aggressività infantile e delinquenza nella tarda adolescenza sono il comportamento deviante nella prima adolescenza e luso di sostanze nella seconda adolescenza.
Purtuttavia rimane aperta la discussione sulla possibile comunanza di origini biologiche e psicologiche tra uso di sostanze e comportamenti delinquenziali. Sappiamo per certo che la relazione è forte, anche quando viene sottoposta a controllo laggressività infantile; affermare però che laggressività infantile è la causa comune, rimane una tesi da dimostrare definitivamente.
Parte V: Conclusioni
Lindirizzo della psicopatologia evolutiva si caratterizza per ladozione di due modalità di strategia di ricerca: lo studio di continuità e discontinuità nel corso dello sviluppo e lo studio di continuità e discontinuità nello spettro delle variazioni comportamentali (Rutter,1996). La prima modalità ci impone di considerare linfluenza sulla ricerca delle variazioni indicizzate secondo letà, nellincidenza di un disturbo o nella suscettibilità ad un pericolo ambientale. Lesempio più imponente è il dato che il comportamento antisociale che inizia nella prima infanzia ha molte più probabilità di persistere nel tempo di quello che inizia nelladolescenza (Moffit,1993). Ealtamente probabile che la varietà ad esordio-precoce rappresenti una forma ad etiopatogenesi diversa, in quanto ha molte più probabilità di essere associata ad iperattività, deficit attentivi, e relazione inadeguate con i coetanei (Farrington, Loeber & vanKammen,1990). Al tempo stesso va posta attenzione al fatto che i fattori coinvolti nellesordio iniziale di un disturbo possano non essere gli stessi che esercitano la loro influenza sulla persistenza o remissione dello stesso (p.e. le avversità infantili esercitano una influenza maggiore sullesordio della depressione che sulle ricadute, oppure le espressività emotive negative familiari sono un noto fattore di rischio per le ricadute schizofreniche, ma non è sicuro il loro ruolo nellesordio o nella globale vulnerabilità alla malattia).
Le considerazioni evolutive hanno inoltre posto laccento sul fatto che i processi causali sono multifasici; un esempio illuminante è che le circostanze imposte dal comportamento dei soggetti giocano un ruolo chiave nella persistenza di quello stesso comportamento. I giovani scelgono i coetanei cui associarsi, ma gli studi longitudinali hanno mostrato che le caratteristiche del gruppo influenzano il comportamento del soggetto.
Una seconda strategia della ricerca evolutiva è lesame di continuità e discontinuità nellarco delle variazioni del comportamento, perché questa indagine garantisce la possibilità di evidenziare percorsi evolutivi. Come abbiamo visto , un esempio è il concetto di continuità eterotipica, intendendo che vi è una sottostante coerenza psicologica ma vi sono variazioni nelle sue manifestazioni superficiali. Al tempo stesso, è dato ormai acquisito che lo sviluppo di comportamenti devianti (e ciò si è chiarito meglio proprio nei comportamenti antisociali) segue itinerari gerarchici di vari livelli. Tra i bambini che presentano segni psicopatologici di rischio ( indicatori di disturbo della condotta) un gruppo continua, attraverso la pubertà e la prima adolescenza, a sviluppare sintomatologie di moderata devianza antisociale e, tra questi, un gruppo "prosegue" nel manifestare, nella seconda adolescenza, i quadri manifesti della patologia antisociale. Ne consegue quindi che soltanto una parte percorre il cammino fino alle estreme conseguenze (non più del 40% dei bambini con patologia della condotta diventa antisociale nelletà adulta) ; non va trascurato però il fatto che una ampia parte ha mostrato esiti patologici vari e difformi di disadattamento sociale e relazionale, mentre soltanto il 16 % non ha mostrato esiti disadattativi (Robins 1966). Una ricerca più recente ha confermato che, probabilmente, circa i tre-quarti dei bambini che hanno un consistente DC presenteranno, nelletà adulta, un disfunzionamento sociale pervasivo e persistente; soprattutto é rilevante che il DC non é predittivo del disfunzionamento in aree isolate (Zoccolillo et al. 1992).
Allo stesso modo, anche la comorbidità può essere vista, in una prospettiva evolutiva, come il riflesso di meccanismi di rischio in cui la presenza di un disturbo costituisce un rischio molto maggiore per un altro. Un disturbo ipercinetico nella prima infanzia costituisce una significativa predisposizione per lo sviluppo successivo di un disturbo della condotta. Visto che il contrario non avviene, è improbabile che le due condizioni rappresentino manifestazioni alternative dello stesso disturbo, e quindi, dal momento che la freccia causale va in una direzione soltanto, bisogna comprendere in base a quale meccanismo il fattore di rischio (liperattività) funziona causalmente. Più articolato sembra essere (v. il punto sulla similarità/dissimilarità) il nesso tra i vari fattori del multiple problem behavior, perché i vari fattori non co-variano in misura maggiore al 50%. E validata la freccia causale che lega lassociazione tra disturbi della condotta, personalità antisociale ed abuso di sostanze; nonostante questa direzione sia la più forte, non è invalidata lopposta. E plausibile che il rapporto causale sia reciproco, ma esiste una asimmetria matematica negli esiti, perché pochi adulti con disturbo della condotta e susseguente disturbo antisociale non abusano di sostanze, ma molti diagnosticabili come abuso di sostanze non hanno sintomi antisociali (Robins,1998, 1999). E significativo ricordare gli studi longitudinali svedesi (Stattin & Magnusson, 1995) che sottolineano come i bambini con una vasta gamma di problematicità multipla (incluse liperattività ma anche la bassa capacità di concentrazione, la bassa motivazione e il fallimento scolastici, e la povertà delle relazioni con i coetanei) spiegavano delinquenza e abuso di alcool in età adulta. E curioso e originale che, sul piano evolutivo, le caratteristiche, prese singolarmente, non acquistavano un peso significativo di rischio. Inoltre, una variabile come laggressività perdeva il potere predittivo se veniva escluso dallindagine il gruppo dei soggetti multiproblematici (trattenendo quindi soltanto quelli che presentavano soltanto aggressività).
Il problema successivo, che costituisce il nucleo di una indagine longitudinale, è la definizione di "un cammino" nel tempo che definisca una progressione. Nel caso delluso di sostanze, la serie di tappe progressive è chiara, nel senso che il comportamento si identifica inizialmente con luso della sostanza, poi con luso regolare e successivamente con lacquisizione di dipendenza psicologica o chimica. Questo cammino progressivo non può essere alterato, e non si può iniziare il processo se non dalla tappa iniziale. Per molti versi i comportamenti antisociali non si adattano a questo modello; non vi sono crimini che non possono essere commessi in assenza di precedenti infrazioni di qualsivoglia natura. Ciononostante alcune forme di progressione possono essere individuate; per esempio gli effetti età-dipendenti (o meglio dipendenti dallo specifico stadio di sviluppo, come abbiamo visto nella continuità eterotipica), oppure nei dati che affermano che liperattività predispone allantisocialità, ma non è vero il contrario, oppure ancora che la discordia intrafamiliare predispone al comportamento antisociale, ma soltanto nellinfanzia. Questutlimo fattore può essere considerato come un attivatore (nel della discordia tra i genitori, e nel perido inantile dello sviluppo); ma, se ci trasferiamo nelletà adulta, la discordia familiare va intesa come fenomeno di relazione con il partner, ed allora si rivela essere un fattore di rischio per il perpetuarsi del comportamento antisociale, ma non per il suo esordio.
Una significativa linea di ricerca ha proposto lesistenza di tre percorsi di sviluppo dellantisocialità (Loeber et al., 1998), ognuno dei quali specificamente caratterizzato da una modalità comportamentale: esplicito, implicito e contro lautorità. Ognuna di queste aree sembra seguire una specifica progressione di tappe. Lipotesi sembra esporsi a critiche stringenti, in particolare i tre cammini non sono così chiaramente separati e nemmeno così rigidi nella sequenza: un soggetto può saltare una tappa, oppure entrare nel processo non nella tappa iniziale, oppure può passare da un percorso allaltro. In particolare non si risolve la sfida che impone di delineare i meccanismi che sottendono il legame tra le diverse forme di comportamento antisociale e i crimini più gravi. Come si chiede Rutter (Rutter et al., 1997), i tre aspetti del comportamento antisociale, che Loeber definisce, sono semplicemente parte della stessa predisposizione sottostante o sono soggetti, almeno inizialmente, a qualche tipo di influenza specifica?
Il costrutto che ha retto maggiormente alla indagine scientifica rimane quello che si fonda sulla differenza nelle origini e nella persistenza nel corso della vita rispetto alle forme che tendono naturalmente a desistere. Il nodo che resta da chiarire è se laspetto differenziante è il grado di persistenza o letà di esordio del comportamento antisociale, fermo restando che, quando parliamo di persistenza, dovremmo precisare cosa persiste. Nagin et al. (1995) richiamano lattenzione sulla persistenza di reati gravi, oppure di uno stile di vita antisociale oppure di disadattamento sociale. Le implicazioni per interventi riabilitativi e preventivi sono evidenti. Lassociazione causale e progressiva tra uso di sostanze e comportamenti antisociali può essere più adeguatamente chiarita proprio alla luce di questi ulteriori elementi. Al di là del fatto che i due fenomeni condividono la metà della varianza, quindi provengono dalla identica predisposizione, si può concludere, più specificamente, che alcool e sostanze esercitano una influenza sulla persistenza e continuazione del disadattamento antisociale.
Tornando alle ipotesi sui meccanismi di sviluppo, è accettato che la persistenza o la non persistenza di un tratto sarà influenzata dalla natura delle esperienze successive. Una importante revisione dei dati emersi dalle ricerche longitudinali conferma che i mutamenti sociali radicali forniscono un importante contributo nei mutamenti comportamentali (Rutter et al., 1997). Le conclusioni che si possono trarre dai risultati sono di tre ordini. in primo luogo tutti i mutamenti osservati potevano essere messi in relazione con esperienze di grande portata, dallimpatto pervasivo. Eventi, esperienze di breve durata ed acuti non sono in grado di produrre conseguenze a lungo termine. In secondo luogo le esperienze importanti sono influenzate dal comportamento del soggetto. Come abbiamo visto in precedenza, gli individui antisociali generano e perpetuano modalità di relazione coercitive allinterno delle loro famiglie. In terzo luogo va sottolineato "leffetto di accentuazione" o "di continuità cumulativa" (Caspi & Moffit,1995): ciò significa che linterazione del soggetto con lambiente, quando nasce sulla base di un comportamentoantisociale, tende a condurre a successive esperienze negative che rafforzano il comportamento e lo stile antisociale. Sia che la vulnerabilità sia dovuta al background genetico, o a esperienze passate avverse o comportamenti devianti precedenti stabilizzati, la conseguenza è "un effetto di accentuazione" che rinforza la devianza precedente.
Il punto concettuale è che la ricerca empirica longitudinale sostiene che la sostanziale continuità del comportamento antisociale non è il necessario riflesso di un tratto individuale fisso e stabile: piuttosto, deriva da un effetto cumulativo dello scambio tra caratteristiche (e comportamenti) individuali predisponenti e esperienze di rischio. Ne consegue lammonimento ad evitare l implicita assunzione che la completa stabilità comportamentale sia la norma e che solo i cambiamenti vadano spiegati (Rutter 1996,1997).
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