logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

spazio bianco

 

PSICOPATOLOGIA EVOLUTIVA

NELL’ANTOSOCIALITA' E NELL’USO DI SOSTANZE

Sergio Dazzi

 

In Personalità/Dipendenze, Vol. 8, Fascicolo II, settembre 2002, Mucchi Editore, Modena; p. 179-197

Parte I: Introduzione storica

Un rilevante progresso nella ricerca sull’uso e sull’abuso di sostanze (e i disturbi psichici ad essi collegati) negli adolescenti e nei giovani adulti è stato determinato dalla focalizzazione sui fattori di rischio, sui fattori protettivi e sulla visione dei cosiddetti "cammini etiologici multipli" (Glantz & Hartel, 1997, Weinberg et al., 1999).

In altri termini, si intendono sostanzialmente due cose: la prima è che lo stesso quadro psicopatologico può essere il punto di arrivo di percorsi evolutivi molto diversi tra loro , la seconda è che lo stesso punto di partenza può dare vita a diversi percorsi che produrranno esiti molto diversi tra loro. I due punti sono riassumibili, come noto, nei concetti di equifinalità e multifinalità (vonBertalanffy, 1968).

Negli ultimi trent’anni (Szapocznick & Coatsworth 1997) é stata posta una attenzione sempre crescente, sia sul piano empirico che sul piano teorico, allo studio degli antecedenti della psicopatologia e dei disturbi del comportamento. La ricerca basata sui fattori di rischio offrì l’opportunità di studiare un gruppo di bambini vulnerabili ad esiti negativi per isolare i fattori genetici, individuali ed ambientali implicati nelle cause della psicopatologia. Al tempo stesso, lo sforzo di isolare i fattori di rischio mise in luce l’esistenza di fattori protettivi, cioè quell’insieme di fattori che "migliorano, modificano o alterano la risposta della persona a qualche pericolo ambientale che predispone a un esito negativo" (Rutter,1985).

Il principio guida fu l’assunto che, una volta che tutte le variabili influenti fossero state evidenziate, allora avremmo potuto predire ed, in ultima istanza, manipolare le traiettorie evolutive di bambini ed adolescenti verso un esito positivo.

In una prima fase, la lunga lista di fattori di rischio e di protezione fu elaborata in termini statici. Di volta in volta un fattore o un evento discreto (p.e. il divorzio dei genitori), o uno specifico disturbo (p.e. l’uso di sostanze in adolescenza), o un fattore generale e pervasivo dello sviluppo (p.e. la conflittualità intrafamiliare) , nel momento in cui fu identificato come rischio, si vide attribuire una valenza causale.

Una seconda fase della ricerca si focalizzò sulla riorganizzazione al fine di proporre una affidabile precisazione della moltitudine di fattori. Hawkins (1992) mise in luce 17 aree di fattori di rischio e di protezione per l’uso e l’abuso di sostanze, arrivando a dividerli in due categorie: una contestuale (di tipo sociale o psicosociale) e una individuale -interpersonale.

Tra i fattori di rischio contestuali vi sono le norme che favoriscono l’uso e la disponibilità di sostanze, l’estrema deprivazione economica e la disorganizzazione della comunità sociale. I fattori individuali-interpersonali includono i fattori fisiologici (sensitività alle sostanze, maggiore attività elettroencefalografica di onde-lente), attitudini familiari verso l’alcool e le sostanze, inadeguatezza dei membri a gestire le pratiche familiari, conflitti familiari, basso legame affettivo nella famiglia, problemi comportamentali persistenti e precoci, basso livello di coinvolgimento a scuola, rifiuto dei coetanei nelle scuole elementari, associazione con coetanei che fanno uso di sostanze.

Questo è stato un passo molto significativo perché la struttura organizzazionale ha offerto una cornice per identificare classi o fattori comuni a tutti gli studi. Ciononostante, sia l’orientamento teorico che l’organizzazione della lista di fattori tendono a focalizzarsi pressoché esclusivamente sulla interazione della persona all’interno di una singola dimensione (la famiglia, o la scuola o i coetanei, p.e.) trascurando i potenziali effetti di interazione di un fattore sull’ altro.

Di qui nacque la logica degli indici di rischio-multiplo e la ricerca fu riorganizzata lungo linee diverse. Indici di rischio multiplo che sommano i fattori di rischio in un singolo indice di esposizione di rischio aiutano i ricercatori ad affrontare simultaneamente un ventaglio più ampio di fattori di rischio. Ma questo pose in primo piano la necessità di cogliere anche la specificità dei meccanismi tramite quali i fattori di rischio diventano operativi e in quale modo interagiscono con i fattori protettivi.

D’altra parte, è riconosciuto (Kaplan,1995) che ogni modello specificamente deviante può ricoprire significati molto diversi. Senza dubbio esso riflette storie passate di circostanze stressanti, ma nella sua attualità può rappresentare una forma di adattamento, oppure può significare che mancano sia i meccanismi convenzionali di coping che le risorse personali e sociali che avrebbero permesso all’individuo di affrontare circostanze di vita stressanti senza adottare modalità devianti. A questo si aggiunge che le stesse circostanze stressanti favoriscono ulteriori modalità devianti, comprese le esperienze di apprendimento sociale nei gruppi che delinquono, l’assenza dei legami convenzionali e la ricerca di circostanze socialmente disapprovate che inducono il rifiuto sociale e il conseguente disagio psicologico al quale l’individuo si adegua tramite l’abuso di sostanze o di altre modalità devianti. In sostanza, quindi, esplosioni che si pensa indichino psicopatologia possono riflettere simultaneamente l’assenza di modelli adeguati di coping, storie di circostanze di vita avverse e soggettivamente stressanti che dispongono alla psicopatologia e conseguenze soggettivamente stressanti della psicopatologia stessa.

Parte II: Ricerca e rischio psicopatologico

Prima di discutere i dati sulla ricerca longitudinale che si pone l’obiettivo di spiegare l’emergenza di uso/abuso di sostanze in adolescenza e il legame causale che li associa ad altri disturbi psichiatrici, sarà istruttivo analizzare il ruolo della ricerca sui fattori di rischio in considerazione all’emergenza dei quadri psicopatologici.

Il livello di esaustività di una ricerca dipende dalla misura in cui l’associazione tra un fattore e un esito psicopatologico indicherà crescenti livelli di specificità riguardo a quanto il fattore in esame saprà suggerire o costituirsi come processo causale nel contribuire l’esito psicopatologico (Cicchetti & Rogosch, 1999).

Quando abbiamo stabilito che un putativo fattore di rischio opera nella stessa situazione temporale in cui si manifesta un esito psicopatologico, abbiamo il diritto di considerare il fattore di rischio putativo come un correlato del disturbo. Ma siccome la valutazione è stata concomitante, non sappiamo determinare se il fattore di rischio ha prodotto l’esito psicopatologico o viceversa. Per esempio, dire che adolescenti che abusano di sostanze hanno amici che pure abusano, significa che i due fattori sono correlati. Non è possibile definire cosa determina cosa. Un altro esempio viene dai maggiori studi epidemiologici (p.e. l’Epidemiologic Catchment Area, Robins & Regier,1991, oppure il National Comorbidity Survey, Kessler et al. 1996) in base ai quali la grande maggioranza degli individui che soddisfano i criteri di Disturbo da Abuso di Sostanze soddisfano anche i criteri per altre diagnosi psichiatriche. Ma la causalità non può essere inferita dai dati attuali (Weinberg & Glantz,1999): in alcuni casi uso e dipendenza da sostanze possono sfociare in sintomi di disturbi psichiatrici, anche quando non è presente un disturbo psichiatrico primario; in altri casi vi sono individui che iniziano la sostanza per auto-medicare sentimenti di disforia; in molti casi ancora sia l’uso di sostanze che la sintomatologia psichiatrica possono essere la manifestazione di una patologia o una predisposizione sottostante (come nel caso dei temperamenti sensation-seeking). Come vedremo, la limitazione dei dati può essere ovviata non limitandosi alla trasversalità (cross-sectional) degli studi, ma applicando una indagine longitudinale e prospettica.

Per stabilire che un costrutto è un fattore di rischio che porta ad un esito negativo, è necessario determinare che il fattore putativo di rischio precede l’emergenza di un esito negativo. In questo senso è importante lo studio degli antecedenti infantili. Un DC (Disturbo della Condotta) o la presenza di un padre alcolista permettono di affermare che un bambino è ad alto rischio di manifestare, più avanti nello sviluppo, problemi legati all’uso di sostanze. Il rischio implica una più elevata potenzialità ed è probabilistico.

Ma sapere che un costrutto funziona come fattore di rischio non stabilisce che esso opera per causare l’esito negativo. La fase successiva della ricerca, necessaria nella direzione verso una comprensione etiologica degli esiti psicopatologici, è differenziare tra indicatori di rischio e meccanismi di rischio (O’Connor & Rutter, 1999). I meccanismi di rischio specificano i processi attraverso i quali i fattori operano per generare un esito. Kraemer (1997) tentò di dividere i fattori di rischio in marker e fattori di rischio causali. I primi sono fattori di rischio non coinvolti causalmente nella produzione dell’esito, perché possono essere fissi e immodificabili (p.e. il sesso o la nascita prematura), oppure variabili (sia naturalmente, come l’età, o tramite interventi, come lo stato socio-economico). Se la modificazione di un marker variabile produce un cambiamento nel potenziale di un esito negativo, allora il marcatore variabile è implicato come fattore di rischio causale.

Per quanto i marcatori non siano coinvolti nel causare un esito negativo, essi sono purtuttavia necessari per fare luce sui processi che hanno un impatto causale sugli esiti. Un marcatore può contribuire a delineare un terzo fattore che contribuisce direttamente sia al marker che all’esito negativo. I marker quindi hanno una relazione spuria con gli esiti seppure siano molto importanti per chiarire i meccanismi causali. Per esempio, se il drop-out scolastico è associato ad un successivo aumento di uso di sostanze , allora il drop-out è implicato come fattore di rischio per l’uso di sostanze. Se fosse però applicato un intervento per abbassare il grado di drop-out, e se non ottenessimo una modificazione nell’impatto di uso di sostanze, allora l’associazione sarebbe spuria, e il drop-out andrebbe considerato un marker variabile. Dovremmo quindi considerare l’implicazione di altri fattori che contribuiscono sia al drop-out che all’uso di sostanze. Per esempio, il DC potrebbe potrebbe essere questo terzo fattore. Al contrario , se un intervento mirato a ridurre il drop-out scolastico abbassasse il livello di uso di sostanze, allora avremmo un fattore di rischio causale per l’uso di sostanze. Ma anche qui, avere identificato un fattore di rischio causale non implicherebbe che la causa di un esito negativo è stata individuata. . Il meccanismo causale deve ancora essere identificato, anche se il drop-out scolastico andrebbe considerato come parte del proceso causale. Delineare altri fattori di rischio causali potrebbe fornire la direzione verso la fonte delle cause, e ciò grazie al chiarire i modi in cui multipli fattori di rischio causali sono interrelati. Così facendo, potrebbe essere individuato un elemento comune che possieda più potere esplicativo come meccanismo causale di rischio. La ricerca deve quindi procedere per stadi, al fine di isolare meccanismi di rischio da una miriade di correlati, fattori di rischio, marker e fattori di rischio causali (Cicchetti & Rogosch, 1999).

Come abbiamo visto l’uso e l’abuso di sostanze dipendono da processi multipli più che da singole cause (Glantz & Pickens, 1992). Non solo, ma è molto plausibile che individui diversi acquisiscano problemi legati all’uso di sostanze attraverso differenti costellazioni di processi. Una volta ben definiti singoli processi di rischio, è possibile che questi non abbiano potere sufficiente per produrre, da soli, problemi da uso di sostanze. Però il loro impatto può diventare più potente se questi sono combinati con fonti di rischio addizionali. Insieme, i processi multipli di rischio possono operare additivamente, e in aggiunta, possono co-agire sinergisticamente con un impatto esponenziale più che additivo nel favorire esiti negativi (Garmezy et al., 1984)

Inoltre i fattori di rischio tendono a manifestarsi insieme piuttosto che isolatamente. I giovani che crescono in quartieri poveri hanno più probabilità di dover fare fronte ad una moltitudine di rischi, come la presenza di sostanze, la violenza, le minori risorse della comunità, scuole inadeguate etc..

I fattori che abbiamo elencato non riguardano conseguenze unicamente specifiche per lo sviluppo di uso di sostanze, bensì si associano a esiti di danni generici, in pratica in tutte le aree dello sviluppo individuale.

Oltre ai fattori e ai meccanismi di rischio, l’operazione dei processi di rischio deve essere ulteriormente considerata nel contesto di fattori protettivi che l’individuo incontra nel processo di sviluppo. I processi protettivi funzionano per promuovere uno sviluppo competente e ridurre l’impatto negativo dei processi di rischio (Cicchetti & Garmezy, 1993, Rutter 1990). Quindi i fattori protettivi possono controbilanciare l’impatto dei processi di rischio, abbassando la possibilità che i processi di rischio finiscano in esiti negativi.

Ancora, i fattori protettivi possono operare in modo interattivo; il fattore protettivo può avere un alto potere nel ridurre l’esito negativo in una popolazione ad alto rischio, ma essere poco significativo in una popolazione a basso rischio (Garmezy et al., 1984). Tre categorie generali sembrano organizzare i dati sull’argomento (Kazdin,1997): la prima è costituita dagli attributi personali del bambino (attributi che sono stabili nel corso dello sviluppo), la seconda dai fattori familiari, e la terza dai sostegni esterni.

Parte III: Ricerca etiologica nell’ uso di sostanze

Le aree attorno alle quali si é sviluppata la ricerca etiologica sono cinque (Weinberg et al.,1998): l’influenza genetica, le caratteristiche individuali, l’organizzazione funzionale familiare, i coetanei e i fattori ‘cuscinetto" (resiliency).

Nell’ambito della indagine genetica, due sono i possibili meccanismi coinvolti (Cadoret et al., 1995) e ciò é stato individuato principalmente attraverso gli adoption studies di figli di alcolisti. Un primo percorso implica che l’alcolismo nei genitori biologici sia direttamente predittivo del disturbi da uso di sostanze nei figli, mentre un percorso alternativa implica un fattore di mediazione: nei genitori biologici alcolismo e Disturbo Antisociale di Personalità predicono una prole con alti livelli di aggressività, con Disturbo della Condotta (DC) e, alla fine, Disturbo Antisociale di Personalità e uso di sostanze.

L’uso e l’abuso di sostanze, per quanto implichino una base genetica, non sono legati alla presenza di un singolo gene. Più geni sono coinvolti e l’abuso di sostanze é solo uno dei possibili esiti comportamentali problematici in individui ad alto rischio (Weinberg et al., 1997).

Per quanto riguarda le caratteristiche individuali, é noto che i bambini a rischio mostrano diverse caratteristiche che hanno una base biologica e una diretta influenza sul rischio. A livello temperamentale l’accento é stato posto sulla disinibizione, che può manifestarsi sia come aggressività che come segno di Disturbo della Condotta (Windle & Windle, 1993). Il comportamento novelty-seeking é correlato all’uso di sostanze in adolescenza (Cloninger, 1987). Tra i bambini studiati nella comunità, il rischio maggiore é stato attribuito a quelli con aspetti di timidezza e aggressività (McCord, 1988). Il "temperamento difficile", che include alto livello di attività, risposta negativa di ritiro dai nuovi stimoli, disregolazionedel ritmo, rigidità e distraibilità si associa sia ad altri fattori di rischio di disturbi da uso di sostanze nella preadolescenza (Blackson, 1994) che a disturbi da uso di sostanze e delinquenza in adolescenza (Windle, 1991) (v. parte IV e V).

Sempre nelle caratteristiche individuali, un posto particolare meritano l’ Executive Cognitive Dysfunction (ECD) e i Disturbi Oppositivi. L’ ECD é un insieme di aspetti che non costituiscono un disturbo ma che possono essere alla base di diverse diagnosi psichiatriche che implicano la debolezza delle funzioni cognitive esecutive. Queste sono funzioni controllate dalla corteccia prefrontale ed includono la capacità di pianificare, di organizzare, di mantenere l’attenzione, di produrre ragionamenti astratti, di auto-monitoraggio (o auto-osservazione), di elaborare flessibilmente concetti, di controllo e programmazione motoria, di problem solving e di anticipazione delle conseguenze (Giancola et al., 1996). I deficit tipici dell’ ECD attraversano diverse diagnosi psichiatriche, come il Disturbo Antisociale di Personalità e i Disturbi Oppositivi: tutti i quadri psicopatologici quindi legati alla prole di genitori biologici con disturbi da uso di sostanze.

L’associazione tra il Disturbo della Condotta (DC) e la patologia legata all’uso di sostanze é molto consistente (Biederman et al. 1997). Gli stessi studi hanno rilevato che l’ Oppositional Defiant Disorder, frequente antecedente del DC, non é associato con altrettanta gravità. Inoltre sia studi epidemiologici che clinici (Rounsvaille et al.,1998) hanno evidenziato che tanto il Disturbo Antisociale di Personalità quanto i comportamenti antisociali in senso lato –esiti frequenti del DC- sono altamente correlati ai disturbi da uso di sostanze.

La triade comportamenti antisociali, Disturbi della Condotta e uso di sostanze é l’area di maggior rilevanza di correlazione e indagine multifattoriale nell’etiologia dei disturbi da uso di sostanze. L’interazione di questi fattori, sia sul piano causale che su quello evolutivo, non é stata chiarita (riprenderemo questo punto nella parte IV, , nella discussione sul costrutto del problem behavior).

Diverso é il discorso per quanto concerne il Disturbo da Deficit di Attenzione-Iperattività (DDAI) . In contrasto con gli studi retrospettivi, gli studi prospettici hanno generalmente rilevato che un’associazione tra DDAI e uso di sostanze esiste soltanto con la mediazione del DC. Ciò significa che, quando sottoposti a controllo e misurazione statistica, sono i DC, e non l’ DDAI, che spiegano l’associazione con l’uso di sostanze sia in adolescenza che nella prima età adulta. Sono stati tuttavia rilevati sottogruppi di individui con DDAI che sono a rischio di uso di sostanze; uno di questi sottogruppi sembra essere quello in cui il deficit attentivo si accompagna ad un deficit delle abilità sociali (Greene et al., 1997), un altro quello in cui il DDAI persiste nell’età adulta, e un altro ancora quello a sintomatologia più grave.

In conclusione, se da un lato l’associazione tra disturbi del comportamento aggressivo –in particolare delinquenza- e uso di sostanze è assodato, dall’altro è dato acquisito che il DDAI non è correlato alla persistenza di uso di sostanze quando questa si co-manifesta con problemi aggressivi.

Per quanto riguarda l’ambito delle ricerche sulle famiglie, la ricerca continua a fornire elementi illuminanti di clustering familiare e di fattori familiari che mediano l’abuso di sostanze. In particolare l’"assortative mating" (due genitori che si scelgono sulla base di un tratto condiviso) tra genitori abusanti é un elemento di grave rischio (Merikangas et al. 1992), così come lo é la psicopatologia parentale. Anche in questo settore rimane da studiare il meccanismo d’azione di questi fattori di rischio e la loro interazione con elementi di ordine psicologico-evolutivo e sociale associati con l’uso di sostanze: stile genitoriale, vittimizzazione dei bambini, stress intrafamiliare, basso livello socio-economico. Sul piano psicosociale Reinherz et al.(1997) hanno evidenziato, in uno studio nella comunità, che l’uso di sostanze in un genitore é un fattore di rischio soltanto per i ragazzi. Il dato che l’ 85% dei genitori che facevano uso di sostanze era padre, suggerisce l’ipotesi che il meccanismo che porta all’esito negativo sia costituito dalla patogenicità del modello di ruolo esercitato dal genitore dello stesso sesso.

In uno studio longitudinale sui figli maschi di padri con uso di sostanze, Clark et al. (1999) hanno dimostrato che il gruppo a più alto rischio è in effetti a rischio di disturbo antisociale che a sua volta è predittivo di una quota più alta di abuso di sostanze. Anche in questo caso si evidenzia la necessità di ipotesi mediazionali e dimensionali che descrivano il processo di interazione dei fattori di rischio. Ad esempio, Beitchmann et al. (1999) in un altro studio longitudinale hanno rilevato che disturbi del linguaggio nell’infanzia non distinguono, nella giovane età adulta, tra patologie da uso di sostanze e patologie di altro genere. Però il gruppo di coloro che presentava sia uso di sostanze che disturbi del linguaggio presentava un più alto livello di comorbidità psichiatrica. Questo dato suggerisce che le difficoltà precoci del linguaggio possono sottendere e implicare altri fattori di rischio –per esempio, basse abilità sociali, impulsività o fallimenti scolastici- e spiega l’importanza delle competenze di base nel ridurre la vulnerabilità all’uso e all’abuso di sostanze. In senso più ampio questi dati sostengono l’utilità di un approccio più dimensionale per comprendere rischi e protezioni.

L’influenza dei coetanei é un fattore molto indagato da ricerche che si fondano sulle teorie del social learning, e le sue applicazioni sociologiche hanno sottolineato che l’influenza dei gruppi di coetanei sono la causa principale del prevalere di conformità o devianza . In una interpretazione della letteratura, White et al. (1998) giungono alla conclusione che la maggior parte degli studi ha trovato che l’influenza dei coetanei è il predittore più significativo sia per l’uso di sostanze che per la delinquenza.

Così come in ogni altro settore di sviluppo psicopatologico, non esiste un singolo fattore "cuscinetto" (resiliency); ve ne sono diversi ai quali viene attribuita una capacità protettiva: l’intelligenza, la capacità di problem-solving, le relazioni familiari di sostegno, modelli di ruolo positivi, e le capacità di regolare le manifestazioni degli affetti.

Parte IV: Uso di sostanze, aggressività e delinquenza in studi longitudinali

 

Uno dei quesiti che, al momento attuale, esige una risposta è come mai vi sia una consistente proporzione di adolescenti e giovani adulti che mostra contemporaneamente più di un singolo problema comportamentale. Vent’anni di ricerche hanno ampiamente documentato la forte interrelazione tra diversi comportamenti problematici, al punto da ipotizzare una "sindrome del comportamento problematico" (problem-behavior syndrome). E’ stato ormai ben documentato il co-manifestarsi di delinquenza, aggressività e uso di sostanze, e in talune ricerche è stata avanzata l’ipotesi di una associazione predittiva ( Brook et al.,1996;Huizinga & Jacob-Chien, 1998),.

E’ però altrettanto vero che vi è un’altra rilevante percentuale di casi in cui l’associazione è tra la presenza di sintomatologia "internalizzante" (depressione, ansietà, comportamenti distaccati e timidi) e uso regolare di sostanze (Aselstine, Gore & Colten, 1998; Clark, Jacob & Mezzich,1994) . A differenza di quanto avvenuto nello studio delle dipendenze da alcool (Cloninger, Sigvardsson & Bohman,1981; Zucker et al.,1996) in cui sono state ipotizzate differenti tipologie sulla base dell’esordio, dei problemi internalizzanti ed esternalizzanti, non è stata ancora acquisita una classificazione per l’uso di sostanze in età giovanile, fondata sul co-manifestarsi di altri problemi comportamentali e su dati prospettici.

Diverse sono le ipotesi proposte e le teorie che sono state avanzate per rispondere alla domanda: questi quadri condividono gli stessi fattori di rischio e/o hanno un percorso evolutivo comune?.

Una prima ipotesi è che sia l’uso di sostanze a condurre al comportamento delinquenziale oppure, al contrario, che i responsabili dell’uso di sostanze siano l’attività criminale e la devianza comportamentale, (p.e. Kandel et al., 1986). Entrambe queste ipotesi implicano che un comportamento sia funzionale all’altro: nel primo caso l’uso di sostanze porta alla criminalità al fine di ottenere sostanze, nel secondo gli adolescenti devianti selezionano preferenzialmente gruppi di coetanei che usano sostanze. Quest’ultima è la tesi sostenuta dalle "teorie dell’attaccamento" (Fonagy,1997): le relazioni con i gruppi di coetanei servono a consolidare la relazione tra diversi comportamenti devianti. I bambini che manifestano problemi precoci nella condotta sono rifiutati dai coetanei non devianti, che attribuiscono ai bambini devianti motivazioni aggressive anche quando questi ultimi si comportano normalmente; a loro volta, questi ultimi vedono aggressività negli intenti altrui anche quando gli stimoli sono neutri (Dodge,1991 e v. la discussione su Moffit, parte V). Ne deriva che la scelta dei coetanei rafforza le predisposizioni già esistenti. Le cosiddette gang sono figure di attaccamento, all’interno delle quali sono soddisfatte molte funzioni parentali. L’appartenenza al gruppo deviante fornisce, seppure in senso maladattativo per la società, la sola possibilità per il giovane di esprimere il bisogno biologico di un legame che sia disponibile.

Una tesi diversa ritiene che le ipotesi precedenti siano corrette e che le sostanze "dispongano" gli individui a impegnarsi in altre forme di devianza abbassando le barriere inibitorie all’acting-out, il che sottende l’assunto che delinquenza e uso di sostanze siano forme di una generale disposizione alla dimensione del cosiddetto problem-behavior . A sostegno di questa tesi vengono portati lavori che confermano che le forme di aggressività infantile aumentano il rischio sia dell’uso di sostanze che della delinquenza. Robins (1966) e Robins e Wish (1977) sono stati i primi a sostenere che i due comportamenti hanno comuni origini biologiche, psicologiche e sociali e possono essere parte di una condizione clinica che esisteva precedentemente l’esordio dell’uso di sostanze o la delinquenza.

Ancora, è possibile che uso di sostanze e delinquenza siano forme tra loro indipendenti che condividono antecedenti comuni di tipo biologico o psicosociale, ma che siano legate tra loro da una relazione spuria (p.e. McCord, 1995, negli studi longitudinali sul rapporto tra alcool e crimine).

Tutti questi studi hanno una certa validità e le conclusioni cui giungono lasciano aperto il problema. Le limitazioni della ricerca, e le contraddittorie conclusioni cui essa giunge, vanno forse individuate nel fatto che gran parte degli studi sulla continuità dei comportamenti è stata di natura correlazionale e non ha spiegato come avvengano, all’interno degli individui, i cambiamenti di modalità, di escalation, di eventuale desistenza e di specificità di problemi comportamentale (Farrington, 1988).

Per semplificare, abbiamo individuato tre principali modelli che hanno influenzato le posizioni teoriche del problema, oltre a esserne essi stessi un derivato.

Il primo è l’impostazione longitudinale eterotipica, il secondo sono le dimensioni del "problem behavior" emerse dalla ricerca longitudinale del Pittsburgh Youth Study, il terzo è il modello della "similarità/dissimilarità" etiologico-evolutiva.

La longitudinalità eterotipica. Dobbiamo a Terrie Moffit il concetto di continuità eterotipica –o di coerenza comportamentale- secondo la quale i problemi comportamentali cambiano in accordo con la maturazione e lo stadio evolutivo, secondo criteri di corrispondenza funzionale.

Questo concetto merita una digressione ed un approfondimento, anche se, in origine, esso è stato indagato primariamente lungo un asse di continuità/discontinuità del comportamento antisociale, e non dell’uso di sostanze. In una serie di lavori, Moffit ha elaborato una teoria evolutiva del comportamento antisociale che spiega la persistenza e la desistenza di questi comportamenti sulla base dell’età di esordio . Esistono due dimensioni, tassonomicamente differenziabili –quindi spiegabili con differenti costrutti psicopatologici, differenti precursori psicologici e biologici, differenti aspetti evolutivi: uno è il comportamento antisociale persistente nel corso della vita (Life Course Persistent LCP) ed ad esordio nella prima infanzia, l’altro è limitato, per esordio e desistenza, all’adolescenza (Adolescence Limited AL). La differenziazione in base all’età di esordio è stata così significativa che il DSM-IV ha definito la differenziazione dei sottotipi di DC proprio in base all’età di esordio.

Il primo costrutto (life-course-persistent) parte da un generico danno neuropsicologico su base genetica o ambientale: i dati empirici hanno correlato i disturbi antisociali a anomalie fisiche di grado minore, a uso di sostanze in gestazione, a iponutrizione prenatale, a esposizione pre- o postnatale ad agenti tossici, così come, per le fasi postnatali, lo sviliuppo neurale può essere danneggiato da deprivazione nella nutrizione, nella stimolazione e nell’interazione affettiva. Due tipi di deficit neuropsicologico sono associati empiricamente al comportamento antisociale: essi riguardano le funzioni verbali e le funzioni "esecutive" (v. parte III, la descrizione del Cognitve Executive Dysfuntion). I deficit verbali nei bambini antisociali sono pervasivi, colpiscono la lettura e l’ascolto ricettivo, il problem solving, il linguaggio espressivo, e la memoria. Incapacità attentiva ed impulsività sono poi i maggiori correlati nella sfera esecutiva. Nella ricerca longitudinale condotta in Nuova Zelanda (Moffit, 1990,1993, et al. 1996), i bambini con DC e DDAI con iperattività avevano un alto punteggio nei deficit neuropsicologici e persistenza dei sintomi antisociali attraverso l’adolescenza.

L’elemento che merita la più attenta indagine rimane però il percorso evolutivo. Moffit (1993) intende, innanzitutto, il termine neuropsicologico in una ampia accezione, comprendendo il "grado in cui strutture anatomiche e processi fisiologici, all’interno del sistema nervoso, influenzano caratteristiche psicologiche come temperamento, sviluppo comportamentale, abilità cognitive". Per esempio, la variazione individuale nelle funzioni cerebrali può causare differenze tra i bambini nel livello di attivazione, nella reattività emotiva o nell’auto-regolazione (temperamento); nel linguaggio, nella coordinazione motoria e nel controllo degli impulsi (sviluppo comportamentale); e nell’attenzione, linguaggio, apprendimento, memoria e ragionamento (abilità cognitive). I bambini che hanno livelli subclinici di questi problemi, sono stati definiti con termini come "temperamento difficile", o con "disabilità cognitive lievi", o con "ritardo dell’apprendimento". Vi è una ampia letteratura sullo sviluppo infantile (p.e; Chess & Thomas,1987; Rutter,1983) che definisce la vasta gamma di disagi evolutivi legati a questi deficit.

La tappa successiva è che, in un’ottica psicopatologica evolutiva, l’ambiente non può essere considerato una variabile costante. I bambini vulnerabili sono presenti in misura sproporzionatamente maggiore in ambienti che non possiedono funzioni migliorative, perché molte fonti dell’anomalo sviluppo neurale si co-manifestano con svantaggi e devianze familiari. Ne consegue che, siccome alcune caratteristiche di genitori e bambini tendono a correlarsi, è maggiore la probabilità che i genitori di bambini a rischio forniscano un ambiente qualitativamente "antisociale". E’ stata del resto documentata la trasmissione intergenerazionale di comportamenti antisociali per almeno tre generazioni (Huesman et al., 1984)

Inoltre, dal momento che è nota la parziale ereditarietà di tratti temperamentali, come il livello di attivazione e l’irritabilità, è altamente probabile che bambini, la cui iperattività e inclinazione all’esplosività collerica potrebbero essere "contenute" da uno specifico stile genitoriale, si ritrovino genitori disciplinarmente inconsistenti e incoerenti, perché loro stessi tendono a essere impazienti ed irritabili. Plomin, Chipuer & Lohelin (1990) hanno dimostrato questa convergenza ereditaria di tratti sia per i tratti negativi (iperattività, irritabilità, incapacità di regolare le emozioni) sia per i tratti positivi (capacità dei genitori di relazionarsi con calore e bambini tranquilli e sicuri). Se ne può concludere quindi che i bambini vulnerabili sono spesso soggetti ad ambienti familiari e a contesti sociali avversi, dal momento che nascono da genitori che condividono le stesse vulnerabilità (Plomin & Bergeman,1990).

La sovrapposizione di un bambino vulnerabile e difficile ad un contesto ambientale di crescita inadeguato, attiva il rischio di quadri di comportamento antisociale persistenti per il corso della vita. L’interazione bambino-ambiente è transazionale e di reciproca influenza (Sameroff & Emde, 1987), ma segue diversi indirizzi: la transazionalità può essere evocativa (il comportamento del bambino difficile evoca uno stile reattivo nei genitori), può essere reattiva (bambini diversi reagiscono agli stimoli ambientali secondo modalità altamente individuali e specifiche, p.e. i bambini aggressivi interpretano stimoli ambigui come portatori di intenti minacciosi per loro stessi da parte degli altri), oppure ancora vi può essere una interazione proattiva ,quando il bambino seleziona o crea ambienti funzionali a supportare il proprio stile di personalità.

Diverse ricerche hanno confermato l’esistenza di queste citate modalità interattive. Le conseguenze longitudinali, cioè l’influenza che hanno nel corso della vita sono di due tipi (Caspi & Bem,1990): conseguenze cumulative e conseguenze contemporanee. Che le differenze individuali attivino un "effetto a cascata" di conseguenze, seppure non ancora sufficiente: il Berkeley Study Guidance (Caspi et al., 1989) ha disegnato un percorso di continuità e conseguenze su un arco longitudinale di 30 anni:le indoli colleriche predicono un più basso livello di prestazioni educative, il quale a sua volta predice uno stato occupazionale più basso, il quale predice una maggior inclinazione alla devianza. Ma ancora bisogna gettare una luce più chiara su più specifiche fonti di continuità (v. parte II).

La continuità del comportamento antisociale è spiegabile attraverso due processi che hanno l’effetto finale di restringere le possibilità di cambiare il comportamento: a) in questi soggetti il processo psicopatologico, iniziato così precocemente, infarcisce a tal punto gli anni formativi da impedire loro di apprendere comportamenti alternativi ai comportamenti antisociali. b) questi soggetti restano intrappolati in una concatenazione di comportamenti devianti (sessuali, sociali, relazionali) per i vantaggi che ne derivano (v. l’ipotesi fondata sui meccanismi di attaccamento e di apprendimento sociale).

La rilevanza psicopatologica del costrutto life-course persistent consiste perciò nella tassonomia di una dimensione patologica che ha come elemento essenziale la persistenza nel tempo e l’estrema difficoltà a produrre cambiamenti nella sequenza di tappe evolutive marcate dalla devianza. La sindrome è tenace attraverso il tempo e nelle diverse circostanze; non vi è nessuna fondata validità nell’affermazione che l’offerta di nuove opportunità ambientali sia in sé sufficiente ad attivare il cambiamento della risposta comportamentale in questi soggetti.

Il secondo costrutto comprende i comportamenti antisociali che esordiscono nell’adolescenza (adolescence limited). Essi hanno, come evoluzione naturale, la tendenza alla desistenza ed a scomparire nella prima età adulta.

I due costrutti sono molto diversi per etiologia, patogenesi e prognosi. Sul piano trasversale essi non sono fenomenicamente distinguibili (Moffit, Caspi et al., 1996) : due adolescenti portatori di tipi diversi di comportamento antisociale si presentano clinicamente in modo identico; soltanto l’indagine longitudinale consente la diagnosi differenziale e, vista l’indicazione prognostica, impone strategie differenti di trattamento.

Il "multiple problem-behavior". La concettualizzazione della Moffit implica l’esistenza del problem behavior (Jessor & Jessor,1977), al punto da considerare dirimente i risultati di tre studi longitudinali (Elliott, Huizinga & Menard, 1989; Farrington et al.,1990; Moffitt,1993), in base ai quali la presenza di disturbi comportamentali multipli predice la persistenza di comportamenti illegali nel corso del tempo. Come abbiamo visto, però, la sua teorizzazione poggia su un elemento temporale: esistono due diverse sindromi, quella a esordio infantile e quella ad esordio adolescenziale, che si distinguono per etiologia, patogenesi, decorso e prognosi. La multiple behavior syndrome è la forma clinicamente adulta del primo tipo.

Il gruppo di ricerca diretto da Loeber, meglio conosciuto come la ricerca del Pittsburgh Youth Study (Loeber et al., 1999), partendo dai contributi di Terrie Moffit, sostiene, a differenza di lei, che "studi longitudinali, con misurazioni regolarmente ripetute, indicano che l’esordio di forme persistenti di delinquenza non è concentrato nella prima infanzia ma tende a emergere gradualmente fino all’età di 14 è 15 anni" (Loeber & Farrington, 1988), ed una percentuale sconosciuta di questi soggetti antisociali associa uso o abuso di sostanze.

A spiegare l’emergere della gioventù multi-problematica, il gruppo di Pittsburgh chiama in causa la diversa combinazione di tre fattori, che esordiscono sia nell’infanzia che nella prima adolescenza: uso continuo di sostanze, delinquenza persistente oppure persistenti problemi di internalizzazione.

Ne deriva che la ricerca deve muoversi lungo due assi. In primo luogo una classificazione deve essere "evolutiva", nel senso di tener conto dell’età di esordio e del decorso, e ciò perché la finestra di rischio è ampia (cioè abbraccia un ampio arco di fasi dello sviluppo); in secondo luogo un modello evolutivo è necessario perché, in individui che usano regolarmente sostanze, i problemi esternalizzanti (come aggressività e delinquenza) possono manifestarsi insieme a problemi internalizzanti, con maggiore prevalenza a partire dall’adolescenza (Loeber et al.,1999).

Sulla base quindi di due parametri, età di esordio e indagine longitudinale, il Pittsburgh Youth Study concluse ipotizzando l’evoluzione di quattro percorsi dimensionali che producono diverse tipologie di problem behavior in cui è costante la presenza di uso di sostanze: a) un tipo misto, in cui troviamo soggetti con una storia di comportamenti distruttivi e delinquenziali insieme a sintomi internalizzanti (ansia e depressione) e con un esordio clinico manifesto nella media e tarda infanzia; b) un tipo internalizzante in cui vi sono persistenti segnali di depressione ma senza comportamenti delinquenziali; questa tipologia è evidente nella tarda infanzia e nell’adolescenza; c) un tipo delinquente, in cui l’uso di sostanze si associa a persistente e grave delinquenza ma vi è assenza di ansia e depressione. L’esordio copre la fine dell’infanzia e l’adolescenza; d) un tipo non-deviante in cui non vi sono segni internalizzanti né esternalizzanti in concomitanza con l’uso di sostanze; è il tipo che esordisce nell’adolescenza.

Premessa la cautela di ogni interpretazione sul forte legame tra la persistenza della delinquenza e la persistenza dell’uso di sostanze ( e qui viene confermato che la gravità dell’una cresce anche con l’altra), gli autori conclusero che, prendendo come punto di partenza l’uso persistente di sostanze, emersero differenti configurazioni di problemi che si co-manifestano nella media o tarda infanzia rispetto a quelle della adolescenza.

Nel primo caso, cioè riferito alle fasi preadolescenziali, il tipo più comune mostra insieme i due comportamenti (uso persistente e delinquenza) e, in metà dello stesso gruppo, si aggiungevano problemi internalizzanti. Nel secondo caso, cioè nell’adolescenza, un terzo dei soggetti con uso persistente di sostanze non manifesta altri problemi persistenti.

Se ne può concludere che una primaria disregolazione dell’umore (che si manifesta in depressione, ansia, timidezza e distacco) può incidere nell’uso di sostanze in una logica di self-medication, mentre l’associazione tra la disregolazione dell’umore e la disregolazione del comportamento (nei segni di impulsività, aggressività e delinquenza) tende a manifestarsi in un periodo più precoce dello sviluppo, e precedente l’adolescenza. (Loeber et al. 1998, Loeber et al. 1999).

Il modello della "similarità-dissimilarità" Fin qui la ricerca che sostiene il "problem behavior".

Un diverso indirizzo metodologico di ricerca, pur riconoscendo l’esistenza di forti legami tra delinquenza, aggressività e uso di sostanze, lamenta, per così dire, che questi esiti sono stati indagati separatamente piuttosto che contemporaneamente; quindi non può essere chiarito se questi esiti condividono gli stessi fattori di rischio . Il compito centrale diviene quindi l’identificazione di meccanismi e fattori di rischio condivisi e non-condivisi.

In una serie di lavori (Cohen & Brook, 1987; Brook et al., 1995, Brook et al. 1996) il problem behavior fu indagato, in una prima ricerca, tramite l’interazione di due componenti , abuso di sostanze e problemi della condotta; già in questa indagine emerse che alcuni fattori di rischio appartengono ad un esito negativo ma non all’ altro. Successivamente fu aggiunta l’indagine di una terza dimensione, la delinquenza. Anche qui si evidenziò che talune aree di indagine (famiglia, coetanei, ambiente scolastico) erano consistenti con l’ipotesi di una causa comune dei problemi, mentre altre aree (in particolare la specificità del legame genitore-bambino) imponevano una ipotesi che prevede meccanismi causali non univoci (Cohen & Brook, 1987).

In uno studio ulteriore (Brook, non pubblicato, citato in Brook et al.,1995) furono indagati i cammini evolutivi comuni e separati in un campione di giovani portoricani per l’uso di sostanze e la delinquenza. I risultati confermano l’esistenza di fattori di rischio sia condivisi che specifici per i due quadri, e che questi fattori sono più numerosi per la delinquenza che per l’abuso di sostanze.

Nello studio successivo i ricercatori hanno indagato le dimensioni della aggressività, del furto-vandalismo e dell’uso di sostanze (Brook et al.,1995): quattro aree indagate longitudinalmente (antecedenti di personalità, famiglia, coetanei e contesto sociale) hanno mostrato un impatto significativo su ognuna delle tre dimensioni problematiche del comportamento.. E’ stato poi possibile isolare una serie di fattori di rischio, alcuni dei quali erano comprensibilmente di natura generale (attitudini alla non-convenzionalità, conflitti familiari, e devianza dei coetanei) mentre, più specificamente, soltanto la disponibilità alla ribellione e il rifiuto dei ruoli sociali ( sia nei confronti della famiglia che delle istituzioni sociali come la scuola) erano correlate a tutte le dimensioni del comportamento problematico. E’ curioso che , mentre molti fattori di rischio erano condivisi per uso di sostanze e furto/vandalismo (nella misura del 70% delle variabili psicosociali indagate) soltanto per il 45% vi era una condivisione di tutte tre le dimensioni: il che significa che se vengono analizzati gli antecedenti, emerge che due terzi dei fattori di rischio sono differenti per l’uso di sostanze e i disturbi aggressivi. Ciò sostiene l’ipotesi di un "modello di cause dissimilari", a differenza della linea prevalente delle ricerche precedenti, che aveva ipotizzato una covarianza tra aggressività, vandalismo e uso di sostanze.

I dati più recenti dimostrano quindi che, se è vero che questi comportamenti condividono alcuni antecedenti comuni, almeno nella giovane età adulta essi non sono correlati. Non c’è predittività tra uno dei comportamenti e lo sviluppo degli altri. E’ stata invece evidenziata una forte predittività negli antecedenti dello stesso tipo di comportamento (il vandalismo predice il vandalismo e l’aggressività predice l’aggressività). E’ quindi più bassa la quantità di varianza in un esito comportamentale che possa essere spiegata da altri antecedenti comportamentali.

A cosa si deve la differenza dei dati emersi ? l’ipotesi più probabile è che essa sia dovuta al fatto che tra antecedente infantile e comportamento adulto, la ricerca evolutiva longitudinale ha introdotto uno stringente controllo sulle variabili intermedie. Visto che il multiple problem behavior è determinato da antecedenti comuni e antecedenti invece specifici per ogni tipo di comportamento disturbato, da un lato è sostenuta ulteriormente la necessità di modalità di ricerca di tipo evolutivo, mentre dall’altro si impone l’esigenza di individuare più discrete e specifiche dimensioni di problem behavior.

In uno studio successivo, gli stessi ricercatori ( Brook et al.,1996) focalizzarono, nell’adolescenza, l’esame di potenziali meccanismi di mediazione, attraverso i quali l’aggressività infantile conduce all’uso di sostanze e alla delinquenza nella giovane età adulta. Trova conferma l’importanza del nesso tra aggressività infantile e delinquenza adolescenziale , ma, grazie all’aver protratto l’indagine longitudinale fino alla giovane età adulta, viene evidenziato che la stabilità di questi comportamenti non è soltanto tra inizio e tarda adolescenza, ma anche tra tarda adolescenza e giovane età adulta.

La stessa ricerca ha dimostrato che, all’interno di uno stesso periodo di sviluppo, l’uso di sostanze ha un impatto rilevante nello sviluppo di delinquenza, e che vi sono relazioni temporalmente trasversali (p.e. la delinquenza nella giovane età adulta è correlata all’uso di sostanze nella prima e seconda adolescenza). In sostanza, rimane assodato che l’aggressività infantile è legata all’uso di sostanze nella prima adolescenza, che a sua volta è legata all’uso di sostanze nella seconda adolescenza. Al tempo stesso l’aggressività infantile è riferita alla delinquenza durante la tarda adolescenza. I legami di mediazione tra aggressività infantile e delinquenza nella tarda adolescenza sono il comportamento deviante nella prima adolescenza e l’uso di sostanze nella seconda adolescenza.

Purtuttavia rimane aperta la discussione sulla possibile comunanza di origini biologiche e psicologiche tra uso di sostanze e comportamenti delinquenziali. Sappiamo per certo che la relazione è forte, anche quando viene sottoposta a controllo l’aggressività infantile; affermare però che l’aggressività infantile è la causa comune, rimane una tesi da dimostrare definitivamente.

Parte V: Conclusioni

L’indirizzo della psicopatologia evolutiva si caratterizza per l’adozione di due modalità di strategia di ricerca: lo studio di continuità e discontinuità nel corso dello sviluppo e lo studio di continuità e discontinuità nello spettro delle variazioni comportamentali (Rutter,1996). La prima modalità ci impone di considerare l’influenza sulla ricerca delle variazioni indicizzate secondo l’età, nell’incidenza di un disturbo o nella suscettibilità ad un pericolo ambientale. L’esempio più imponente è il dato che il comportamento antisociale che inizia nella prima infanzia ha molte più probabilità di persistere nel tempo di quello che inizia nell’adolescenza (Moffit,1993). E’altamente probabile che la varietà ad esordio-precoce rappresenti una forma ad etiopatogenesi diversa, in quanto ha molte più probabilità di essere associata ad iperattività, deficit attentivi, e relazione inadeguate con i coetanei (Farrington, Loeber & vanKammen,1990). Al tempo stesso va posta attenzione al fatto che i fattori coinvolti nell’esordio iniziale di un disturbo possano non essere gli stessi che esercitano la loro influenza sulla persistenza o remissione dello stesso (p.e. le avversità infantili esercitano una influenza maggiore sull’esordio della depressione che sulle ricadute, oppure le espressività emotive negative familiari sono un noto fattore di rischio per le ricadute schizofreniche, ma non è sicuro il loro ruolo nell’esordio o nella globale vulnerabilità alla malattia).

Le considerazioni evolutive hanno inoltre posto l’accento sul fatto che i processi causali sono multifasici; un esempio illuminante è che le circostanze imposte dal comportamento dei soggetti giocano un ruolo chiave nella persistenza di quello stesso comportamento. I giovani scelgono i coetanei cui associarsi, ma gli studi longitudinali hanno mostrato che le caratteristiche del gruppo influenzano il comportamento del soggetto.

Una seconda strategia della ricerca evolutiva è l’esame di continuità e discontinuità nell’arco delle variazioni del comportamento, perché questa indagine garantisce la possibilità di evidenziare percorsi evolutivi. Come abbiamo visto , un esempio è il concetto di continuità eterotipica, intendendo che vi è una sottostante coerenza psicologica ma vi sono variazioni nelle sue manifestazioni superficiali. Al tempo stesso, è dato ormai acquisito che lo sviluppo di comportamenti devianti (e ciò si è chiarito meglio proprio nei comportamenti antisociali) segue itinerari gerarchici di vari livelli. Tra i bambini che presentano segni psicopatologici di rischio ( indicatori di disturbo della condotta) un gruppo continua, attraverso la pubertà e la prima adolescenza, a sviluppare sintomatologie di moderata devianza antisociale e, tra questi, un gruppo "prosegue" nel manifestare, nella seconda adolescenza, i quadri manifesti della patologia antisociale. Ne consegue quindi che soltanto una parte percorre il cammino fino alle estreme conseguenze (non più del 40% dei bambini con patologia della condotta diventa antisociale nell’età adulta) ; non va trascurato però il fatto che una ampia parte ha mostrato esiti patologici vari e difformi di disadattamento sociale e relazionale, mentre soltanto il 16 % non ha mostrato esiti disadattativi (Robins 1966). Una ricerca più recente ha confermato che, probabilmente, circa i tre-quarti dei bambini che hanno un consistente DC presenteranno, nell’età adulta, un disfunzionamento sociale pervasivo e persistente; soprattutto é rilevante che il DC non é predittivo del disfunzionamento in aree isolate (Zoccolillo et al. 1992).

Allo stesso modo, anche la comorbidità può essere vista, in una prospettiva evolutiva, come il riflesso di meccanismi di rischio in cui la presenza di un disturbo costituisce un rischio molto maggiore per un altro. Un disturbo ipercinetico nella prima infanzia costituisce una significativa predisposizione per lo sviluppo successivo di un disturbo della condotta. Visto che il contrario non avviene, è improbabile che le due condizioni rappresentino manifestazioni alternative dello stesso disturbo, e quindi, dal momento che la freccia causale va in una direzione soltanto, bisogna comprendere in base a quale meccanismo il fattore di rischio (l’iperattività) funziona causalmente. Più articolato sembra essere (v. il punto sulla similarità/dissimilarità) il nesso tra i vari fattori del multiple problem behavior, perché i vari fattori non co-variano in misura maggiore al 50%. E’ validata la freccia causale che lega l’associazione tra disturbi della condotta, personalità antisociale ed abuso di sostanze; nonostante questa direzione sia la più forte, non è invalidata l’opposta. E’ plausibile che il rapporto causale sia reciproco, ma esiste una asimmetria matematica negli esiti, perché pochi adulti con disturbo della condotta e susseguente disturbo antisociale non abusano di sostanze, ma molti diagnosticabili come abuso di sostanze non hanno sintomi antisociali (Robins,1998, 1999). E’ significativo ricordare gli studi longitudinali svedesi (Stattin & Magnusson, 1995) che sottolineano come i bambini con una vasta gamma di problematicità multipla (incluse l’iperattività ma anche la bassa capacità di concentrazione, la bassa motivazione e il fallimento scolastici, e la povertà delle relazioni con i coetanei) spiegavano delinquenza e abuso di alcool in età adulta. E’ curioso e originale che, sul piano evolutivo, le caratteristiche, prese singolarmente, non acquistavano un peso significativo di rischio. Inoltre, una variabile come l’aggressività perdeva il potere predittivo se veniva escluso dall’indagine il gruppo dei soggetti multiproblematici (trattenendo quindi soltanto quelli che presentavano soltanto aggressività).

Il problema successivo, che costituisce il nucleo di una indagine longitudinale, è la definizione di "un cammino" nel tempo che definisca una progressione. Nel caso dell’uso di sostanze, la serie di tappe progressive è chiara, nel senso che il comportamento si identifica inizialmente con l’uso della sostanza, poi con l’uso regolare e successivamente con l’acquisizione di dipendenza psicologica o chimica. Questo cammino progressivo non può essere alterato, e non si può iniziare il processo se non dalla tappa iniziale. Per molti versi i comportamenti antisociali non si adattano a questo modello; non vi sono crimini che non possono essere commessi in assenza di precedenti infrazioni di qualsivoglia natura. Ciononostante alcune forme di progressione possono essere individuate; per esempio gli effetti età-dipendenti (o meglio dipendenti dallo specifico stadio di sviluppo, come abbiamo visto nella continuità eterotipica), oppure nei dati che affermano che l’iperattività predispone all’antisocialità, ma non è vero il contrario, oppure ancora che la discordia intrafamiliare predispone al comportamento antisociale, ma soltanto nell’infanzia. Quest’utlimo fattore può essere considerato come un attivatore (nel della discordia tra i genitori, e nel perido inantile dello sviluppo); ma, se ci trasferiamo nell’età adulta, la discordia familiare va intesa come fenomeno di relazione con il partner, ed allora si rivela essere un fattore di rischio per il perpetuarsi del comportamento antisociale, ma non per il suo esordio.

Una significativa linea di ricerca ha proposto l’esistenza di tre percorsi di sviluppo dell’antisocialità (Loeber et al., 1998), ognuno dei quali specificamente caratterizzato da una modalità comportamentale: esplicito, implicito e contro l’autorità. Ognuna di queste aree sembra seguire una specifica progressione di tappe. L’ipotesi sembra esporsi a critiche stringenti, in particolare i tre cammini non sono così chiaramente separati e nemmeno così rigidi nella sequenza: un soggetto può saltare una tappa, oppure entrare nel processo non nella tappa iniziale, oppure può passare da un percorso all’altro. In particolare non si risolve la sfida che impone di delineare i meccanismi che sottendono il legame tra le diverse forme di comportamento antisociale e i crimini più gravi. Come si chiede Rutter (Rutter et al., 1997), i tre aspetti del comportamento antisociale, che Loeber definisce, sono semplicemente parte della stessa predisposizione sottostante o sono soggetti, almeno inizialmente, a qualche tipo di influenza specifica?

Il costrutto che ha retto maggiormente alla indagine scientifica rimane quello che si fonda sulla differenza nelle origini e nella persistenza nel corso della vita rispetto alle forme che tendono naturalmente a desistere. Il nodo che resta da chiarire è se l’aspetto differenziante è il grado di persistenza o l’età di esordio del comportamento antisociale, fermo restando che, quando parliamo di persistenza, dovremmo precisare cosa persiste. Nagin et al. (1995) richiamano l’attenzione sulla persistenza di reati gravi, oppure di uno stile di vita antisociale oppure di disadattamento sociale. Le implicazioni per interventi riabilitativi e preventivi sono evidenti. L’associazione causale e progressiva tra uso di sostanze e comportamenti antisociali può essere più adeguatamente chiarita proprio alla luce di questi ulteriori elementi. Al di là del fatto che i due fenomeni condividono la metà della varianza, quindi provengono dalla identica predisposizione, si può concludere, più specificamente, che alcool e sostanze esercitano una influenza sulla persistenza e continuazione del disadattamento antisociale.

Tornando alle ipotesi sui meccanismi di sviluppo, è accettato che la persistenza o la non persistenza di un tratto sarà influenzata dalla natura delle esperienze successive. Una importante revisione dei dati emersi dalle ricerche longitudinali conferma che i mutamenti sociali radicali forniscono un importante contributo nei mutamenti comportamentali (Rutter et al., 1997). Le conclusioni che si possono trarre dai risultati sono di tre ordini. in primo luogo tutti i mutamenti osservati potevano essere messi in relazione con esperienze di grande portata, dall’impatto pervasivo. Eventi, esperienze di breve durata ed acuti non sono in grado di produrre conseguenze a lungo termine. In secondo luogo le esperienze importanti sono influenzate dal comportamento del soggetto. Come abbiamo visto in precedenza, gli individui antisociali generano e perpetuano modalità di relazione coercitive all’interno delle loro famiglie. In terzo luogo va sottolineato "l’effetto di accentuazione" o "di continuità cumulativa" (Caspi & Moffit,1995): ciò significa che l’interazione del soggetto con l’ambiente, quando nasce sulla base di un comportamentoantisociale, tende a condurre a successive esperienze negative che rafforzano il comportamento e lo stile antisociale. Sia che la vulnerabilità sia dovuta al background genetico, o a esperienze passate avverse o comportamenti devianti precedenti stabilizzati, la conseguenza è "un effetto di accentuazione" che rinforza la devianza precedente.

Il punto concettuale è che la ricerca empirica longitudinale sostiene che la sostanziale continuità del comportamento antisociale non è il necessario riflesso di un tratto individuale fisso e stabile: piuttosto, deriva da un effetto cumulativo dello scambio tra caratteristiche (e comportamenti) individuali predisponenti e esperienze di rischio. Ne consegue l’ammonimento ad evitare l’ implicita assunzione che la completa stabilità comportamentale sia la norma e che solo i cambiamenti vadano spiegati (Rutter 1996,1997).

Bibliografia

 

Aselstine RH, Gore S, & Colten ME (1998): The co-occurrence of depression and substance use in late adolescence. Development and Psychopathology 10,549-570

Beitchmann JH, Douglas L, Wilson B, Johnson C, Young A, Atkinson L, Escobar M, & Taback N (1999): Adolescent substance use-disorder: findings from a 14-year follow-up of speech-language impaired and control children. J. of Clin. Child Psychol. 28,312-321

Biederman J., Wilens T., Mick E., & Faraone S.V. (1997): Is ADHD a risk factor for psychoactive substance use disorders: Findings from a four-year prospective follow-up study. J. of Amer. Acad. Child & Adolesc. Psychiatry,36, 21-29

Blackson T.C. (1994): Temperament: a salient correlate of risks factors for alcohol and drug abuse. Drug & Alcohol Dependance, 36,205-214

Brook J., Whiteman M. Gordon A., Cohen P. (1989): "Changes in drug involvement: a longitudinal study of childhood and adolescent determinants" Psychological Reports 65:707-726

Brook J., Whiteman M., & Cohen P. (1995): Stage of drug use, aggression & theft/vandalism. Common and uncommon risks. In Kaplan H. (ed) : Drugs, Crime and Other Deviant Adaptations. New York:Plenum Press

Brook J.S., Whiteman M., Finch S.J., & Cohen P. (1996): Young adult drug use and delinquency: Childhood antecedents and adolescent mediators. J. Amer. Acad. Child & Adolesc. Psychiatry.35,1584-92

Cadoret RJ. Troughton E., O’Gorman TW., & Heywood E. (1995): Adption study demonstrating two genetic pathways to drug abuse. Arch Gen Psychiatry. 42:1131-1136

Caspi A. & Bem DJ (1990): Personality continuity and change across the life course. In L. Pervin (ed): Handbook of Personality Theory and Research . New York: Guilford Press

Caspi A. & Moffit T. (1995): The continuity of maladaptive behavior: From description to understanding in the study of antisocial behavior. In D. Cicchetti & D. Cohen (eds): Developmental Psychopathology vol. 2. New York:Wiley

Caspi A., Bem DJ. & Elder GH Jr (1989): Continuities and consequences of interactional styles across the life course. Journal of Personality 57,375-406

Chess S. & Thomas A. (1987): Origins and Evolution of Behavior Disorders: From Infancy to Early Adult Life. Cambridge,MA: Harvard University Press

Cicchetti D, & Garmezy N (1993): Prospects and promises in the study of resilience. Development and Psychopathology. 5,497-502

Cicchetti D, Rogosch F (1999): Psychopathology as risk factor for adolescent substance use disorders: a developmental psychopathology perspective. J. of Clinical Child Psychology 28,335-365

Clark DB, Jacob RG, & Mezzich A (1994). Anxiety and conduct disorders in early onset of alcoholism. Annals of the American Academy of Science 708,181-186

Clark DB, Parker AM, & Linch KG (1999): Psychopathology and substance-related problems during early adolescence: a survival analysis. J. of Clinica Chilsd Psychology 28,333-342

Cloninger C.R. (1987): A systematic method for clinical description and classification of personality variants. Arch. Gen. Psych. 44,573-88

Cloninger CR, Bohman M, & Sigvardsson D (1981). Inheritance of alcoholic abuse: cross-fostering analysis of adopted men. Arch. of Gen. Psychiatry 38,861-868

Cohen P. & Brook J (1987): Family factors related to the persistence of psychopathology in childhood and adolescence. Psychiatry 50,332-345

Dodge KA (1991): The structure and function of reactive and proactive aggression. In Pepler DJ & Rubin KH : The Development and Treatment of Childhood Aggression. Hillsdale,NJ: Erlbaum

Elliott D.S., Huizinga D. & Menard S. (1989): Multiple Problem Youth: Delinquency, Substance Use and Mental Health Problems: New York: Springer Verlag

Farrington D.P. (1988): Studying changes within individuals: the causes of offending. In M. Rutter (ed.): Studies of Psychosocial Risks. Cambridge: Cambridge University Press

Farrington D., Loeber R. & Vankammen WB (1990): Long-term criminal outcomes of hyperactivity-impulsivity-attention deficit and conduct problems in childhood. In Robins L. & Rutter M. (eds): Straight and Devious Pathways from Childhood to Adulthood. New York:Cambridge University Press

Fonagy P., Target M., Steele M., Steele H., Leigh T., Levinson A., & Kennedy R. (1997): Morality, disruptive behavior, borderline personality disorder, crime and theri relationship to security attachment. In Atkinson L., Zucker K.J. (eds): Attachment and Psychopathology. New York:Guilford

Garmezy N., & Rutter M. (Eds) (1983): Stress, Coping and Development in Childhood. New York: McGraw-Hill

Giancola P.R., Martin C.S., Tarter R.E., Pehlam W.E., & Moss H.B. (1996): Executive cognitive functioning and aggressive behavior in preadolescent boys at high risks for substance abuse/dependence. Journal of Studies on Alcohol, 57,352-359

Glantz MD, & Hartel CR (eds) (1999): Drug Abuse: Origins and Interventions Washington,DC; American Psychological Association

Glantz MD, & Pickens R (eds) (1992): Vulnerability to Drug Abuse. Washington,DC:American Psychological Association

Greene R.W., Biederman J., Faraone S.V., Sienna M., & Garcia-Jetton J. (1997): Adolescent outcome of boys with attentiondeficit/hyperactivity disorder and social disability: Results from a 4-year longitudinal follow-up study. Journal of Consulting & Clinical Psychology, 65,758-767

Huesman LR., Eron LD., Lefkowitz MM., & Walder LO (1984): Stabilityo of aggression over time. Developmental Psychology. 20,1120-1134

Huizinga D, Jakob-Chien C (1998): The contemporaneous co-occurrence of serious and violent juvenile offending and other problems. In Loeber R, Farrington D, eds: Serious and Violent Juvenile Offenders. Beverly Hills, Sage

Jessor R., & Jessor S.L. (1977): Problem Behavior and Psychosocial Development: a Longitudinal Study of Youth.nexw York:Academic Press

Kandel D, Simcha-Fagan O, & Davies M (1986): Risk factors for delinquency and illicit drug use from adolescence to young adulthood. The J. of Drud Issues 16,67-90

Kaplan H. (ed) (1995): Drugs, Crime and Other Deviant Adaptations. New York:Plenum Press

Kessler RC, Nelson CB, McGonagle KA, Edlund MJ, Frank RG, & Leaf PJ (1996): The epidemiology of co-occurring addicitive and mental disorders: Implications for prevention and service utilization. American Journal of Ortopsychiatry 66,17-31

Kraemer HC, Kazdin AE, Offord DR, Vessler RC, Jensen PS, & Kupfer DJ (1997): Coming to terms with the terms of risk. Arch. of Gen. Psych. 54,337-343

Loeber R., & Farrington D.P. (Eds) (1998): Serious & Violent Juvenile Offenders: Risk Factors and Successful Interventions Thousand Oaks:Sage

Loeber R., DeLamatre M., Keenan K., & Thang Q. (1998): A prospective replication of developmental pathways in disruptive and delinquent behavior. In Cairns R., Bergman L., & Kagan J. (eds) : Methods and Models for Studying the Individual . Thousands Oaks: Sage

Loeber R., Stouthamer-Loeber M., & Raskin White H. (1999): Developmental aspects of delinquency and internalizing problems and their associations with persistent juvenile substance use between ages 7 and 18. Clinical Child Psychology. 28(3):322-33

McCord J. (1988): Identifying developmental paradigms leading to alcholism. J. of Studies on Alcoholism, 49:357-62.

McCord J. (1995): Relationship between alcohol and crime over the life course. In Kandel H. (ed.): Drugs, Crime and Other Deviant Adaptations. New York:Plenum

Merikangas KR, Rounsvaille BJ, Prusoff BA (1992): Familial factors in vulnerability to substance abuse. In: Vulnerability to Drug Abuse, Glantz MD & Pickens RW, eds, Washington,DC; APA Press

Moffit TE (1990): Juvenile delinquency and attention deficit disorder: Developmental trajectories from age 3 to 15. Child Development 61,893-910

Moffit TE (1993): Adolescence-limited and life-course-persistent antisocial behavior:A developmental taxonomy. Psychological review 100(4):674-701

Moffit TE, Caspi A., Dickson N., Silva P., & Stanton W. (1996): Childhood-onset versus adolescence-onset antisocial conduct problems in males: Natural history from age 3 to 18 years. Development and Psychopathology. 8:399-424

Moffit TE, Caspi A., Dickson N., Silva P., & Stanton W. (1996): Childhood-onset versus adolescence-onset antisocial conduct problems in males: Natural history from age 3 to 18 years. Development and Psychopathology. 8:399-424

Moffit TE, Caspi A, Harrington H, Milne BJ (in stampa): Males on the life-course persistent and adolescence-limited antisocial pathways: follow-up at age 26. Development and Psychopathology

Nagin DS, Farrington DP & Moffit TE (1995): Life-course trajectories of different types of offenders. Criminology 33,111-139

O’Connor TG, Rutter M (1999): Risk mechanism in development: some conceptual and methodological consideration. Developmental Psychology 32,787-795

Plomin D. & Bergeman CS (1990): The nature of nurture: Genetic influence on "environmental measures". Behavioral and Brain Sciences 14,347-386

Plomin R., Chipuer HM., & Loehlin JC (1990): Behavioral genetics and personality. In Pervin (ed): Handbook of Personality Theory and Research. New York:Plenum Press

Quinton D., Pickles A., Maughan B., & Rutter M. (1993): Partners, peers and pathways: Assortative pairing and continuities in conduct disorders. Development and Psychopathology 5:763-83

Regier DA, Farmer ME, Rae DS, Locke BZ, Keith SJ, Judd LL, & Goodwin FK (1990): Comorbidity of mental disorders with alcohol and other drug abuse: results from Epidemiologic Catchment Area (ECA) Study. Journal of the American Medical Association 264,101-109

Reinherz HZ, Giaconia RM, Carmola Hauf AM, Wasserman M, & Paradis A (2000): General and specific childhood risk factors for depression and rug disorders by early adulthood. J. Amer. Acad of Child & Adolesc. Psych. 39,223-231

Robins LN (1966): Deviant Children Grown up: A Sociological and Psychiatric Study of Sociopathic Personality. Baltimore: Williams and Wilkins

Robins L.N. (1998): The intimate connection between antisocial personality and substance abuse. Soc. Psychatry Psychitr. Epidemiol.: 33:393-399

Robins L.N. (1999): A 70-year history of conduct disorder: Variations in definition, prevalence and correlates. In Cohen P., Slomkowsky C., & Robins L.N. (eds): Historical and Geographical Influences on Psychopathology. Mahwah,NJ: Lawrence Erlbaum Associates

Robins L.N. & Wish E. (1977): Child deviance as a developmental process: A study of 233 urban black men from birth to 18. Social Forces,56:448-473

Rounsvaille B.J., Kranzler H.R., Ball S., Tennen H., Poling J. & Triffleman E. (1998): Personality disorders in substance abusers. Relation to substance use. Journal of Nervous and mental Disease, 186,87-95

Rutter M (1990): Psychosocial resilience and protective mechanisms. In Rolf J, Masten A, Cicchetti D, Nuechterlein K, & Weintraub S (eds): Risk and Protective Factors in the Development of Psychopathology. New York:Cambridge University Press

Rutter M. (ed) (1983): Developmental Neuropsychiatry. New Yotk:Guilford Press

Rutter M. (1996a): Developmental psychopathology: Concepts and prospects. In Lenzenweger MF & Haugard JJ (eds): Frontiers of Developmental Psychopathology. New York:Oxford University Press

Rutter M. (1996b): Transitions and turning points in developmental psychopathology: As applied to age span between childhood and mid-adulthood. International Journal of Behavioral Development. 19,603-26

Rutter M., Giller H. & Hagell A. (1997): Antisocial Behavior by Young People.Cambridge:Cambridge University Press

Sameroff AJ., & Emde RN (1989): Relationship Disturbances in Early Childhood. A developmental Approach. New York: Basic Books. trad. it. I Disturbi della Relazione nella Prima Infanzia. Torino: Bollati Boringhieri

Stattin H. & Magnusson D. (1989): Pubertal Maturation in Female Development. Hillsdale,NJ: Erlbaum

Weinberg N.Z., Rahdert E., Colliver J., & Glantz M.D. (1998): Adolescent substance abuse: a review of the past 10 years. J. Acad. Child & Adolesc. Psych.37, 252-261

Weinberg NZ, & Glantz MD (1999): Child psychopathology risk factors for drug abuse: overview. J. of Clinical Child Psychology 28,290-297

White HR, Loeber R, Stouthamer-Loeber M, & Farrington D. (1999): Developmental associations between substance use and violence. Dev. Psychopathology 11(4):785-803

Windle M, & Windle RC (1993): The continuity of behavioral expression amnog dishinibited and inhibited childhood subtypes. Clinical Psychology Review 13,741-761

Windle M. (1991). The difficult temperament in adolescence: Associarions with substance use, family support, and problem behaviors. Journal of Clinical Psychology, 47,310-315

Zoccolillo M., Pickles A., Quinton D. & Rutter M. (1992): The outcome of childhood conduct disorder: implications for defining adult personality disorder and conduct disorder

Zucker RA, Ellis DA, Fitzgerald HE, Bingham CR, & Sanford K (1996): Other evidence for at least two alcoholism: life course variations in antisociality and heterogeneity of alcoholic outcome. Development and Psychopathology 24,831-848

CONTATTI

Puoi usare il link proposto sotto per predere contatto con la Redazione di "PERSONALITA' / DIPENDENZE" per qualunque informazione tu desiderassi ricevere e per eventuale collaborazione scientifica; lo stesso vale per la Redazione di POL.it che ospita nelle sue pagine questa edizione on line.


spazio bianco

spazio bianco

copy POLit