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SCHIZOFRENIA ED ABUSO DI SOSTANZE:

DALLA EPIDEMIOLOGIA CLINICA ALLA INTEGRAZIONE DEI TRATTAMENTI

 

Angelo Fioritti

Direttore del Programma Salute mentale e Dipendenza Patologiche presso l’Azienda USL di Rimini.

Indirizzo per la corrispondenza:

Dr Angelo Fioritti, Direzione Generale, Azienda USL Rimini, Via Coriano 38, 47900 Rimini, Italy

Tel: 00 39 0541 707 740

Fax: 00 44 0541 707 079

Email: afioritti@auslrn.net

 

In Personalità/Dipendenze, Vol. 9, Fascicolo II, ottobre 2003, Mucchi Editore, Modena; p. 177-191

 

 

 

RIASSUNTO

Il problema della doppia diagnosi non è una moda clinica, ma una reale sfida di sanità pubblica. Le sue dimensioni epidemiologiche e la serietà delle situazioni cliniche impongono una riflessione che deve riguardare il momento clinico e quello organizzativo. La schizofrenia con abuso/dipendenza da sostanze rappresenta il terreno clinico privilegiato su cui testare la robustezza delle soluzioni organizzative da approntare. L’autore passa in rassegna le più recenti acquisizioni epidemiologiche sull’argomento e gli studi empirici di valutazione delle esperienze di integrazione dei trattamenti psichiatrici e per le tossicodipendenza rivolti ai soggetti con diagnosi di schizofrenia. Pur trattandosi nella maggior parte dei casi di studi che non hanno fornito i successi sperati e che necessitano di radicali adattamenti per essere praticati in Italia è possibile anche nel nostro Paese procedere ad una maggiore integrazione tra servizi di psichiatria e per le tossicodipendenze. L’autore propone quattro direzioni clinico-organizzative lungo cui sperimentare tale integrazione: l’assertività/direttività dei team di salute mentale, l’inserimento di specialisti delle tossicodipendenze nei team di salute mentale, la creazione di residenze psichiatriche e comunità terapeutiche per le tossicodipendenze dotate di competenze sulla doppia diagnosi e la formazione congiunta tra team dei due campi.

 

 

SUMMARY

Comorbidity of psychiatric disorders with substance abuse and dependence is a real challenge for public health. Epidemiology and clinical problems call for a substantial revision of practices and organization of services. The intersection of schizophrenia with substance abuse is certainly the ground with more unmet needs. The author reviews the most recent results in epidemiology and the studies of empirical evaluation of integrated programs for subjects with dually diagnosed schizophrenia. Although most promises remained unmet, there are many lessons to learn about how to integrate treatment for this difficult population. With a view to adapt these results to the Italian situation the Author proposes four major directions for service integration and development: emphasising assertiveness of psychiatric teams with regard to this population, integrating drug addiction specialists within psychiatric teams, modifying residential settings and therapeutic communities according to the needs of this population, implementing joint education of mental health and drug addiction teams.

Introduzione

Come negli USA degli anni ’90 anche nei servizi sanitari italiani di oggi la "doppia diagnosi" è diventata la parola d’ordine. Se ne parla più o meno a proposito, con accezioni più o meno estese, riconducendo spesso a tale concetto tutte le situazioni di problematica gestione a cavallo tra servizi di psichiatria e per le tossicodipendenze, con questo correndo il rischio di svalutare il capitale euristico ed applicativo di questo concetto. Non va però dimenticato che il concetto di doppia diagnosi si è imposto per i problemi specifici dell’utenza con grave disturbo psicotico e grave abuso/dipendenza da sostanze e che non può affatto dirsi risolta la mole di problemi concettuali ed operativi che essa pone.

La clinica della schizofrenia alla intersezione con l’abuso/dipendenza da sostanze non è solo una moda culturale. Ci sono valide ragioni per pensare che il numero effettivo di soggetti con diagnosi di schizofrenia che vivono nella comunità e che presentano una condizione di abuso/dipendenza sia grandemente aumentato negli ultimi quindici anni e che si configuri come un problema rilevante di salute pubblica anche nel nostro Paese. Cercherò di delinearne alcune:

1- L’Italia ha avviato il più radicale esperimento di deistituzionalizzazione psichiatrica del mondo occidentale. A partire dal 1978, data in cui circa 80.000 persone risedevano negli Ospedali Psichiatrici Provinciali, l’intero impianto delle strutture asilari è stato smantellato e sostituito con strutture di ricovero per acuti, strutture residenziali, strutture socio-assistenziali. I dati nazionali stimano che attualmente esistano circa 27.000 posti letto tra tutte le strutture sanitarie e socio-assistenziali psichiatriche, comportando quindi la riduzione di circa 2/3 della dotazione istituzionale iniziale (Gruppo Nazionale PROGRES, 2000;Gruppo Nazionale PROGRES, 2001;de Girolamo et al., 2002). Nei Paesi in cui si dibatte se la deistituzionalizzazione sia stata troppo rapida o estesa, come l’Inghilterra e gli USA, tale decremento è stato ben inferiore, dell’ordine di circa 1/3, con mantenimento di strutture ad alta protezione o dichiaratamente custodiali. Inoltre in Italia molte di queste strutture, soprattutto quelle residenziali e socio-assistenziali non accettano o non sono attrezzate per intervenire su pazienti che abusano di sostanze. Risultato: molti più pazienti oggi vivono nella comunità e sono esposti a tutti gli aspetti positivi e negativi della vita comunitaria, incluso l’uso di sostanze, e data la accertata maggiore vulnerabilità a sviluppare abuso/dipendenza di sostanze, più soggetti con schizofrenia diventano tossicodipendenti;

2- Con una progressione ininterrotta dalla metà degli anni ’60, il mondo occidentale, ed ora il mondo globalizzato, è stato investito da una diffusione senza precedenti nella storia dell’umanità di sostanze d’abuso lecite ed illecite (Ghodse, 1995), che hanno raggiunto fasce di popolazione precedentemente non esposte e fortemente vulnerabili: minori, pazienti psichiatrici, popolazioni a basso reddito (Desjarlais et al., 1998). E’ importante notare che la diffusione delle sostanze d’abuso è veramente senza precedenti nella storia dell’umanità relativamente a numero di sostanze disponibili, quantità e purezza dei principi attivi. Gli effetti sulla popolazione generale e sulle sottopopolazioni più vulnerabili di tale diffusione, per quanto devastanti, non paiono essere ancora stati compresi nella loro interezza. Sicuramente tra questi effetti c’è stato anche quello di mutare il profilo clinico ed il decorso della malattia schizofrenica, che oggi, ancor prima di essere distinta in catatonica, paranoide e indifferenziata andrebbe forse distinta in "con abuso" o "senza abuso di sostanze";

3- I servizi psichiatrici e per le tossicodipendenze hanno mostrato ovunque difficoltà a mettere a fuoco tempestivamente dimensioni e gravità del problema e scarsa propensione iniziale a mettere in comune conoscenze e competenze per affrontarlo, col risultato spesso di lasciare non trattata una popolazione estremamente bisognosa e dal profilo comportamentale molto problematico (Solomon et al., 1993; Solomon, 1996; Clerici et al., 1996; Fioritti & Solomon, 2002).

Per tutte queste ragioni il problema clinico del riconoscimento, trattamento e gestione del paziente schizofrenico con abuso/dipendenza da sostanze resta a tutt’oggi il punto cruciale del tema della doppia diagnosi e quello attorno al quale valutare i modelli e le risposte operative che vengono coraggiosamente messi in atto in varie parti del mondo, Italia inclusa. Non si vuol dire con questo che altri problemi non siano rilevanti, inserendo tra questi le condizioni di abuso/dipendenza nella malattia bipolare, i gravissimi disturbi di personalità complicati da gravissima tossicodipendenza, le sindromi transitorie e permanenti secondarie ad abuso di sostanze. Alcuni di questi problemi possono ricevere importanti indicazioni dalle ricerche condotte nel campo della schizofrenia ed altri devono trovare risposte in linee di ricerca autonome ed integrate tra psichiatria e tossicodipendenze, cercando di rivalutare al massimo esperienze condotte nei servizi pubblici e privati di entrambi i settori.

Lo stato delle conoscenze

Oggi conosciamo molte più cose di dieci anni fa sui rapporti tra schizofrenia ed abuso/dipendenza da sostanze (Minkoff, 2001). Dieci anni di ricerca empirica e di dibattito hanno creato una base di evidenze scientifiche importante, anche se non hanno ancora risolto in maniera soddisfacente i bisogni assistenziali di questa popolazione. Oggi solo il 27% dei pazienti negli USA riceve un trattamento appropriato rispetto al 7% di dieci anni prima (Watkins et al., 2001). Ma molte più conoscenze tecniche per valutare e trattare questi pazienti sono oggi disponibili.

Quale percentuale di individui con schizofrenia abusa di droghe od alcol?

Sappiamo che il numero di pazienti che abusa di alcol o sostanze è molto variabile da Paese a Paese, essendo influenzato da fattori sociali e dalla disponibilità di sostanze sul mercato. In generale le popolazioni di pazienti con diagnosi di schizofrenia che afferiscono ai sevizi psichiatrici hanno tassi doppi di abuso di alcol e sostanze rispetto ai controlli di popolazione generale reclutati nella stessa area geografica. Per i tassi di abuso di alcol lifetime tali percentuali sono dell’ordine del 25 vs. 12% e per le altre sostanze illecite dell’ordine del 15 vs. 7% in Germania (Buhler et al., 2002), dell’ordine del 60% cumulativamente in Australia (Fowler et al, 1998) e negli USA (Swofford et al, 2000). Orientativamente si può pensare che, a seconda della maggiore o minore penetrazione delle sostanze in una società ed a seconda della maggiore o minore protettività del sistema psichiatrico le percentuali oscillino tra il 25 ed il 60% per abuso lifetime e tra il 10 ed il 30% a sei mesi. Per le caratteristiche del nostro Paese le percentuali dovrebbero situarsi a livelli intermedi, configurando comunque una situazione in cui circa 1/5 dei pazienti in ogni momento è in una fase attiva di abuso/dipendenza da sostanze e 2/5 presentano il problema nel corso della vita (Fioritti et al., 1995; Fioritti et al, 1997)

Quali differenze sociali influenzano il consumo di sostanze tra i pazienti schizofrenici?

Sappiamo che esistono forti differenze nell’uso e nei problemi correlati tra aree urbane e rurali (Mueser et al, 2001), tra aree geografiche all’interno dello stesso paese, tra gruppi etnici diversi, con particolare riferimento agli afroamericani negli USA ed agli afrocaribici in Inghilterra (Baker & Bell, 1999). Tutte queste differenze andrebbero accuratamente analizzate e tenute in considerazione nella pianificazione dei servizi.

Le sostanze d’abuso possono causare la schizofrenia?

Gli studi sulla cannabis (Hambrecht & Hafner, 2000) indicano che circa il 13% dei soggetti alla prima ospedalizzazione per schizofrenia ha una storia positiva per abuso di cannabis e che circa un terzo di essi ha usato cannabis prima dei sintomi prodromici ed un altro terzo in contemporanea ai sintomi prodromici stessi. Il problema della causalità potrebbe quindi riguardare un subset del 6-7 % particolarmente vulnerabile al THC o a dosaggi particolarmente alti di THC (Dean et al., 2001).

Più interessanti sono gli studi di visualizzazione cerebrale più recenti che documentano alterazioni molto simili a quelle della schizofrenia a medio-lungo termine in soggetti sani volontari sottoposti ad una assunzione di cocaina e destroamfetamine (Sekine et al., 2001). La questione considerata un tempo chiusa può essere considerata riaperta, almeno per quanto riguarda l’effetto scatenante o peggiorativo di alcune sostanze sulla malattia.

Quali sono i pattern preferiti dell’uso di sostanze da parte dei soggetti con schizofrenia?

Per quanto riguarda i pazienti con diagnosi di schizofrenia si è raccolta in questi anni una letteratura sufficientemente vasta che permette di descrivere adeguatamente prevalenza di comorbilità, preferenze per le sostanze, patterns d’uso, e motivi d’uso. In linea di massima i pazienti schizofrenici tendono a disporsi su tre classi rispetto all’uso di sostanze [cfr. tab. 1]:

(A)pazienti che non abusano,

(B)pazienti che usano alcol e marijuana e

(C)pazienti politossicomani (con preferenza per stimolanti ed allucinogeni)(Cuffel et al., 1993).

 

Tabella 1 - Schizofrenia ed uso di sostanze

Tipo A - Schizofrenia senza abuso di sostanze

-Psicopatologia più grave

- Sintomatologia prevalentemente negativa

- Peggiore adattamento premorboso

- Più pazienti "treatment-resistant"

- Isolamento sociale

- Meno ricoveri

Tipo B - Schizofrenia ed abuso di alcolici e cannabis

- Maschi,

- Più giovani all’esordio

- Psicopatologia meno grave

- Sintomatologia positiva o componente affettiva

- Adattamento premorboso buono

- Meno pazienti sono "treatment-resistant"

- Più ricoveri

- Più giornate di degenza complessive

- Minore compliance

- Frequente coinvolgimento in atti di violenza e imprigionati

- Pattern di assunzione: cronico

- Scarsa percezione di effetti negativi sulla psicopatologia

- Riferiti effetti positivi su ansia, tensione, irritabilità

Tipo C - Schizofrenia e politossicofilia-dipendenza (preferibilmente stimolanti e allucinogeni)

- Maschi,

- Più giovani all’esordio

- Psicopatologia variabile (forme positive e negative)

- Sintomatologia positiva o componente affettiva

- Adattamento premorboso buono

- Meno pazienti sono "treatment-resistant"

- Più ricoveri

- Più giornate di degenza complessive

- Minore compliance

- Molto frequente coinvolgimento in atti di violenza e imprigionati

- Pattern di assunzione: soprattutto nelle fasi iniziali della malattia

- Scarsa percezione di effetti negativi sulla psicopatologia (possibile ruolo scatenante)

- Riferiti effetti positivi su energia ed iniziativa e altri sintomi negativi.

 

 

I pazienti B e C sono più frequentemente maschi, più giovani all’esordio, di solito sono meno gravi in termini assoluti rispetto ai pazienti A, più spesso sono del sottotipo paranoide, con presenza di sintomatologia positiva od affettiva importante (Buhler et al., 2002), con un adattamento premorboso migliore rispetto ai pazienti A (Lysaker et al., 1993) e più raramente vengono definiti "treatment-resistant" (Buckley et al, 1994). Ciononostante i pazienti B e C tendono ad avere più ricoveri, con più giornate complessive di degenza (Haywood et al, 1995), con minore compliance rispetto agli appuntamenti ed alle terapie farmacologiche prescritte (Swofford et al., 2000), più alti tassi di suicidio (Siris, S. G., 2001), minori tassi di occupazione (Buhler et al., 2002) e vengono più frequentemente coinvolti in atti di violenza o vengono imprigionati (Soyka et al., 1994; Smith & Hucker, 1994; Grossman et al, 1995;Munetz et al., 2001).

I pazienti C abusano di stimolanti e/o allucinogeni soprattutto nelle prime fasi di malattia, sin dai c.d. prodromi, spesso con una coesistenza di sintomi negativi e positivi. Hanno un’alta probabilità di essere trattati con altissimi dosaggi di neurolettici e di andare incontro a sequele neurologiche o neuropsicologiche, come discinesie tardive o deterioramento cognitivo (Swofford et al., 2000). Una volta che entrano in trattamento, soprattutto se questo ha caratteristiche assertive (Drake et al, 1998; McHugo et al, 1999) e vengono utilizzati antipsicotici di nuova generazione (Conley et al., 1998; Buckley, 1998;Volavka, 1999), i tassi di uso di sostanze possono decrescere fino a diventare inferiori a quelli della popolazione generale di confronto (Warner et al, 1994).

I pazienti B tendono ad essere i meno gravi in termini assoluti, con migliore adattamento sociale attuale e premorboso e tendono ad avere un pattern d’uso più cronico nel tempo, con minori effetti negativi direttamente percepibili dal paziente ed anzi con qualche effetto percepito positivamente su sintomi come ansia, tensione, irritabilità (Selzer & Lieberman, 1993) e peggiorativi sui sintomi positivi (Baigent et al., 1995).

Per quali ragioni i pazienti con schizofrenia usano sostanze?

Alcuni studi hanno indagato gli aspetti soggettivi dell’uso di sostanze da parte dei pazienti con schizofrenia. Il concetto di automedicazione (Khantzian & Treece, 1985; Dianin, 1996; Hervè, 2000) può spiegare una buona parte dell’uso da parte dei pazienti C della classificazione sopra proposta, soprattutto per quanto riguarda l’effetto energizzante e migliorativo dell’attenzione in soggetti che hanno sintomi negativi (Addington & Duchak, 1997). Altre ragioni comunemente indicate dai pazienti di tipo B sono di tipo voluttuario ricreativo, con effetti particolarmente positivi su aspetti quali ansia, tensione e noia (Warner et al., 1994; Fioritti et al., 1997). Non vanno dimenticati tra le ragioni per l’uso gli effetti collaterali sedativi ed extrapiramidali dei farmaci neurolettici, verosimilmente alla base del massiccio uso di nicotina e caffeina effettuato dai pazienti schizofrenici e sensibilmente diminuito dopo l’introduzione dei nuovi antipsicotici (Fioritti & Ferri, 1997).

Quali sono i principali problemi nella gestione del paziente schizofrenico con abuso/dipendenza da sostanze?

Comunque la si voglia mettere è oramai chiaro che alcuni aspetti generali, in gran parte comportamentali e relazionali, costituiscono il core dei problemi che ci si trova ad affrontare nel percorso clinico del paziente schizofrenico con abuso/dipendenza da sostanze.

In primo luogo l’instabilità del quadro clinico. Pazienti che nonostante fattori prognostici favorevoli, sintomatologia non votata al deterioramento, hanno frequenti scompensi, collezionano ricoveri in serie, non pervengono mai ad una stabilizzazione sintomatologica soddisfacente, fanno immediatamente pensare ad un problema di abuso/dipendenza da sostanze sovrapposto. L’effetto psichico diretto delle sostanze, l’interferenza con la cinetica dei farmaci, gli stress collegati ai comportamenti di abuso, sono tutti fattori che contribuiscono a questo aspetto altamente instabile della schizofrenia con abuso/dipendenza da sostanze.

Classicamente l’abuso di sostanze si associa ad una minore compliance al trattamento farmacologico ed ai trattamenti psichiatrici in generale. E’ abbastanza intuitivo che costellazioni personologiche preesistenti contribuiscano a questo fenomeno. E’ altrettanto intuitivo che chiunque abbia instaurato un rapporto con le sostanze di abuso che per quanto problematico è pur sempre gratificante, almeno per quanto attiene a sensazioni di attivazione, euforia, sollievo o piacere, abbia difficoltà maggiori ad assoggettarsi a trattamenti che, per quanto efficaci su alcuni sintomi bersaglio, comportano effetti collaterali soggettivi molto spiacevoli come sedazione, impotenza, appiattimento affettivo, acatisia, etc….

Per motivi analoghi la ritenzione in trattamento dei soggetti con schizofrenia che abusano o sono dipendenti da sostanze è più problematica e viene spesso invocato un atteggiamento assertivo/direttivo come l’unico possibile per garantire/imporre un trattamento che controlli i sintomi soggettivi e comportamentali di questi pazienti.

Infine, ma non meno preoccupante degli altri aspetti, i soggetti con schizofrenia ed abuso di sostanze hanno tassi di comportamenti auto ed eteroaggressivi notevolmente superiori ai soggetti di pari diagnosi senza abuso di sostanze. Per quanto riguarda gli atti autoaggressivi il suicidio è da tempo considerato un classico evento finale delle storie cliniche di casi di doppia diagnosi (Allebeck & Allgulander, 1990; Siris, 2001). A tale infausto esito vari fattori possono contribuire: la sintomatologia affettiva spesso associata a questi quadri, i disturbi depressivi secondari all’uso di sostanze, il progressivo deterioramento sociale che entrambe le affezioni comportano, il rischio indipendente di suicidio che entrambe le affezioni comportano.

Per quanto attiene agli atti aggressivi vari studi di popolazione generale (Swanson et al, 1990; Stueve & Link, 1997), di popolazioni cliniche (Tardiff, 1998) e giudiziarie (Eronen et al., 1998) hanno dimostrato come i disturbi psicotici comportino un rischio autonomo di compiere atti aggressivi all’incirca doppio rispetto agli altri disturbi psichiatrici (con l’esclusione del disturbo antisociale di personalità) ed alla popolazione generale, mentre l’uso di sostanze (in particolare alcol e stimolanti) comporta rischi ancora maggiori. E’ incerto se la compresenza di entrambe le condizioni implichi un rischio additivo o esponenziale, ma è certo che si tratta di una sottopopolazione ad alto rischio comportamentale.

Come tradurre queste conoscenze in pratiche operative?

Uno dei vantaggi che il sistema italiano può sperimentare nell’affrontare il problema della integrazione dei trattamenti nella schizofrenia con abuso/dipendenza da sostanze consiste nel poter prendere atto dei risultati delle valutazioni empiriche altrove condotte su esperienze di questo tipo.

Presto tramontata la stagione dei trattamenti c.d. seriali ed in parallelo (Solomon et al., 1993), che non fornivano nessuna reale integrazione di conoscenze e competenze, tutti gli anni ’90 negli USA sono stati dedicati alla sperimentazione di programmi c.d. integrati.

All’inizio degli anni ’90 il gruppo della Dartmouth University lanciò un programma congiunto tra tredici siti sperimentali che possedevano alcune caratteristiche di integrazione di competenze psichiatriche e per le tossicodipendenze e che avevano fornito risultati promettenti su poche unità di casi in trattamento (Drake et al, 1993). I programmi furono finanziati per una maggiore quantità di casi e per un più lungo periodo e la valutazione empirica che fu fatta ad alcuni anni di distanza portò a "disappointing results" (Drake et al., 1998), risultati molto deludenti. La maggior parte degli interventi di integrazione non forniva risultati apprezzabilmente superiori ai trattamenti paralleli. Un progetto molto ambizioso e ben descritto del gruppo di Bellack (Bellack & Gearon, 1998; Bellack et al., 1999) non ha dato ugualmente i risultati inizialmente sperati (Bennett et al., 2001), così come un progetto sperimentale di case management integrato con elementi di trattamento delle tossicodipendenze (Havassy et al., 2000). Anche una "Cochrane review" su sei studi randomizzati ha dato risultati molto deludenti (Ley et al., 2001).

Questi studi pongono con forza il problema di quale tipo di integrazione sia veramente realizzabile in questi programmi sperimentali. Nella maggior parte dei casi sopra citati si trattava di aggiunte a programmi psichiatrici di attività tipiche delle tossicodipendenze (gruppi tipo AA, counselling, esame delle urine). Di fatto si trattava di programmi fondamentalmente in parallelo, quanto a filosofie di intervento. Tale storia di fallimenti ha se non altro indicato a mio avviso su quale strada tentare la integrazione degli interventi.

Un intervento sulla schizofrenia può oggi dirsi integrato se:

  1. in un’unica èquipe (meglio ancora se nell’operatore di riferimento o case manager)
  2. sono disponibili ed integrati in maniera non contraddittoria
  3. interventi di provata efficacia sugli aspetti tradizionali del trattamento della schizofrenia e su quelli tipici della schizofrenia con abuso/dipendenza da sostanze quali:
    1. monitoraggio ravvicinato delle condizioni cliniche e dell’uso dei farmaci
    2. capacità di riconoscimento dell’uso di sostanze e di counselling al paziente
    3. valutazione e trattamento motivazionale, sia sull’uso di sostanze che sulla compliance ai farmaci,
    4. monitoraggio dell’uso di sostanze (ad es.: mediante screening urinari),
    5. possibilità di accesso a reparti psichiatrici o a strutture residenziali dotate di competenze e capacità di intervento sull’uso di sostanze.
    6. atteggiamento direttivo/assertivo
    7. atteggiamento fortemente votato alla riabilitazione ed alla integrazione sociale

Questi programmi sono stati generalmente realizzati negli USA come progetti dedicati, con forte investimento in termini di personale e di formazione ed alle verifiche empiriche hanno dato buoni risultati su alcuni parametri (uso di sostanze, compliance, ritenzione in trattamento, lavoro, aggressività, soddisfazione) ma non su altri (sintomatologia, disabilità) (Drake et al., 2000).

E’ possibile costruire servizi integrati in Italia?

Se i fattori cruciali che condizionano il successo delle risposte cliniche ai bisogni dei pazienti schizofrenici che abusano di sostanze sono quelli sopra descritti e discussi occorre chiedersi quale corrispondenza abbiano nelle pratiche dei servizi italiani e se sia auspicabile e praticabile integrarli.

Non va dimenticato che questa popolazione costituisce una parte minoritaria, per quanto problematica ed impegnativa, dell’intera utenza dei servizi pubblici e privati e che modificare radicalmente lo statuto e la missione dei servizi psichiatrici e per le tossicodipendenze in funzione di una minoranza di soggetti farebbe correre il rischio di snaturarli e distoglierli dai loro compiti istituzionali. Come spesso sottolineato(Solomon et al., 1993; Solomon & Fioritti, 2002), i servizi psichiatrici si sono storicamente strutturati sul paradigma della presa in carico globale, focalizzata sulla risposta alla disabilità, con un atteggiamento che è stato definito paternalista. I servizi per le tossicodipendenze si sono invece strutturati sul paradigma del counselling, focalizzato sulla responsabilizzazione e con un atteggiamento che per analogia potremmo definire "fraternalistico". Ritengo fondamentale che tali impostazioni che si sono rivelate fruttuose e vincenti per la gran parte dell’utenza afferente ai rispettivi servizi debba essere mantenuta e che il processo di integrazione richiesto dai bisogni di questa nuova popolazione con doppia diagnosi non debba snaturare le caratteristiche metodologiche originarie di questi servizi (Nizzoli, 1996).

Detto questo va a mio avviso ribadito con altrettanta chiarezza la necessità di operare un cambiamento nei servizi per favorire la collaborazione e l’integrazione, una volta ben definita l’area in cui deve esercitarsi.

Per varie ragioni, soprattutto di cultura sociale ed organizzativa, ritengo irrealizzabile in Italia la costituzione di team dedicati di doppia diagnosi:

  1. In primo luogo non esistono, se non sporadicamente affinatesi spontaneamente, le competenze specifiche necessarie a costruire team di questo tipo;
  2. La suddivisione organizzativa in Aziende USL di 250-400.000 abitanti rende poco efficiente e redditizia la costituzione di centri superspecialistici, se si eccettua il caso di comunità specializzate che possono essere anche sovraziendali;
  3. L’approccio di sanità pubblica e le conseguenti modalità di finanziamento delle AUSL a quota capitaria presenti in Italia obbligano alla costituzione di servizi dichiaratamente generici, che hanno come missione la risposta a tutti i bisogni della popolazione di riferimento. L’attivazione di servizi superspecialistici è oltremodo difficile e riguarda al momento patologie molto meno disabilitanti e comunque meno legate alla esecuzione di programmi collegati alla vita del territorio di provenienza (ad es.: anoressia). Tengo a precisare di essere tra coloro che conferiscono alla parola "generico" in questo senso, un significato altamente positivo (Burns, 2001), e che guardano alla creazione di servizi superspecialistici con una certa diffidenza, per l’inevitabile investimento di risorse ingenti in aree limitate, il rischio di frammentazione dei percorsi di cura e di induzione della domanda per la stessa esistenza di una risposta.

La soluzione a mio avviso più praticabile è quella che prevede la possibilità di attivare nei servizi generici già esistenti competenze superspecialistiche basate sui fattori di cura di dimostrata efficacia più sopra descritti.

Il primo e forse il più importante è dato dall’assertività. Si tratta di un atteggiamento direttivo che per quanto prescrivibile e manualizzabile (Stein & Test, 1980) affonda le sue radici in variabili culturali. Il sistema psichiatrico italiano è uno dei meno assertivi del mondo. In altri lavori comparativi si è dimostrato che il ricorso alla coercizione formale da parte degli psichiatri italiani sia 5-10 volte inferiore rispetto a quanto avviene nei paesi anglo-sassoni (Fioritti et al., 2002) e come il paziente mantenga in ogni fase del suo percorso terapeutico una contrattualità ed una capacità di negoziazione molto più elevate rispetto agli altri paesi. Una revisione delle procedure di ricovero obbligatorio nei 15 paesi della Comunità Europea ha evidenziato come le procedure stesse per i TSO in Italia siano di gran lunga le più garantiste e le meno coercitive d’Europa (Fioritti, 2002). Queste caratteristiche rendono improponibile l’attuazione tout-court di programmi di presa in carico assertiva/direttiva, tipo l’ACT e pongono l’esigenza di una riflessione culturale sui limiti di direttività e di controllo che i servizi possono avere.

Il secondo punto cruciale consiste a mio avviso nella integrazione di specialisti per le tossicodipendenze nel team psichiatrico. Data la buona integrazione, nelle regioni in cui si è verificata, degli psichiatri nei servizi per le tossicodipendenze, è pensabile che la stessa cosa possa avvenire senza grosse fratture. Gli specialisti per le tossicodipendenze dovrebbero diventare gli specialisti/consulenti dei servizi psichiatrici:

  1. sulla valutazione tossicologica del paziente ed il monitoraggio dell’abuso/dipendenza,
  2. sulle tecniche di counselling e sul rapporto col paziente con gravi tratti di carattere,
  3. sui trattamenti motivazionali e finalizzati alla compliance (Solomon & Fioritti, 2002)
  4. sull’organizzazione del monitoraggio dello stato tossicologico nei reparti e sulle tecniche di intervista tossicologica e motivazionale nei contesti ospedalieri.

Il terzo punto cruciale consiste a mio avviso nella trasformazione di alcuni contesti residenziali psichiatrici e comunitari per le tossicodipendenze al fine di renderli idonei al trattamento ed alla riabilitazione dei pazienti con doppia diagnosi (Sacks et al, 1998). Si tratta di intraprendere la strada che porta alcune strutture residenziali psichiatriche ad essere competenti sul trattamento motivazionale e farmacologico delle dipendenze, a partire dalla rigida esclusione di tutti i pazienti con problemi di abuso o dipendenza dai criteri di ammissione alle residenze stesse. In secondo luogo, per pazienti che siano in grado di entrare in un progetto riabilitativo più ambizioso di impronta più psicopedagogia, possono e devono essere studiate delle comunità per tossicodipendenti che sappiano modulare la stimolazione e che siano in grado di riconoscere e gestire sintomi psicotici non gravi.

Ed infine il quarto punto su cui costruire una integrazione efficace dovrebbe essere quello di effettuare una formazione congiunta tra servizi di salute mentale e delle tossicodipendenze, formazione che deve affrontare sia l’aspetto culturale, delle conoscenze teoriche ed applicative di entrambi i settori, sia gli atteggiamenti emotivi, i pregiudizi e le resistenze più o meno consce che il lavoro con pazienti "diversi" dai soliti comporta.

Nella misura in cui saremo in grado di comprendere questi cambiamenti, di integrare le conoscenze scientifiche dei vari settori e di trasformarle in pratiche ben organizzate e scientificamente ed eticamente fondate, potremo dire di avere realizzato una integrazione al servizio di una utenza bisognosa e spesso negletta.

BIBLIOGRAFIA

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