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Dal fascicolo 13 volume 1 2007

Comportamenti di Autoferimento, Uso di Sostanze e Disturbo Borderline

Irene Sarno, Fabio Madeddu

Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Inviare corrispondenza a:

Prof. Fabio Madeddu, Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Edificio U6, Piazza dell’Ateneo Nuovo 1, 20126, Milano. Tel. 02-6448.3757, Fax. 02-6448.3705, e-mail: fabio.madeddu@unimib.it

Riassunto

La letteratura empirica attesta una sempre più allarmante diffusione dei comportamenti di autoferimento o self-injurious behaviors (SIBs), definiti come comportamenti volti alla distruzione o alterazione deliberata e diretta dei tessuti corporei, senza una cosciente intenzione suicidaria, ma che determinano lesioni dei tessuti abbastanza gravi da essere evidenti (Favazza, 1998). Nel presente lavoro saranno discussi alcuni aspetti problematici relativi all’autoferimento, quali la sua possibile collocazione diagnostica e la sua frequente co-occorrenza con il Disturbo da Uso di Sostanze (DUS) e il Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Alcuni aspetti dell’autoferimento, come l’impulsività, il deficit della regolazione affettiva, l’eziopatogenesi prevalentemente traumatica, la funzione automedicativa, pongono subito in evidenza alcune aree di sovrapposizione con i due già citati disturbi di Asse I e II. L’alta comorbilità tra DBP, SIBs, DUS potrebbe dunque dipendere da diversi fattori, che portano il soggetto a mettere in atto comportamenti autodistruttivi diversi e interscambiabili per fronteggiare gli stati emotivi negativi.

Parole chiave: autoferimento, dipendenza, disturbo borderline di personalità.

Abstract

Empirical evidence proves a growing diffusion of self-injurious behaviours (SIBs), which can be defined as the direct, deliberate destruction or alteration of one’s own body tissue, with no conscious suicidal intent (Favazza, 1998).

The present paper discusses some problematic aspects relating to self-injurious behaviours, such as diagnostic framework and frequent co-occorrence with substance use disorders (SUDs) and borderline personality disorder (BPD). Some of SIBs’ features such as impulsivity, emotional disregulation, the role of trauma on its etiopathogenesis, its function as self-medication strategy, suggest some degree of overlap with other Axis I and Axis II disorders.

Therefore the high comorbidity rates of SIBs, SUDs and BPD may have a multi-factorial basis, that may lead the patient to act interchangeably different self-injurious behaviours in order to face negative emotional states.

Keywords: self-injurious behavior, addiction, borderline personality disorder.

Résumé

La littérature empirique atteste une diffusion de plus en plus inquiétante des comportements d’automutilation ou self-injurious behavior (SIBs), définis comme comportements visant à la destruction ou altération volontaire et directe des tissus corporels, sans qu’il y ait une consciente volonté suicidaire, qui déterminent pourtant d’assez graves et évidentes lésions des tissus. Dans ce travail on discutera certains aspects problématiques de l’automutilation, comme sa possible position diagnostique et sa fréquente co-occurrence avec le Trouble d’ Abus de substances ou le Trouble Borderline de Personnalité. Quelques aspects de l’automutilation, comme l’impulsivité, le déficit de régulation affective, l’étiopathogénèse essentiellement traumatique, la fonction d’automédication, mettent tout de suite en évidence certaines zones de superposition avec les deux troubles déjà cités de Axe 1 et 2. Donc la grande co-morbidité entre DBP, SIBs et DUS pourrait dépendre de différents facteurs, qui poussent le sujet à adopter des comportements différents et interchangeables pour faire face aux états émotifs négatifs.

Mots clés: automutilation, dépendance, trouble borderline de personnalité.

1. Introduzione

Alcune difficoltà legate all’approfondimento dello studio dei comportamenti di autoferimento derivano dalla generale confusione teorica e clinica che circonda l’argomento. Il termine di per sé evoca infatti elementi che appartengono al pensare comune, ma che spesso veicolano credenze erronee e falsi miti.

Fino agli anni '80, gli psichiatri hanno pubblicato sporadiche casistiche e studi clinici sull'autoferimento, ma l'argomento non ha ottenuto dignità accademica o riconoscimento pubblico. L'autoferimento veniva minimizzato nell'atto di tagliuzzarsi i polsi, erroneamente identificato nei tentativi di suicidio, considerato come un semplice sintomo (frequentemente del disturbo borderline di personalità) e scorrettamente rappresentato dai media e dall'opinione pubblica. La situazione muta drasticamente nel 1987, dopo la pubblicazione del libro di Favazza intitolato Bodies Under Siege: Self-Mutilation in Culture and Psychiatry (1987). Era il primo libro che analizzava tale comportamento nel suo complesso e che riusciva nell'intento di legittimare il fenomeno nei centri accademici.

I comportamenti di autoferimento o Self-Injurious Behaviors (SIBs)sono successivamente sempre più diventati oggetto di osservazione clinica e di ricerca. Esiste un certo consenso sul fatto che tali comportamenti siano sempre più frequenti, tuttavia ancora oggi non esiste chiarezza su cosa debba definirsi un comportamento di autoferimento, su quale sia il termine più adeguato per indicare tale fenomeno, sui fattori di rischio e di protezione, sulle funzioni che tali comportamenti perseguono, su quali siano gli strumenti più adatti per valutarli e quali i modelli per comprenderli.

Una prima stima dell’incidenza del fenomeno risale agli studi di Favazza e Conterio del 1988, i quali stimarono la prevalenza annuale del fenomeno nella popolazione generale pari a 750 per 100000 soggetti, che saliva a 1800 su 100000 soggetti quando presi in considerazione solo i soggetti d’età compresa tra i 15 ed i 35 anni, età in cui il fenomeno dovrebbe fare la sua comparsa e raggiungere il picco massimo di frequenza. Dieci anni dopo, nel 1998 Briere e Gil trovarono che il 4% della popolazione generale (su un campione di 927 soggetti) ed il 21% della popolazione clinica (su un campione di 321 soggetti) riportava episodi di Self-Injury (SI). Ancora più impressionante è il dato proveniente da altri studi che hanno utilizzato campioni di studenti della scuola superiore o universitari, che attesta una diffusione del SI pari al 35% in uno studio (Gratz, 2001) ed al 12% e 14% (rispettivamente: Favazza, DeRosear e Conterio, 1989; Ross e Heath, 2002) in altri due studi, mostrando come questa sia la popolazione più a rischio.

La diffusione del SI varia molto nelle diverse popolazioni prese in considerazione. Nella popolazione psichiatrica, in particolare, l’incidenza è ben più alta che nella popolazione generale, e si colloca in un range compreso tra il 4.3% ed il 20% (Langbehn e Pfohl, 1993). Quando la popolazione psichiatrica è limitata agli adolescenti l’incidenza sale drammaticamente, arrivando al 41% nello studio di Darche (1990) ed al 61% nello studio di DiClemente e collaboratori (DiClemente, Ponton e Hartley, 1991).

Diversi autori nel discutere questi risultati sottolineano, comunque, la difficoltà di definizione di tali comportamenti, dal momento che i Self-Injurious Behaviours (SIBs) sono una categoria complessa ed eterogenea, sotto la quale possiamo includere cose molto diverse fra loro (cfr. Herpertz, 1995). E’ per questo che si è fatto uso, in lingua inglese, di termini diversi per far riferimento a categorie a volte identiche, ma spesso non del tutto equivalenti, così come a volte con lo stesso termine si è fatto riferimento ad aspetti diversi del comportamento. In lingua inglese il concetto di autoferimento, nelle sue svariate sfumature e declinazioni, è stato reso con almeno 17 etichette, come sottolineato in un articolo del 1984 di Kahan e Pattison.

In questa trattazione abbiamo scelto di utilizzare sia il termine italiano "autoferimento" quanto l’inglese "self-injurious behaviors" (SIBs) o "self-injury" (SI); secondo Herpertz (1995) questi termini risulterebbero infatti più appropriati, rispetto a self-mutilation (SM) o self-harm (SH), per indicare forme moderate di lesione corporea, quali il tagliarsi, bruciarsi o incidersi la pelle. Il concetto di self-injury o di autoferimento offre il vantaggio di essere più descrittivo e neutrale di altri termini, in quanto non fa esplicito riferimento al valore dell’atto o alle motivazioni sottostanti.

Una definizione attualmente usata indica come il Self-Injury (SI) superficiale/moderato sia un comportamento volto alla distruzione o alterazione deliberata e diretta dei tessuti corporei, senza una cosciente intenzione suicidaria, ma che determina lesioni dei tessuti abbastanza gravi da essere evidenti. "In questa definizione il termine deliberato implica intenzioni coscienti più che guidate da motivazioni inconsce" (Simeon e Favazza, 2001).

Un aspetto molto dibattuto e controverso relativo all’autoferimento resta l’esistenza di una doppia ipotesi sulla sua collocazione diagnostica. Alcuni autori considerano i SIBs come un sintomo di alcuni disturbi sia di asse I che II; alcuni aspetti dell’autoferimento, come l’impulsività, il deficit della regolazione affettiva, l’eziopatogenesi prevalentemente traumatica, infatti, pongono subito in evidenza alcune aree di sovrapposizione con alcuni disturbi, come il Disturbo da Uso di Sostanze (DUS) e il Disturbo Borderline di personalità (DBP). Altri autori li considerano come comportamenti con caratteristiche e decorso specifici che legittimano l’esistenza di una categoria diagnostica autonoma. Autori come Gunderson e Singer (1975) e Gardner e Cowdry (1985), ad esempio, concettualizzano il SI come una caratteristica associata al DBP, in accordo con il DSM IV che include tali comportamenti come criterio diagnostico. Tuttavia un numero sempre crescente di ricerche mostra l’esistenza di SIB superficiale/moderato in soggetti senza diagnosi di DBP (per es., Chelminski e Zimmerman, 2003; Ross e Heath, 2002). Il comportamento autolesivo, se considerato come sintomo, non si presenta esclusivamente in associazione al DBP, ma potrebbe essere associato a tutti i disturbi di asse II e a diversi disturbi di asse I, tra cui uno dei più frequentemente associati è il Disturbo da Uso di Sostanze (DUS) (Herpertz, 1995). Infine, altri dati suggeriscono che il SIB potrebbe essere un disturbo comportamentale o una sindrome clinica a sé stante (Favazza e Rosenthal, 1993; Kahan e Pattison, 1984; Muehlenkamp, 2005).

Un aspetto correlato al problema della definizione e della collocazione diagnostica è quello per cui, come per tutti quei concetti o disturbi psicologici che non sono stati ancora interamente compresi e che hanno iniziato da poco ad attrarre l’attenzione, c’è una certa tendenza a sovradiagnosticare o a diagnosticare in modo scorretto il SI.

2. Autoferimento come sindrome a sé stante: Disturbo del Controllo degli Impulsi o Dipendenza comportamentale?

L’idea che i comportamenti di autoferimento possano costituire una sindrome indipendente è presente sin dalle origini della storia della ricerca in tale campo; la prima formulazione in tal senso è quella di Graff e Mallin del 1967, i quali introducono il concetto di "wrist-cutting syndrome" ("sindrome da taglio dei polsi"). Successivamente, Kahan e Pattison (1984) sulla base di una review condotta sulla letteratura presente fino a quel momento concludono che "i dati clinici sono sufficienti per postulare l’esistenza di un’entità diagnostica", cui loro danno il nome di Deliberate Self-Harm Syndrome (DSH).

La formulazione più recente, completa e formalizzata del SIB come sindrome proviene dagli studi di Favazza e Rosenthal (Favazza e Rosenthal, 1990, 1993; Favazza, 1996), i quali propongono la diagnosi di "Repetitive Self-mutilation Syndrome" (RSM) per discriminare i gesti autolesivi episodici da quelli ripetitivi. I ricercatori hanno sottolineato, infatti, come il criterio della ripetitività sia fondamentale per poter pensare ad una sindrome a sé stante ed hanno ipotizzato che cinque o più comportamenti di autoferimento sia il cut-off per poter considerare il SIB ripetitivo. La letteratura empirica, infatti, mostra come i soggetti che mettono in atto SIB ripetitivo riportano in media 50 episodi, anche se alcuni riferiscono anche più di 400 gesti autolesivi (Favazza e Conterio, 1989; Ross e McKay, 1979). La diagnosi è suffragata dall’osservazione dell’esistenza di un pattern di sintomi abbastanza specifico ed una presentazione relativamente chiara delle caratteristiche associate (per es. età d’insorgenza, fattori precipitanti, decorso). Inoltre, come vedremo più avanti, il ruolo centrale dell’impulsività nel comportamento di autoferimento porta alcuni Autori a proporre l’inclusione della RSM nell’asse I del DSM tra i Disturbi del Controllo degli Impulsi; pertanto questa è stata presentata nel formato DSM, e prevede i seguenti criteri (Simeon e Favazza, 2001):

  1. Preoccupazione relativa al danneggiarsi fisicamente;
  2. Fallimento ricorrente a resistere all’impulso di danneggiarsi fisicamente, che esita nella distruzione o alterazione dei tessuti corporei;
  3. Aumento della tensione immediatamente prima dell’atto di autoferimento;
  4. Gratificazione o senso di sollievo fisico e psicologico durante e immediatamente dopo l’atto di autoferimento;
  5. L’autoferimento non è associato ad un’intenzione suicidaria e non è agito in risposta ad un delirio, al ritardo mentale, allucinazione o idea prevalente a contenuto transessuale.
  6. Turner (2002) propone una classificazione sostanzialmente simile, fatta eccezione per la presenza dei due seguenti criteri diagnostici:

  7. Impulsività in altre aree potenzialmente dannose per il soggetto (ad es. abuso di alcol o sostanze; disturbi alimentari; comportamenti ad alto rischio o pericolosi come la guida spericolata o il coinvolgimento in relazioni interpersonali violente);
  8. Umore generale pervasivamente depresso o ansioso.

Muehlenkamp (2005), successivamente, basandosi sulle proposte di criteri diagnostici presentati in letteratura, propone di aggiungere altri due criteri:

  1. Esiste un pattern ripetitivo di autoferimento per cui devono essere stati presenti 5 o più gesti autolesivi (il metodo può essere differente nei diversi episodi);
  2. L’autoferimento causa disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre aree importanti del funzionamento.

Possiamo osservare come, nelle proposte appena elencate, siano presenti alcuni importanti aspetti. In primo luogo, come già accennato, tutti i ricercatori ritengono una caratteristica peculiare del comportamento la presenza d’impulsività, che, in un caso, viene concettualizzata esattamente come nel criterio diagnostico numero 4 del DBP ("impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto"). In secondo luogo, viene presa in considerazione la presenza di altri comportamenti impulsivi, tra cui l’abuso di sostanze (Turner, 2002); infatti, elemento che approfondiremo più avanti, esiste una forte correlazione tra i SIBs ed altre forme di dipendenza.

Il problema dell’impulsività ci introduce direttamente alle questioni relative alla dipendenza. Ad esempio, secondo Goodman (2004), la dipendenza può essere definita "una condizione in cui un comportamento, che può funzionare sia per procurare piacere che per alleviare affetti dolorosi, è impiegato all’interno di un pattern caratterizzato da due aspetti chiave dell’impulsività: 1) fallimento ricorrente nel controllare il comportamento; 2) perseverazione nel comportamento nonostante le sue conseguenze significativamente dannose".

Diversi autori descrivono, infatti, i comportamenti autolesivi come strategie di coping che, per quanto disadattive, aiutano a gestire stati emotivi percepiti come intollerabili (ad es. Turner, 2002; Zila e Kiselica, 2001). Una delle principali funzioni del comportamento, sia considerato come sintomo che come sindrome, è quello di generare un temporaneo sollievo da stati emotivi negativi. L’effetto di rinforzo provocato dal comportamento potrebbe determinare l’instaurarsi di un’abitudine comportamentale, se non di una vera e propria dipendenza (Bo, 2005; Rosemary, 1996). L’autoferimento, sebbene "superficiale o moderato", può facilmente sfuggire al controllo del soggetto a causa dei rinforzi che offre: il senso di sollievo e la modulazione affettiva garantita dall’automutilazione la rendono infatti una potente forma di automedicazione (Nixon, Cloutier, Aggarwal, 2002).

Sono gli stessi autoferitori che spesso percepiscono e descrivono il comportamento di autoferimento come una forma di dipendenza. In uno studio di Favazza e Conterio (1989) circa il 71% dei soggetti intervistati considerava l’autoferimento come una dipendenza. Tantam e Whittaker (1992) affermano a questo proposito che l’autolesionismo ripetitivo dovrebbe essere considerato una dipendenza comportamentale più che l’espressione di un disturbo più ampio.

Turner (2002), uno dei maggiori sostenitori dell’ipotesi della dipendenza comportamentale, ritiene che la sindrome del SI possa essere a tutti gli effetti trattata come una dipendenza. Riporta, infatti, che secondo il dizionario Webster la dipendenza è "dedicarsi o arrendersi abitualmente e ossessivamente a qualcosa". La dipendenza è "un bisogno compulsivo di una sostanza che crea un’abitudine". Le dipendenze, in realtà, possono riguardare sia le sostanze (ad es. alcol, cocaina ed eroina) sia alcuni comportamenti (ad es. shopping, gioco d’azzardo). Se ci atteniamo a questa definizione il SI può essere definito una dipendenza in quanto coinvolge comportamenti che, con il tempo, creano un’abitudine, che hanno una qualità ossessiva e che richiedono nel tempo un aumento di quantità e frequenza. L’autoferimento si configura come una risposta automatica cui i self-injurers non possono sottrarsi, anche a causa del rilascio di oppiacei endogeni, che finiscono per creare un "ciclo di dipendenza e astinenza" (Bo, 2005).

Proprio questo elemento ci consente di fare un ulteriore paragone tra dipendenza da sostanze e dipendenza comportamentale. Il SI infatti sembra rispondere ai criteri individuati già nel 1964 da Chein per la dipendenza da sostanze, ovvero: dipendenza fisica, craving, coinvolgimento personale totale.

Secondo Turner (2002), la somiglianza tra dipendenza da sostanze e SI può essere spinta a tal punto da ipotizzare una futura inclusione del SI nel DSM con un set di criteri modellato su quello dell’abuso e della dipendenza.

3. Autoferimento come sintomo

I comportamenti autolesivi in generale ed i SIBs in particolare, si manifestano comunemente in comorbilità con altri disturbi, tanto di asse I quanto di asse II. Favazza (1996) afferma che il SI episodico può essere una caratteristica o un sintomo di diversi disturbi mentali.

Per quanto riguarda l’asse I, in letteratura sono state trovate nei soggetti con SI, alte percentuali di Depressione Maggiore, Disturbi d’ansia, Uso di Sostanze, Disturbo Postraumatico da Stress (van der Kolk et al., 1993; van der Kolk, 1994), Disturbi Alimentari, Schizofrenia (Haw, Hawton e Houston, 2001; Romans et al., 1995; Zlotnick, Mattia e Zimmerman, 1999), Disturbi Dissociativi (Briere e Gil, 1998), Disturbi del Controllo degli Impulsi, Ritardo Mentale ed altre condizioni organiche (Taiminen et al., 1998). Sull’asse II gli autoferitori hanno ricevuto diagnosi in ognuno dei disturbi di personalità (Herpertz, Sass e Favazza, 1997) ma prevalentemente Disturbo Borderline di Personalità (Casillas e Clark, 2002; Stanley et al., 2001; Zlotnick et al., 1999), Disturbo Antisociale di Personalità (Taiminen et al., 1998), e Disturbo Istrionico di Personalità (Herpertz, 1995).

Dunque, come detto, molti dati descrittivamente pongono la presenza dei SIBs come sintomo di disturbi sia di Asse I sia di Asse II.

3.1 Autoferimento e Uso di Sostanze

Come osservato precedentemente, tra i disturbi di asse I maggiormente associati ai SIBs troviamo l’abuso e la dipendenza da sostanze. Abbiamo già visto come la letteratura sui SIBs descriva spesso questi comportamenti come una forma di dipendenza, che condivide con la dipendenza da sostanze elementi quali la funzione automedicativa, aspetti fenomenologici (tolleranza, astinenza, uso compulsivo) e l’aspetto dell’impulsività. Non sorprende pertanto trovare dati descrittivi che confermano tale associazione, sia in campioni di autoferitori che di abusatori di sostanze.

Già nello studio di Rosenthal et al. del 1972 gli autori hanno osservato che circa la metà dei cutters abusava di droghe (soprattutto marijuana) ed alcol. Da un’indagine retrospettiva di Stocks e Scott (1991) emerge che il Disturbo Borderline di Personalità e l’abuso di droga costituiscono i due elementi più frequentemente associati al comportamento autolesivo, anche se ancora, come vedremo, non è stata del tutto compresa tale associazione.

Herpertz (1995) osserva il sintomo dei SIBs in un campione prevalentemente femminile di pazienti psichiatrici e tra le diagnosi di asse I trova che i Disturbi Alimentari (DA) erano di gran lunga la diagnosi più diffusa (54%), seguita dal DUS (33%). Questo dato, comunque significativo, deve essere letto alla luce del fatto che diversi autori affermano come nella popolazione femminile si ritrovi quale diagnosi prevalente in campioni di autoferitori più frequentemente il DA, laddove nella popolazione maschile risulta più frequente il DUS.

Benché la comorbilità tra DUS e SI sia un dato assodato in letteratura, non sono molte le ricerche empiriche che si sono focalizzate sullo specifico comportamento di autoferimento come precedentemente definito. Se consideriamo la categoria più generale dei comportamenti autodistruttivi (ad es. autoavvelenamento o self-poisoning e autodanneggiamento o self-harm) al cui interno troviamo i SIBs, anche in questo caso la ricerca ha trovato una forte associazione tra i comportamenti autolesivi e l’abuso di sostanze. Alcuni autori osservano come circa la metà delle persone che arriva nei pronto soccorsi in seguito ad un episodio di Self Harm (SH) abbia consumato alcol immediatamente prima o durante l’episodio di SH (Horrocks et al., 2003) e circa un quarto dei soggetti che manifestano comportamenti autolesivi riceve anche una diagnosi vera e propria di abuso di alcol (Haw et al., 2001).

Per quanto riguarda invece le ricerche condotte su campioni di abusatori di sostanze, queste hanno fornito dati descrittivi inequivocabili relativi all’associazione tra i due comportamenti, ma utilizzano modelli teorici differenti per spiegare la co-occorrenza.

Secondo alcuni autori la forte associazione tra SIB e DUS potrebbe essere spiegata da un modello causale indiretto per il quale l’abuso di alcol può agire da fattore di rischio per lo sviluppo o per la slatentizzazione del SI (Moggi, 2005; Mueser, Drake e Wallach, 1998). Ross e McKay (1979), ad esempio, avevano proposto di considerare l’ingestione di droghe e alcol un comportamento autolesivo e ritengono che lo stato indotto dall’assunzione di droghe possa portare ad episodi di SI a causa della compromissione del giudizio, della riduzione della percezione del dolore e della stimolazione della fantasia. L’associazione tra abuso di alcol e SI potrebbe dunque riflettere il ruolo disinibitorio dell’alcol (Hawton et al., 2004). A conferma di ciò, Evans e Lacey (1992) hanno trovato che quasi il 25% di un campione di 50 donne in trattamento per abuso di alcol riportava SI. Evren e Evren (2005), in modo simile, hanno osservato che in un campione di 136 soggetti di sesso maschile dipendenti da sostanze (alcol e droghe), il 34.6% (N=47) riportava anche SI. In particolare, il rischio di mettere in atto comportamenti autolesivi è risultato di 3.5 volte maggiore nel sottogruppo di soggetti dipendenti da droghe rispetto a quelli dipendenti dall’alcol.

Secondo altri autori l’associazione tra i due disturbi potrebbe essere ricondotta ad un modello a ‘fattore comune’ (Moggi, 2005), secondo il quale l’associazione può essere spiegata dalla presenza di fattori eziologici comuni al SI e al DUS. Zlotnick et al., ad esempio, hanno ritrovato che la maggior parte dei soggetti abusatori di sostanze (74%) riportava almeno un evento traumatico nella propria vita e che questi soggetti erano quelli a rischio maggiore per il SI (Zlotnick et al.,1997). Diversi autori suggeriscono in modo analogo che anche il SI potrebbe avere le sue radici in una storia di abuso infantile (ad es. Favazza, 1998). In ogni caso il SI sembra essere associato ad esperienze di vita precoci difficili e stressanti; gli adulti che sono stati cronicamente traumatizzati durante l’infanzia potrebbero usare il SI per modulare le relazioni interpersonali (Saxe, Chawla, van der Kolk, 2002).

Bisognerebbe capire attraverso altri studi come i pazienti dipendenti da sostanze imparino a fronteggiare le esperienze negative infantili anche attraverso il SI in età adulta. In generale, alcuni autori mostrano come l’assunzione di alcol potrebbe essere considerata una strategia di coping per alleviare situazioni di stress, in modo particolare in soggetti con difficoltà nella comunicazione e verbalizzazione delle emozioni (alessitimia); l’uso di sostanze potrebbe servire a facilitare i contatti personali verbali ed emotivi ed il SI potrebbe servire a distrarre il soggetto dall’ esperienza interna di stress (Farber, 1997; Rybakowski et al., 1988). Queste osservazioni sono in linea con la già citata ipotesi dell’automedicazione (Khantzian, 1985, 1995). Infatti, gli autoferitori, in modo analogo agli abusatori di sostanze, sembrano utilizzare la propria dipendenza per automedicarsi. Nell’ipotesi dell’automedicazione Khantzian afferma anche che la scelta di una specifica sostanza avviene sulla base degli effetti che questa produce nel ridurre sentimenti inaccettabili o per modificare stati emotivi indesiderati. Così la cocaina e le amfetamine potrebbero essere scelte per le proprietà eccitanti da chi vuole una maggiore stimolazione, mentre l’alcol e gli oppiacei possono essere scelti da chi desidera sfuggire ad emozioni intollerabili. Il SIB può assolvere entrambe le funzioni, stimolante e calmante, in quanto in letteratura viene mostrato come possa essere sia uno modo per procurarsi una stimolazione e sfuggire alla depressione, al senso di vuoto ed alla sensazione di "morte" interiore, quanto un modo per cercare sollievo dall’ansia e dall’agitazione. Gli autoferitori di solito o hanno utilizzato o sono a rischio per l’uso e abuso di alcol e altre sostanze. Alcuni potrebbero scegliere la cocaina e le amfetamine, mentre altri potrebbero preferire l’alcol e l’eroina; altri ancora potrebbero variare la scelta della sostanza di volta in volta, a seconda dello stato emotivo da cui cercano sollievo. Resta naturalmente la questione, non secondaria, dell’esistenza di popolazioni nelle quali i fenomeni discussi non si presentano insieme.

3.2 Autoferimento , Disturbo da Uso di Sostanze e Disturbo Borderline di Personalità

L’associazione tra SI e DUS appena esaminata potrebbe essere legata a molteplici fattori. Tra questi, è possibile ipotizzare la presenza di tratti di personalità sottostanti, cui entrambi i comportamenti potrebbero essere collegati. Sia il SI che il DUS, infatti, si trovano spesso associati a diversi Disturbi di Personalità (DP).

Lo stretto rapporto tra DUS, SI e DP ci riporta al problema dell’indipendenza delle diagnosi.

Prima di tutto, esistono alcune evidenti sovrapposizioni tra i criteri diagnostici di DUS, SI e di alcuni DP, in particolare il Disturbo Borderline di Personalità.

Il DBP è un disturbo che coinvolge diverse aree del funzionamento psichico e comportamentale; si trova frequentemente in comorbilità con diverse diagnosi dell’asse I come ad esempio disturbi dell’umore (Zanarini et al., 1998), disturbi d’ansia (Nurnberg et al., 1989) e Disturbi Alimentari (Wonderlich et al., 1990); tuttavia le ricerche indicano un tasso particolarmente alto di comorbilità tra DBP e DUS (Trull et al., 2000) e DBP e SIB (ad es. Chapman, Specht e Cellucci 2005; Gunderson, 2001). D’altra parte fra tutti questi disturbi e l’asse II in generale, ed il Cluster B in particolare, i confini possono essere labili, lasciandoci alle prese con i noti limiti nosografici del DSM (Widiger, 2005).

Questa alta comorbilità potrebbe essere legata, inoltre, al fatto che due criteri del DSM IV per il Disturbo Borderline di Personalità includono il comportamento di abuso di sostanze e l’autoferimento. In particolare il quarto criterio prevede la presenza di "impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto quali spendere, sesso, uso di sostanze, guida spericolata e abbuffate", così come il quinto criterio prevede la presenza di "ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante".

Ciò lascia pensare che il solo fatto di ricorrere a sostanze di abuso su base impulsiva o ai comportamenti di autoferimento possa comportare di per sé il soddisfacimento di un criterio diagnostico concorrendo al raggiungimento della soglia necessaria ad emettere una diagnosi di disturbo borderline che rappresenta, ripetiamo, uno dei disturbi di personalità più frequentemente diagnosticati in abusatori di sostanze e autoferitori. Di fatto, alcune evidenze suggeriscono che la prevalenza del DBP rimanga comunque elevata anche nel momento in cui il criterio relativo all’uso di sostanze o quello dell’autoferimento venga eliminato (Trull et al., 2000).

Per quanto riguarda i SIBs, la relazione con il DBP potrebbe tuttavia essere sovrastimata proprio a causa del peso che l’autoferimento assume quale marcatore diagnostico. Favazza (1998) rileva, infatti, che l'automutilazione ha un peso eccessivo nel determinare la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità. Prove a favore di questa ipotesi provengono da uno studio condotto da Herpertz e coll. (1997), i cui risultati mostravano che il 48% di un campione di autoferitori soddisfaceva anche i criteri per il DBP; quando il criterio dell’automutilazione veniva escluso, questa percentuale diminuiva considerevolmente fino al 28%, lasciando una grande percentuale di soggetti senza una diagnosi principale.

Per quanto riguarda invece il DUS, esiste la possibilità che le diagnosi di asse II in pazienti alcolisti o abusatori di altre sostanze siano artefatti diagnostici indotti dalla sostanza, che riflettono cioè condizioni transitorie secondarie ai problemi di abuso (e quindi destinate alla remissione spontanea nel momento in cui cessa il comportamento di abuso) e non veri disturbi della personalità con esordio precoce e un decorso stabile nel tempo e indipendente dalle patologie di Asse I (Verheul e van den Brink, 2004). Il ricorso continuativo e massiccio a sostanze psicoattive può infatti indurre alla lunga pattern comportamentali simili a quelli che risultano di rilevanza diagnostica, secondo il DSM-IV (APA, 1994), per i disturbi di personalità in generale e per quelli del cluster B in particolare. Esistono tuttavia dei dati a favore dell’ipotesi per cui l’utilizzo cronico e massiccio di sostanze psicoattive non possa di per sé condurre a manifestazioni transitorie di disturbi della personalità che siano del tutto indipendenti da antecedenti psicopatologici e che regrediscano spontaneamente con il recupero della sobrietà (Madeddu e Prunas, 2006).

I limiti e i problemi metodologici appena evidenziati per quanto possano ragionevolmente contribuire ad alterare le stime di prevalenza della co-occorrenza tra DBP e DUS da un lato e DBP e SI dall’altro, non sono tuttavia in grado di rendere ragione interamente dell’entità della loro associazione: una prevalenza di DBP notevolmente superiore in pazienti abusatori di sostanze ed autoferitori rispetto a quanto osservabile in popolazione generale è un dato difficilmente spiegabile anche ipotizzando l’azione combinata di diversi artefatti metodologici.

Vediamo più nel dettaglio i dati relativi alla co-occorrenza di DBP-SIBs e DBP-DUS.

3.2.1 Autoferimento e Disturbo Borderline di Personalità

Il comportamento autolesivo è stato associato in modo consistente con il Disturbo Borderline di Personalità. C’è qualche evidenza che l’autolesionismo potrebbe essere moderatamente correlato ai disturbi di personalità antisociale e istrionico e ad altre condizioni cliniche come i DA (Sansone, Fine e Nunn, 1994). Il problema dell’associazione tra Disturbo Borderline di Personalità (DBP) e SIBs, problema complesso e ancora non del tutto chiarito, rimane comunque uno degli argomenti più discussi nella letteratura sull’autoferimento. Favazza (1996), del resto, lascia la questione aperta quando afferma: "l’automutilazione potrebbe essere il segno delle più gravi patologie borderline o potrebbe meglio essere considerata come disturbo separato di Asse I di Controllo degli Impulsi" (p. 257).

Sempre secondo Favazza quando ci troviamo davanti ad un soggetto che mostra un comportamento autolesivo dovremmo essere pronti ad interpretarlo in due modi differenti: 1) il SI potrebbe essere visto come un marker per forme più gravi di DBP; 2) il SI potrebbe essere diagnosticato a sé come un disturbo del controllo degli impulsi. Secondo l’Autore entrambe le interpretazioni potrebbero essere corrette, ma bisogna sempre fare attenzione al fatto che il SI non è né necessario né sufficiente per porre la diagnosi di DBP. Certo la sua presenza potrebbe testimoniare livelli più gravi di patologia borderline, ma se il comportamento diviene ripetitivo potrebbe evolversi in quella che precedentemente è stata definita Ripetitive Self-Mutilation Syndrome (Favazza, 1996; Simeon e Favazza, 2001).

In ogni caso, i comportamenti di autoferimento, molto spesso infliggersi dei tagli (80%), ma altrettanto frequentemente il procurarsi ematomi (24%), bruciarsi (20%), sbattere la testa (15%) e mordersi (7%), rappresentano fra i sintomi più comuni attraverso i quali il DBP giunge all’attenzione clinica (Gunderson, 2001). Diverse ricerche mostrano come il tasso di ferite autoinflitte senza intenzione di morire raggiunga percentuali straordinariamente alte nei soggetti borderline, comprese tra il 63-80% (Chapman et al., 2005; Gratz, Conrad e Roemer, 2002; Shearer, 1994).

Un problema che si pone nel momento in cui si analizzano i risultati provenienti dalle ricerche empiriche è quello relativo al modo in cui viene definito, valutato e misurato il comportamento autolesivo, ed alla popolazione (clinica o non clinica) considerata. In particolare, alcuni autori prendono in considerazione i comportamenti che genericamente potremmo definire autodistruttivi e che dunque includono anche uso di sostanze, tentativi di suicidio, problemi alimentari etc., elemento che aumenta le percentuali di comorbilità. Ma anche quando le ricerche si limitano alla considerazione esclusiva del criterio 5 già illustrato ("ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante"), un altro problema deriva dal fatto che tale criterio include al suo interno anche i tentativi di suicidio, da cui l’autoferimento viene solitamente distinto. Questo ovviamente pone dei problemi rispetto alla possibilità di confrontare i risultati delle diverse ricerche e rispetto all’attenta considerazione di ciò che ogni autore intende quando parla di comportamenti autolesivi. Inoltre, al di là dello specifico criterio dell’automutilazione, anche le altre caratteristiche del disturbo borderline (relazioni instabili e intense, impulsività, instabilità affettiva, rabbia inappropriata, comportamenti suicidari, instabilità nella percezione di sé e nell’identità, croniche sensazioni di vuoto, timori abbandonici e scompensi nell’esame di realtà, episodi dissociativi transitori), rappresentano aspetti che caratterizzano fortemente il vissuto di chi si autoferisce (Gunderson, 2001).

Anche se, come abbiamo visto, le percentuali di comorbilità sono molto alte, tuttavia comportamento autolesivo non sempre e non immediatamente equivale a DBP.

La confusione o l’immediata sovrapposizione tra SI e DPB ha un’origine storica, dal momento che l’autoferimento è stato da sempre associato a disturbi di Asse II, ed in particolare al disturbo Borderline di Personalità (Dubo et al., 1997): già nel 1969 Pao aveva suggerito che questi individui potessero "essere diagnosticati (…) come gravi stati borderline" (1969, p. 196).

Ancora, Gunderson e Singer (1975) avevano osservato che l’impulsività ed i comportamenti di SI erano le caratteristiche più comunemente e consistentemente associate al DBP, e Mack (1975) parlava del SI come della ‘specialità comportamentale’ dei soggetti con DBP. Numerosi altri autori hanno messo in luce pattern di comportamenti di SI e le loro relazioni col DBP (per es. Kernberg, Selzer, Koenigsberg, Carr, Applebaum, 1989; Simeon, Stanley, Frances, Mann, Winchel, Stanley, 1992).

Infatti, osserva Gunderson "questo criterio è talmente prototipico dei soggetti con DBP che la diagnosi sovviene prontamente ogni qual volta ci si imbatta in comportamenti autodistruttivi ricorrenti. La presenza di un tale pattern segnala un DBP concomitante in pazienti i cui sintomi inizialmente riferiti sono depressione o ansia. I clinici devono discriminare le minacce, o gli atti che comunicano una richiesta d’aiuto, da quelli che hanno altre motivazioni (catturare attenzione e assistenza sollevando la bandiera rossa dell’autolesionismo)" (Gunderson, 2001, p.22).

Le motivazioni addotte per il comportamento sono variabili, ma è chiaramente presente un’espressione di dolore, spesso tesa ad ottenere una risposta. In anni recenti, questo desiderio di comunicare la propria sofferenza attraverso comportamenti di autoferimento, talvolta ha reso questo sintomo socialmente contagioso. È tuttora quanto mai azzardato, come spesso viene fatto, assumere che comportamenti automutilativi siano mere ricerche d’attenzione. Tuttavia, anche se ripetuti gesti autolesivi non possono essere intesi in chiave suicidaria, e talvolta possono essere associati ad un’esperienza di sollievo da stati affettivi dolorosi e intollerabili, questi gesti sono anche realizzati con una consapevolezza sempre maggiore degli effetti di controllo che essi hanno sugli altri significativi. In verità il potere che i comportamenti di automutilazione hanno sugli altri è probabilmente la ragione per cui può divenire contagioso tra gli adolescenti (Gunderson, 2001)

3.2.2 Disturbo Borderline di Personalità e Disturbo da Uso di Sostanze

Anche i dati relativi all’associazione tra DBP e DUS sembrano essere significativi, mostrando una maggiore prevalenza di DUS in soggetti con diagnosi di DBP (Stepp, Trull, Sher, 2005).

In più, soggetti con diagnosi di DBP hanno una maggiore probabilità di iniziare l’uso di sostanze e l’abuso ad un’età inferiore dei non DBP, assicurando un corso del DUS più pervasivo e problematico così come una più grave dipendenza fisica e conseguenze negative sia emotive, sia sociali che legali (Ross et al., 2003). Infine la presenza di DBP e DUS in comorbilità comporta una serie di complicazioni per il trattamento centrato specificamente sul DBP (van Den Bosch et al., 2002), sul DUS (Martinez-Raga, Drake e Wallach, 2002) o entrambi i disturbi simultaneamente (Ross et al., 2003).

Per comprendere la significatività della co-occorrenza dei due disturbi basti pensare che la diffusione del DBP nella popolazione generale è stimata intorno al 2% a fronte di una percentuale compresa tra l’11 ed il 65% nella popolazione degli abusatori di droghe. La diagnosi di DBP è stata associata con una grande varietà di rischi, tra cui depressione maggiore, suicidio, alti livelli di uso di droghe e overdose (Darke et al., 2004).

Una delle rassegne recenti più complete sull’argomento è quella di Trull et al. del 2000; gli Autori nella loro completa ricerca metanalitica prendono in considerazione tutti gli articoli pubblicati in riviste peer-reviewed di lingua inglese in un periodo compreso tra il 1987 ed il 1997, in cui veniva analizzata la comorbilità tra DBP e DUS, sia in campioni di soggetti borderline che abusatori.

Sinteticamente, possiamo affermare che più del 57.4% di soggetti con DBP soddisfa i criteri anche per un DUS, e una percentuale compresa tra il 5 ed il 32% della popolazione di abusatori di sostanze soddisfa i criteri per il DBP (Brooner et al., 1997).

Per concludere, i dati provenienti dalle ricerche empiriche mostrano chiaramente la maggiore prevalenza di DUS in soggetti con diagnosi di DBP e viceversa; questo è vero indipendentemente dal tipo di campione considerato (pazienti residenziali o ambulatoriali, soggetti appartenenti alla popolazione generale).

4. Autoferimento, Disturbo da Uso di Sostanze e Disturbo Borderline di Personalità: verso una comprensione dell’associazione

Sinora abbiamo preso in considerazione la comorbilità tra autoferimento e dipendenza da sostanze, e successivamente la co-occorrenza di SI-DBP e di DUS-DBP separatamente. Cercheremo a questo punto di comprendere se esiste un legame tra i tre disturbi e di che natura questo possa essere.

Non sono molte le ricerche che hanno preso in considerazione SIB, DUS e DBP contemporaneamente; tuttavia è possibile rintracciare in letteratura alcuni dati empirici.

Herpertz (1995) osserva in un campione di autoferitori con e senza DBP che gli autoferitori con DBP avevano una maggiore probabilità di soffrire di DA o di disturbi da uso di sostanze psicoattive rispetto ai soggetti senza questo disturbo di personalità. In particolare i pazienti che facevano uso di sostanze, o con DA, e nevrotici presentavano punteggi significativamente più alti sui tratti di personalità borderline rispetto ad esempio ai pazienti schizofrenici. Benché nel campione il SI fosse ugualmente distribuito tra soggetti con e senza DBP, i soggetti con DBP presentavano nel complesso un disturbo di personalità più grave ed una maggiore compromissione sul piano affettivo, così come una frequenza maggiore di DA e DUS. Il confronto tra i gruppi di pazienti con e senza DBP ha supportato l’ipotesi che i pazienti con questo particolare disturbo presentino un insieme di caratteristiche sufficientemente distinte ed omogenee che in qualche modo distinguono un gruppo di autoferitori non solo rispetto ad una specifica diagnosi di asse II (DBP) ma anche rispetto a dei fenomeni psicopatologici ed alla comorbilità con disturbi di asse I (DA e DUS).

In un’altra ricerca Kruedelbach et al., (1993) hanno trovato che soggetti con DUS e DBP riportavano, in modo significativamente maggiore rispetto ai soggetti senza DBP, craving e uso di sostanze in risposta a stati emotivi negativi, rifiuto sociale e tensione. Le proprietà psicofarmacologiche dell’alcol e di altre sostanze possono procurare un temporaneo sollievo e la credenza che queste sostanze possano alleviare gli stati emotivi negativi in modo potente. Secondo gli autori questo dato deve essere letto insieme al fatto che spesso, oltre all’uso di sostanze, i pazienti con DBP sono soggetti a mettere in atto comportamenti autolesivi con lo scopo di fronteggiare le emozioni negative. In particolare, diversi soggetti con DBP riportano sollievo dalla tensione o elevazione del tono dell’umore dopo la messa in atto di atti autolesivi come il cutting (Linehan, 1993). Così, le ricerche sembrano mostrare l’esistenza di un legame tra SI, DUS e DBP, che sembra essere collegata al bisogno dei soggetti con DBP di fronteggiare gli stati affettivi negativi in modi diversi, incluso il ricorso all’uso di sostanze ed al SI.

Tuttavia, se vogliamo cercare di approfondire la comprensione di tale associazione, dobbiamo recuperare alcuni concetti legati al tema della comorbilità (Madeddu e Prunas, 2006).

In generale, sono stati proposti quattro modelli esplicativi per comprendere la comorbilità:

  • i modelli causali diretti: un disturbo primario determina la comparsa e il mantenimento nel tempo di un disturbo secondario;
  • i modelli causali indiretti: un disturbo primario può agire da fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo secondario;
  • i modelli a fattore comune: la comorbilità è spiegata dall’ipotesi secondo cui i disturbi condividono fattori etiologici comuni quali una predisposizione genetica o l’esposizione a fattori ambientali;
  • i modelli causali bidirezionali: sono articolati come una sorta di "circolo vizioso" in cui i due disturbi interagiscono fra loro e si autoalimentano; ad esempio, l’uso dell’alcol come auto-terapia contro la depressione può esitare in una condotta di abuso che, a sua volta, può aggravare il quadro clinico depressivo determinando un aumento del consumo di alcol e la comparsa di un quadro clinico di dipendenza.

Tali modelli non devono essere considerati mutualmente esclusivi: nessuno di essi è sufficiente per rendere conto in maniera esaustiva del fenomeno variegato della doppia diagnosi; modelli diversi possano aiutare nella comprensione del fenomeno della comorbilità in gruppi diversi di pazienti e, anche nello stesso paziente, è legittimo ipotizzare l’azione combinata di più di un modello (Madeddu e Prunas, 2006; Mueser et al., 1998).

Il modello a fattore comune, insieme al modello causale indiretto, sembrano essere quelli che meglio ci aiutano a comprendere l’associazione tra i disturbi da noi presi in considerazione. I modelli a fattore comune si basano sull’assunto che i disturbi di personalità, il ricorso a sostanze psicoattive e i comportamenti di autoferimento siano riconducibili ad un quarto fattore indipendente che contribuisce allo sviluppo dei disturbi, laddove il modello causale indiretto ipotizza che uno dei tre disturbi si ponga come fattore di rischio rispetto agli altri (ad es. l’abuso slatentizza il SI).

Casillas e coll. (2002) a questo proposito osserva come i disturbi di personalità del Cluster B di solito mostrino un alto livello di comorbilità con i DUS. Questo potrebbe essere dovuto alla presenza di tratti di personalità sottostanti comuni, che ad esempio alcune ricerche individuano nei domini di personalità ad ampio spettro di Disinibizione e Temperamento Negativo/Nevroticismo. Significativamente, rispetto all’argomento di nostro interesse, nella ricerca del 2002 lo stesso Casillas individua all’interno dei domini più generali di Disinibizione e Nevroticismo, tre tratti di personalità di secondo livello: dipendenza, impulsività e self-harm. I risultati di questa ricerca dimostrano che impulsività e autolesionismo giocano un ruolo significativo nei disturbi di personalità del Cluster B e nel DUS, così come nella loro associazione reciproca.

Il ruolo centrale dell’impulsività viene sottolineato anche da Trull e coll. (2000), i quali hanno proposto un modello a fattore comune secondo il quale l’impulsività e l’instabilità emotiva sarebbero fondamentali nello sviluppo del DBP e del DUS. Altri Autori hanno riportato risultati per cui questi stessi fattori sembrano essere fortemente correlati al SI (Herpertz et al., 1997). Ad esempio alcuni studi sulla comorbilità tra DUS e DBP hanno sottolineato come si riscontrino livelli più elevati d’impulsività quando i due disturbi sono entrambi presenti, rispetto a quando ne è presente uno solo (per es. Trull, Waudby e Sher, 2004). In particolare, studi che hanno confrontato soggetti con DUS con e senza DBP hanno trovato che i soggetti con DBP avevano un rischio più alto di discontrollo comportamentale e comportamenti autodistruttivi. Similmente, studi clinici mettono in evidenza l’impulsività come caratteristica comune di pazienti borderline, abusatori di sostanze e autoferitori; inoltre, l’instabilità emotiva può condurre rapidamente all’esperienza di stati affettivi negativi ai quali i pazienti con DBP e DUS rispondono con un craving più intenso per le sostanze rispetto ai pazienti con solo DUS o al SI come strategie per alleviare il dolore (Evren e Evren, 2005).

Da quanto appena descritto sembra possibile ipotizzare l’esistenza di alcuni punti di contatto tra i comportamenti di abuso di sostanze, di autoferimento ed il DBP, che lascerebbero pensare all’esistenza di dimensioni sottostanti comuni come aspetti di personalità (impulsività e deficit nella regolazione affettiva) o fattori eziopatogenetici (trauma).

4.1 Impulsività, deficit nella regolazione delle emozioni e trauma

Sulla base dei dati provenienti dai pochi studi empirici che considerano DBP, SI e DUS contemporaneamente, possiamo osservare come questi sottolineino l’importanza dell’impulsività come tratto temperamentale essenziale nella comprensione dei tre disturbi. Inoltre, diverse ricerche sottolineano la correlazione tra impulsività e trauma come fattore eziopatogenetico. Per cui potremmo affermare che DBP, DUS e SI potrebbero essere accomunati tanto dal primo quanto dal secondo elemento, a loro volta associati fra loro.

Uno degli aspetti più rilevanti che emerge dagli studi psicologici sulla personalità umana è che l’impulsività è un costrutto multi-componenziale, composto da una serie di fattori indipendenti che determinano forme di comportamento impulsivo qualitativamente diverse e che vengono probabilmente influenzati da meccanismi biologici differenti.

Il concetto d’impulsività è tuttora un costrutto problematico nella diagnosi psichiatrica. Come osservano Herpertz et al. (1997), l’impulsività e il deficit nel controllo degli impulsi sono connessi con diversi disturbi psichici. Tratti impulsivi possono essere presenti in disturbi anche molto diversi fra loro, come ad es. bulimia, ritardo mentale, parafilie, disturbi da abuso di sostanze, disturbi di personalità e disturbi psicotici. Ma mentre l’impulsività si presenta come una durevole e pervasiva predisposizione della personalità, la categoria del DSM IV dei "Disturbi del controllo degli Impulsi NAS" prende in considerazione specifici comportamenti impulsivi disfunzionali. Nel DSM IV il deficit del controllo degli impulsi è una caratteristica chiave di 5 disturbi specifici in cui il comportamento deve essere messo in atto "ricorrentemente" (Cleptomania, Tricotillomania), "frequentemente" (Gioco d’azzardo patologico), "in più di un’occasione" (Piromania), o in "diversi episodi isolati" (Disturbo Esplosivo Intermittente). Da questo punto di vista, la già citata Repetitive SelfMutilation Sindrome (cfr. pp. 6 e 7) potrebbe rientrare in questo largo gruppo di comportamenti impulsivi.

In realtà un ampio numero di autoferitori mostra probabilmente più di una forma d’impulsività; Lacey ed Evans (1986) segnalano come questa non sia tanto una caratteristica dell’autolesionismo, quanto del concetto stesso d’impulsività: chi è impulsivo potrà manifestare tale caratteristica in più comportamenti simultaneamente così come in successione (ad es. chi smette di bere può iniziare a tagliarsi o ad abbuffarsi). Esiste dunque secondo gli Autori un "disturbo multi-impulsivo" in cui i sintomi sono intercambiabili. Queste osservazioni di Lacey ed Evans (1986) sono compatibili con le osservazioni di Favazza e Conterio (1989) secondo i quali i disturbi alimentari, l’abuso episodico di alcol e droga, la cleptomania, il procurarsi dei tagli o delle bruciature potrebbero costituire un cluster di disturbi degli impulsi intercambiabili: "I pazienti potrebbero iniziare con uno di questi sintomi e procedere con lo sviluppo di uno degli altri. Alcuni, infine, potrebbero avere i quattro sintomi contemporaneamente. Questi soggetti sono i più difficili da trattare, in quanto "sono solo un bandolo di impulsi"(Favazza, 1996). Non esiste in ogni modo una sequenza prefissata, e uno qualunque di questi comportamenti potrebbe predominare in un determinato momento.

Dati descrittivi sembrano mostrare la natura prevalentemente impulsiva dei SIBs, del DUS e del DBP.

L’impulsività, infatti, in diverse ricerche è stata vista come una caratteristica alla base del DBP (Lieb et al., 2004; Siever et al., 2002), del DUS (per es. Krueger et al., 2002; Moeller et al., 2002) e della loro comorbilità (Casillas e Clark, 2002; Trull et al., 2000).

Per quanto riguarda l’autoferimento, Bennum (1983) riporta come il 70% degli autoferitori dichiari la difficoltà a controllare il comportamento; Favazza e Conterio (1989) riferiscono che il 78% del loro campione aveva deciso di ferirsi sull’impulso del momento, ed un altro 15% aveva preso la decisione meno di un’ora prima; Simeon et al. (1992), infine, trovano una correlazione significativa tra il grado del SI e misure indipendenti dell’impulsività.

Tuttavia, una comprensione completa del ruolo dell’impulsività in questi disturbi è limitata da una scarsa attenzione alla natura complessa e multidimensionale del costrutto stesso (Bornovalova et al., 2005). Bornovalova e coll. (2005) hanno ad esempio considerato l’impulsività attraverso quattro dimensioni empiriche, ovvero: 1) la concettualizzazione classica dell’impulsività che include l’incapacità di pianificazione dell’azione così come la messa in atto di comportamenti senza la considerazione delle possibili conseguenze negative (Whiteside e Lynam, 2001); 2) aggressività impulsiva (Pally, 2002;); 3) incapacità del differimento della gratificazione o mancanza di considerazione della ricompensa in funzione del differimento della gratificazione (Mischel, Shoda e Rodriquez, 1989); 4) povera inibizione della risposta ed evitamento passivo (Logan, 1994;).

Il fattore dell’incapacità del differimento della gratificazione potrebbe essere utilizzato per comprendere la presenza di diversi comportamenti maladattivi presenti nel DBP. Ad esempio, tanto il SI quanto il DUS potrebbero essere concettualizzati come comportamenti impulsivi messi in atto a causa dell’immediato vantaggio di distrazione emotiva temporanea e sollievo da affetti negativi intensi, nonostante le molteplici conseguenze negative a lungo termine (Wagner e Linehan, 1999).

L’aspetto dell’aggressività impulsiva invece consente di collegarsi ad un altro aspetto fondamentale nei tre disturbi, ovvero il deficit nella regolazione degli affetti. L’aggressività impulsiva e la disregolazione affettiva non sono infatti processi separati, ma insieme contribuiscono all’alta presenza di conflitti interpersonali, atti impulsivi, comportamenti autolesivi ed abuso di sostanze che contraddistinguono il DBP.

Secondo Herpertz (1995) il deficit del controllo degli impulsi costituisce una delle dimensioni psicopatologiche sottostanti alle caratteristiche del SIB così come a forme particolari di DA ed uso di sostanze psicoattive. Tuttavia secondo l’Autore l’esistenza di forme non impulsive di SI fa pensare al fatto che il discontrollo degli impulsi non spieghi tutto il SI, che invece spesso viene messo in atto di fronte ad emozioni sovravalenti ed ingestibili, più che sulla spinta di pulsioni ed impulsi ad agire. Per questo secondo Herpertz sembrerebbe più accreditata l’ipotesi di una povera regolazione affettiva come dimensione psicopatologica sottostante nei pazienti con SIB, che risulta in sintomi psicopatologici come disforia e sensibilità al rifiuto, in gravi disturbi della personalità come il DBP ed in una comorbilità con Disturbi Alimentari, DUS e altri problemi di controllo del comportamento.

Bornalova e coll. (2005) propongono altre possibili spiegazioni per la presenza dell’impulsività nel SI, nel DBP e nel DUS. In primo luogo gli autori sottolineano come esista una predisposizione genetico-biologica all’impulsività che costituisce un importante fattore eziologico che probabilmente sottosta alla comorbilità. Una seconda possibile spiegazione, è quella già accennata relativa alla reciproca relazione tra impulsività ed influenze ambientali tra cui conflitti e trauma infantile (Loukas et al., 2003; Trull et al., 2000). In particolare, diversi studi hanno mostrato come traumi infantili possano essere associati con carenze di 5-HT. Bassi livelli di serotonina sottostanno in parte alle risposte impulsive in misure generali dell’impulsività (per es. Rinne, de Kloet, Wouters, 2002; Soloff et al., 2003), così come a misure specifiche dell’aggressività impulsiva (per es. Soloff, Lynch e Kelly, 2002). Altre ricerche mostrano come i soggetti con una storia di abuso abbiano una probabilità maggiore rispetto a quelli senza storia di abuso di avere una combinazione di comportamenti impulsivi, soprattutto SI e uso di droghe, entrambi criteri diagnostici del DBP (Dohm et al., 2002). E ancora, i risultati dello studio di Briere e Gil suggeriscono una "significativa comorbilità tra abuso infantile, autoferimento ed un cluster di sintomi che includono dissociazione, stress post-traumatico ed affetti negativi" (1998, p. 618). Diversi studi, dunque, sinora hanno suggerito che il trauma infantile può essere alla base di comportamenti impulsivi autodistruttivi come ad es. il SI (Soloff et al., 2002; Yates, 2004;) il DBP (Herman, 1992; Perry, Herman, van der Kolk, Hoke, 1990) ed il DUS (Madeddu, 1997; Zlotnick et al., 1997).

L’impulsività, infatti, potrebbe svilupparsi attraverso processi di apprendimento sociale durante l’infanzia. Gran parte della letteratura indica la relazione tra il comportamento aggressivo infantile ed una storia di violenza. Ad esempio, alcuni studi hanno mostrato che molti adolescenti che vivono esperienze traumatiche persistenti (abuso fisico o sessuale) perpetrate da membri della famiglia ed in conseguenza delle quali scappano via di casa riportano alti livelli di: a) stress traumatico continuato (Tyler, 2002), b) self-harm (Tyler et al., 2003); c) abuso di sostanze (McClanahan et al., 1999). Per queste persone l’abuso di sostanze ed il SI possono fungere da strategie di coping in linea con la dimensione dell’impulsività relativa all’incapacità del differimento della gratificazione, dove gli immediati benefici del sollievo dagli stati emotivi negativi contano di più delle conseguenze a lungo termine.

Trull et al. (2000) suggeriscono inoltre che la manifestazione comportamentale dell’impulsività possa dipendere in qualche modo anche dalla presenza di altre variabili. Gli autori propongono un ragionamento specifico per la comorbilità tra DUS e DBP, che, alla luce delle considerazioni fatte sinora, a nostro parere può essere estesa anche al SI. Affermano infatti che l’impulsività entra in una relazione reciproca con gli stati emotivi negativi e con la povera capacità di tollerarli, che porta tanto alla presentazione indipendente che in comorbilità del SI, DBP, e DUS. Questa interpretazione legittima la possibilità che i diversi disturbi si sviluppino indipendentemente gli uni dagli altri, così come la possibilità che nel caso in cui se ne sviluppi per primo uno, l’aumento dei livelli d’impulsività e d’instabilità affettiva contribuisca allo sviluppo degli altri disturbi, che a questo punto, in assenza di trattamento, possono influenzarsi a vicenda.

Infine, la considerazione di DBP, DUS e del SI come strategie di coping maladattive (Gratz e Roemer, 2004) ci introduce al problema dell’evitamento esperienziale. Come precedentemente affermato, infatti, in tutti e tre i disturbi presi in considerazione il comportamento impulsivo funziona come una strategia per alterare uno stato emotivo negativo attraverso una strategia di evitamento o fuga da esperienze emotive indesiderate (per es. Brown, Comtois, Linehan, 2002; Wagner e Linehan, 1999). Si è visto ad esempio che i soggetti borderline abusatori di sostanze sono più impulsivi ed hanno una maggiore probabilità di utilizzare strategie di fuga/evitamento rispetto ai borderline non abusatori (Kruedelbach et al., 1993). La letteratura clinica in modo simile mette in evidenza che i soggetti con DBP hanno spesso importanti problemi clinici legati all’evitamento esperienziale, quali abuso di sostanze (Grilo et al., 1997), disturbi dissociativi (Wagner e Linehan, 1998), e comportamenti bulimici (Paxton e Diggins, 1997).

Il modello biosociale in questo modo dà un’importanza centrale all’evitamento esperienziale, ovvero ai comportamenti (soppressione dei pensieri, uso di sostanze, DA, shopping compulsivo, Tentato Suicidio, SI, Dissociazione, coping evitante) che hanno tra le proprie funzioni anche l’evitamento o la fuga da emozioni, pensieri o sensazioni somatiche indesiderate (Chapman, Gratz, Brown, 2006).

In una recente ricerca Chapman et al. (2005) hanno cercato di testare empiricamente un modello teorico dei meccanismi attraverso cui il DBP è associato al SI. I risultati non hanno trovato un’associazione diretta tra DBP e SI, ma hanno indicato che il DBP è associato all’evitamento esperienziale, e che l’evitamento esperienziale gioca un ruolo nei comportamenti di SI. I risultati indicano inoltre il bisogno di esaminare i modi in cui l’evitamento esperienziale, la tolleranza dello stress e le caratteristiche del DBP (tra cui l’uso di sostanze) interagiscano per influenzare il SI.

5. Conclusioni

I dati sinora esposti indicano che DBP, DUS e SI co-occorrono con una certa frequenza. Questo è vero indipendentemente dal campione considerato, ovvero indipendentemente dal fatto di considerare un campione di autoferitori, di abusatori o di soggetti borderline.

Abbiamo ipotizzato l’esistenza di alcuni tratti di personalità centrali nello sviluppo tanto del DBP, quanto del SI quanto ancora del DUS, che dovrebbero per gran parte spiegare la comorbilità accentuata dei tre disturbi. In particolare l’impulsività appare uno dei costrutti maggiormente implicati in tale associazione. Questa, infatti, presenta livelli elevati nei tre disturbi ed aumenta quando questi si presentano in modo combinato. Il comportamento impulsivo inoltre è associato sia al trauma che alla disregolazione affettiva, altri elementi fondamentali per comprendere l’associazione. In particolare, abbiamo descritto l’impulsività come un costrutto multidimensionale, con componenti sia genetiche che ambientali, delle quali abbiamo sottolineato il ruolo del trauma infantile (specialmente abuso fisico o sessuale). L’impulsività entra in una relazione reciproca con gli stati emotivi negativi e con la povera capacità di tollerarli, che porta tanto alla presentazione indipendente che in comorbilità del SI, DBP e DUS. L’aggressività impulsiva e la disregolazione affettiva non sono infatti processi separati, ma insieme contribuiscono all’alta presenza di conflitti interpersonali, atti impulsivi, comportamenti autolesivi ed abuso di sostanze. I tratti di instabilità affettiva e impulsività, dunque, si influenzano a vicenda, ognuno è associato con ciascuno dei tre disturbi ed ognuno media la relazione tra altri tratti possibilmente implicati. Il trauma infantile a sua volta media la relazione tra ciascuno dei tratti di personalità e DBP, DUS e SIB.

Questa interpretazione legittima la possibilità che i diversi disturbi si sviluppino indipendentemente gli uni dagli altri, così come la possibilità che nel caso in cui se ne sviluppi per primo uno, l’aumento dei livelli d’impulsività e d’instabilità affettiva contribuisca allo sviluppo degli altri disturbi, che a questo punto, in assenza di trattamento, possono influenzarsi a vicenda.

Il DUS ed il SI, che condividono la dimensione della dipendenza (da una sostanza e da un comportamento rispettivamente), possono infine essere concettualizzati come strategie di coping maladattiva che si offrono come strumenti per alleviare o fronteggiare gli stati emotivi disforici, caratteristici dei soggetti con DBP attraverso una strategia di evitamento o fuga da esperienze emotive indesiderate.

Per concludere potremmo dunque osservare che la comorbilità tra DBP, SI, DUS potrebbe dipendere da diversi fattori, come ad esempio le caratteristiche di dipendenza che portano il soggetto, impulsivo e con deficit nella regolazione degli affetti, spesso con storie di abuso, a mettere in atto dei comportamenti diversi e interscambiabili per fronteggiare gli stati emotivi negativi. Come osservato la ricerca ancora non ha fornito una chiave di lettura unica per tali fenomeni. La ricerca longitudinale potrebbe aiutarci in tal senso a comprendere la relazione tra i tre disturbi nei termini di causa, conseguenza o concomitanza.

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

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