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Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 241-313
(numero speciale del ventesimo anno)

LO STATO DELL'ARTE DELLA TECNICA PSICOANALITICA

a cura di Marianna Bolko e Alberto Merini

Contributi di:
Marianna Bolko & Alberto Merini (Introduzione)
John E. Gedo, Robert Langs, George E. Pollock (Stati Uniti)
 

Contributi degli Stati Uniti: J.E. Gedo, R. Langs,  G.H. Pollock


Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 269-272

La mia posizione nei confronti della tecnica psicoanalitica

John E. Gedo, Stati Uniti (400 E. Randolph Street, Chicago, IL 60601, USA)

Io ho introdotto gradualmente un numero sempre maggiore di modificazioni nella mia tecnica psicoanalitica in questi ultimi 25 anni, un periodo che ho dedicato esclusivamente al trattamento dei problemi del carattere attraverso lo strumento dell'analisi, con una frequenza minima di 4 sedute alla settimana. Fin dall'inizio della mia attività come psicoanalista, ho cercato di usare il nostro metodo con un vasto spettro di casi, evitando soltanto quei problemi che sarebbero stati troppo pericolosi da gestire fuori dall'ospedale. Inutile dirlo, mi sono presto trovato di fronte a situazioni cliniche che non potevano essere trattate con le tecniche puramente interpretative del metodo psicoanalitico classico. A questo riguardo, l'esperienza mi ha confermato alcune delle conclusioni alle quali erano giunti i pionieri della psicoanalisi delle generazioni precedenti - Ferenczi, Melanie Klein, Kohut e altri - e cioè che molti pazienti soffrono per le sequele di conflitti che sono più arcaici di quelli incontrati da Freud nelle "nevrosi di traslazione", e che quindi richiedono misure adatte per quelle condizioni spesso designate da termini quali "debolezza dell'Io", "arresto dello sviluppo", o "deficit strutturale".

Nella psicoanalisi americana, che quando incominciai la mia carriera era dominata dalla scuola della "Psicologia dell'Io", gli interventi non interpretativi nei casi difficili erano considerati leciti - anzi necessari - se il bisogno di tali interventi da parte dell'analista poteva essere in seguito a sua volta interpretato. Per un certo numero di anni io considerai questa mia modificazione Îad hoc' della tecnica abituale come un uso legittimo di tali "parametri" (termine coniato da Eissler nel 1953 per questi interventi non interpretativi), e constatai che di fatto era sempre possibile in seguito interrompere l'uso di queste misure di emergenza e analizzare i loro effetti sullo sviluppo del transfert. La mia esperienza clinica mi portò a concludere che non procurava mai un danno eccessivo l'errore di introdurre un parametro quando non era strettamente necessario, poiché questo fatto poteva essere compreso abbastanza presto, e l'analisi di tali banali errori si dimostrava sempre abbastanza fruttuosa. Invece, il non intervenire attivamente, a causa della naturale paura di scivolare in una "analisi selvaggia", può portare, nei casi in cui una tecnica interpretativa non sia sufficiente, a complicazioni molto serie - persino all'interruzione del trattamento.

Di conseguenza, gradualmente modificai la impostazione tecnica: nei casi in cui ero in dubbio, incominciai a considerare l'uso più attivo di interventi non interpretativi come l'alternativa più sicura. Allora scoprii che i miei risultati terapeutici miglioravano, che una proporzione maggiore delle analisi che conducevo terminavano in modo soddisfacente e di comune accordo, e che i miei analizzandi non provavano alcuna difficoltà a rivivere nel transfert i problemi sessuali, aggressivi e narcisistici che Freud considerò di cruciale importanza nella genesi delle nevrosi. In collaborazione con Arnold Goldberg formulai allora un complesso schema teorico che cercava di spiegare queste scoperte. Pubblicato nel 1973, il nostro libro Modelli della mente è ora disponibile in varie lingue straniere, compreso l'italiano (Gedo e Goldberg, 1973).

La varietà di potenziali interventi non interpretativi che possono essere utili nel corso di una psicoanalisi è letteralmente infinita: dall'insistenza a ottenere adeguate cure mediche per problemi fisici intercorrenti, all'incoraggiamento a continuare le associazioni libere nonostante un'ansia crescente, a misure più insolite, quali il prendere l'iniziativa nel confrontare attivamente l'analizzando con i suoi gravi disturbi del pensiero e della comunicazione, o empatiche raccomandazioni a trattenersi da azioni o comportamenti pericolosi che possono interferire con il processo analitico, e così via. Per ridurre questa complessità all'interno di categorie comprensibili, ho classificato queste attività terapeutiche a seconda delle loro finalità tecniche (allo stesso modo con cui la "interpretazione" viene descritta come la traduzione di significati inconsci nel linguaggio del processo secondario). La mia classificazione contiene tre categorie principali: pacificazione, unificazione e disillusione ottimale. Insieme, questi tre tipi di interventi sono necessari per instaurare quello che Winnicott chiamò holding environment, cioè una situazione psicoanalitica che permetta il lavoro interpretativo sui conflitti intrapsichici. 

La "pacificazione" si riferisce a quegli interventi terapeutici volti a correggere le conseguenze di una deficitaria regolazione di tensione.

Sebbene queste carenze di solito si manifestino in circostanze di aumentata tensione, e quindi richiedano una sedazione, occasionalmente incontriamo anche pazienti sottostimolati, come risultato degli stessi problemi di autoregolazione. Voglio ricordare qui che negli anni Î90 Freud cercò di concettualizzare quadri simili chiamandoli "nevrosi attuali". Per "unificazione" io intendo quelle misure che noi adoperiamo per trattare le situazioni di splitting, o scissione, sia che esse siano il risultato di operazioni difensive per evitare conflitti, o la conseguenza di un arresto dello sviluppo. La "disillusione ottimale" si riferisce al padroneggiamento non traumatico di illusioni non realistiche, sia che queste fantasie riguardino il soggetto stesso, o altri oggetti significativi. Va sottolineato che tutti questi interventi terapeutici sono puramente verbali; io li distinguo dalle interpretazioni solo a scopo euristico.

L'esperienza clinica nel condurre analisi seguendo questo schema di modalità terapeutiche mi ha permesso di ottenere risultati positivi molto più frequentemente di quanto non sia riportato nella letteratura psicoanalitica. Di conseguenza, ho gradualmente acquisito sempre più coraggio nell'accettare pazienti in analisi senza considerare gli usuali criteri di analizzabilità. Generalmente ho fallito solo con quei pazienti i cui handicap erano veramente molto gravi, e cioè con coloro che presentavano una combinazione di convinzioni deliranti, ansietà di natura paranoide, e acting out o propensioni delinquenziali. L'analisi di pazienti con severi handicap psicologici nella sfera delle funzioni dell'Io è stata resa possibile dal graduale riconoscimento, fatto per la prima volta dai colleghi della Scuola delle relazioni oggettuali, che l'adattamento di questi individui si stabilizza se essi formano un legame simbiotico nel transfert. Contrariamente alla pratica di molti analisti, io ho trovato che transfert di questo tipo non portano solamente a interpretazioni dinamiche e genetiche. In altre parole, gli sviluppi simbiotici nel transfert non sono pure e semplice ripetizioni di precoci esperienze infantili: essi sono anche la replica di carenze dello sviluppo rappezzati dalle figure genitoriali nel loro tentativo di rispondere ai bisogni simbiotici del bambino.

Conseguentemente, io credo che in analisi il manifestarsi di legami transferali arcaici ci dia una opportunità rara per diagnosticare le specifiche distorsioni dello sviluppo dei nostri pazienti. Se noi riusciamo a renderli consapevoli, senza ferire la loro autostima, della natura di questi deficit - quali disturbi del pensiero o della comunicazione - essi avranno la opportunità di reimparare queste capacità psicologiche (sia all'interno che all'esterno della situazione analitica). Miglioramenti significativi in queste richieste adattive faranno spontaneamente cessare il bisogno del paziente di una assistenza simbiotica. Prestando molta attenzione a questi problemi, precedentemente trascurati dagli psicoanalisti, io ho modificato la mia tecnica psicoanalitica, portandola più vicino all'antico ideale di Freud di fornire una Nacherziehung (rieducazione). I dettagli della mia tecnica attuale sono descritti nel mio ultimo libro, Psychoanalysis and Its Discontents (Gedo, 1984).

Bibliografia

Eissler R.R. (1953), Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica, Psicoterapia e scienze umane, 1981, XV, 2: 50-79; anche in Genovese C., a cura di, Setting e processo psicoanalitico. Milano: Cortina, 1988, pp. 3-35).

Gedo J.E. (1979), Beyond Interpretation: Towards a Revised Theory for Psychoanalysis, New York, Int. Univ. Press. (Trad. it.: Al di là dell'interpretazione. Roma, Astrolabio, 1986).

Gedo J.E. (1984), Psychoanalysis and Its Discontents, New York, The Guilford Press.

Gedo J.E. & Goldberg, A. (1973), Models of the Mind. Chicago, Univ. of Chicago Press. (Trad. it., Modelli della mente. Roma: Astrolabio, 1975).

(Traduzione di Paolo Migone)

Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 273-177

Diventare uno psicoanalista comunicativo

Robert Langs, Stati Uniti (133 West 72nd Street, Suite 304, New York, NY 10023, USA)

Nel 1968 mi sono diplomato presso un Istituto psicoanalitico classico degli Stati Uniti e ho cominciato la mia pratica clinica come psicoanalista classico. Nel corso della mia formazione avevo imparato a pensare al transfert come a una proiezione di problematiche intrapsichiche del paziente e non come a parte di un fenomeno appartenente all'interazione tra me e l'analizzando. Secondo questa concezione si facevano inferenze' sul contenuto manifesto delle associazioni del paziente. L'elemento chiave inconscio e l'anello mancante nel materiale del paziente si diceva che avesse a che fare con fattori genetici dei quali il paziente non era consapevole, e che erano responsabili delle sue reazioni distorte nei confronti dell'analista. Queste idee per me erano abbastanza rassicuranti, anche se non ero consapevole di questa loro particolare funzione. Bastava che io fornissi un setting psicoanalitico e ascoltassi e potevo, legittimamente, ritenere il paziente responsabile delle regressioni e delle distorsioni che si manifestavano davanti ai miei occhi. Mi era stato detto che io potevo contribuire al processo analitico mediante interventi giusti o sbagliati, ma io ero impossibilitato a capire - anche se inavvertitamente - la complessità dei miei contributi concreti all'esperienza terapeutica del paziente e alle vicissitudini di quella che io chiamo la sua follia. Il paziente era sempre responsabile di quello che accadeva nella terapia, io ero responsabile soltanto in alcune occasioni.

Nel 1970 incominciai a scrivere un libro sulla tecnica della psicoterapia psicoanalitica. Data la mia impostazione metodologica, presi anzitutto in esame il processo dell'ascolto psicoanalitico e cominciai a studiare il modo col quale noi comprendiamo il materiale del paziente. Mi resi presto conto che le associazioni del paziente non erano pure e semplici proiezioni del suo stato intrapsichico, ma erano risposte a stimoli precisi, e quindi avevano una natura sia adattiva che interazionale. In seguito giunsi a riconoscere che gli stimoli maggiormente responsabili delle comunicazioni consce e inconsce del paziente erano i miei interventi, gli interventi dello psicoanalista, che sono carichi di implicazioni inconsce delle quali in precedenza non ero affatto consapevole. Invece di leggere dietro il contenuto manifesto offerto del paziente e fare inferenze partendo dalla superficie delle sue associazioni, io incominciai a decodificare i suoi messaggi.

Più tardi sviluppai uno specifico processo di decodificazione legato alle implicazioni dei miei interventi e per come essi venivano selettivamente percepiti dal paziente in modo corretto e veritiero, guidato dalla particolare natura della sua follia. Pertanto non potevo più pensare in termini di transfert o di distorsioni, ma dovetti riconoscere che le comunicazioni di un paziente sono, innanzitutto e più di ogni altra cosa, costituite da corrette percezioni inconscie delle implicazioni degli interventi dell'analista. Quando questi sono stati selettivamente registrati, il paziente risponde ad essi in svariati modi con distorsioni, con influenze genetiche, con aggressività o tentativi di ferire il terapeuta, ma in modo particolare e molto spesso con tentativi di curare il terapeuta, ma in modo particolare e molto spesso con tentativi di curare il terapeuta e di aiutarlo a ritornare a una tecnica corretta. Tutto questo comunque avviene inconsciamente e viene comunicato tramite messaggi in codice; in altre parole con immagini simboliche e mascherate, o cariche di significati latenti. Per arrivare a comprendere questi significati, bisogna eliminare le due principali difese: spostamento e simbolizzazione. Ad esempio, comunicazioni riguardanti il paziente stesso o altre persone vengono viste come immagini spostate e simboliche di percezioni corrette riguardanti il terapeuta, e come reazioni a queste percezioni. Grazie a queste nuove intuizioni e a questo modo di comprendere il processo analitico, e soprattutto tramite l'uso del processo di decodificazione, la mia tecnica con i pazienti si modificò radicalmente. Di fatto, la mia comprensione dei significati del loro materiale si allontanò presto dalla mia impostazione psicoanalitica classica. Ero io quello che era sempre responsabile di ciò che accadeva, ora il paziente era responsabile soltanto in alcune occasioni, e soprattutto per le sue risposte selettive alle implicazioni contenute nei miei interventi.

Oggi, quando ascolto un paziente, io mi pongo sempre una domanda fondamentale: quale intervento ho fatto e con quali implicazioni, tale che questo materiale è una percezione corretta - anche se mascherata - del mio intervento, così come selettivamente percepito dal paziente nei termini della sua follia? Una volta che queste percezioni sono state identificate, cerco di rintracciare le loro implicazioni genetiche, il modo con cui esse stanno alla base della follia del paziente e le sue radici inconsce. Ogni intervento che faccio incomincia con la ammissione di una percezione corretta alla luce della interazione terapeutica corrente, e poi da lì procede verso una varietà di altri problemi e dimensioni. Ogni volta che faccio una interpretazione o un intervento volto alla rettificazione delle regole di base, io incomincio in questo modo: "Io ho fatto questo o quello; lei inconsciamente lo ha percepito come avente selettivamente questo o quel significato; e, di conseguenza, lei ha risposto con questo o quel ricordo, emozione, o tentativo personale di modificare o migliorare le cose; tutto questo serve per spiegare il singolo aspetto di follia che è stato espresso in questa seduta attraverso questa resistenza o quel sintomo..."

Divenne presto molto chiaro che gli interventi più importanti fatti da un analista riguardavano le regole di base o la struttura della situazione terapeutica, cioè il setting. Dato che le comunicazioni inconsce del paziente ruotano intorno alle implicazioni di questi interventi, molti dei miei sforzi riguardano la definizione dei significati inconsci di queste transazioni che fanno parte della base inconscia della follia del paziente. Questo processo di decodificazione e questo approccio interazionale alla comprensione del materiale del paziente hanno molto arricchito la nostra comprensione della base inconscia della follia.

Come psicoanalista classico, tutte le mie formulazioni riguardavano i punti di vista dinamico e genetico. Come psicoanalista comunicativo, io so che vi sono sei altre dimensioni della interazione terapeutica: comunicazione e significato; regole di base o setting (frame); modalità di relazione; modalità di guarigione; identità e narcisismo; salute mentale e follia. A seconda delle implicazioni degli interventi di un terapeuta e del particolare tipo di follia del paziente, ogni analizzando lavorerà su specifici problemi i queste aree della interazione terapeutica corrente.

Di particolare importanza sono i problemi comunicativi, il setting, i punti di vista dinamico e genetico (le pulsioni hanno di fatto un ruolo rilevante per la base inconscia della follia), e le tematiche della salute mentale e della follia.

Questo approccio ha anche portato a una comprensione più chiara e approfondita della base inconscia della follia, nei termini delle sue cause presenti e dei suoi fattori genetici. In particolare, è stato enfatizzato il ruolo del nucleo psicotico che esiste in ogni individuo e delle speciali tecniche richieste per le comunicazioni psicotiche in pazienti non psicotici. La situazione chiave di pericolo che origina la follia viene definita angoscia di morte, ed è stato possibile identificare una sindrome specifica che io ora chiamo sovraesposizione alla angoscia di morte.

Questo quadro si presenta in individui per i quali morti, malattie e gravi separazioni hanno caratterizzato i primi sei anni di vita, o anche ogni periodo successivo se queste situazioni si sono presentate in forma drammatica - ad esempio come nel caso del suicidio di una persona amata, di un improvviso incidente, ecc... I pazienti che presentano questa sindrome mostrano in modo specifico una paura dei significati inconsci e richiedono tecniche speciali per essere mantenuti all'interno di una analisi significativi.

Parallelamente a queste nuove intuizioni si è scoperto che vi sono sostanzialmente, due tipi di psicoanalisi: la psicoanalisi dal setting sicuro e la psicoanalisi dal setting deviante. Nella prima, le regole di base ideali sono mantenute, le regole di base che vengono definite in modo indiretto dalla validazione delle risposte (a livello interpersonale e cognitivo) dei pazienti quando queste regole di base vengono proposte. Queste regole di base sono espressione dei bisogni inconsci dei pazienti stessi, così come vengono comunicati attraverso derivati in codice. Esse includono una tariffa prestabilita, una prestabilita durata delle sedute, una sede precisa, e un orario fisso per le sedute. Esse inoltre prevedono che il paziente usi il lettino, che il terapeuta si collochi dietro al lettino e che quindi sia fuori dalla sua vista, che il paziente segua la regola fondamentale delle associazioni libere, e che l'analista mantenga la neutralità e l'attenzione liberamente fluttuante. Gli interventi neutrali vengono definiti come quelli che ottengono una validazione in codice e da parte dei derivati; ne è risultato che gli interventi neutrali includono solo il silenzio appropriato, il mantenimento del setting sicuro, le interpretazioni e ricostruzioni formulate in modo appropriato - vale a dire quelle interpretazioni che incominciano con un commento sulle implicazioni degli interventi del terapeuta e delle selettive e accurate percezioni in codice del paziente.

Il setting sicuro include anche privacy totale, rispetto completo del segreto professionale e relativa anonimità dell'analista. Se una psicoanalisi contiene una deviazione da una qualunque di queste regole di base, inclusa la totale responsabilità del paziente per il pagamento e per tutte le sedute, allora essa viene definita una psicoanalisi dal setting deviante.

In breve, il setting sicuro dà al paziente una forte sensazione di holding e di contenimento, e favorisce un salutare funzionamento dell'Io. Esso dà al paziente l'immagine di un terapeuta sano, e favorisce lo sviluppo di una salutare simbiosi terapeutica. Però, a causa delle sue qualità restrittive, il setting sicuro mobilita intense angosce claustrofobiche, paranoide e di separazione. In particolare, è il setting sicuro quello che sembra essere una reminiscenza del fatto che la vita stessa ha dei limiti precisi per i quali l'unica uscita è la morte. Di conseguenza l'angoscia di morte ha un grande significato nelle terapie dal setting sicuro, poiché quando questi problemi vengono analizzati appropriatamente si hanno potenti effetti terapeutici - e contemporaneamente si riesce a comprendere la sensazione di pericolo provata da entrambi, paziente e terapeuta, in una situazione di setting sicuro. Di fatto i significati del setting sicuro fanno molta più paura dei significati del setting deviante, sebbene la loro elaborazione analitica porti al miglior adattamento possibile per il paziente.

Nella psicoanalisi dal setting sicuro gli interventi chiave riguardano la capacità del terapeuta di mantenere stabile il setting. Al contrario, nella psicoanalisi dal setting deviante gli interventi chiave sono le deviazioni del terapeuta, che forniscono al paziente modalità patologiche di gratificazione, di relazione e di difesa. In particolare, il setting deviante tende ad offrire al paziente difese controfobiche e maniacali-confusionali, che precludono una analisi approfondita delle sottostanti angosce corporee, depressive e di morte. Il beneficio immediato può essere notevole, ma le conseguenze negative saranno costituite da modalità di adattamento patologiche. Comunque in una terapia ben fatta, anche se caratterizzata da una situazione di setting deviante, l'analista può analizzare nel paziente le percezioni inconscie delle deviazioni delle quali anch'egli è responsabile, rendendo quindi più significativa questa modalità terapeutica. Per giunta, vi sono momenti di setting sicuro in ogni psicoanalisi dal setting deviante, dando così momentaneamente la possibilità di analizzare le angosce e i significati del setting sicuro.

Quanto detto finora non è altro che un accenno ai modi in cui la mia tecnica è cambiata in questi ultimi quindici anni. Ben più importante di queste modificazioni della tecnica è la ricchezza della comprensione che io ho ottenuto mediante la decodificazione dei derivati inconsci e lo sviluppo dell''approccio comunicativo' in psicoanalisi. Al momento, i miei interventi tendono ad una validazione attraverso derivati, e il mio mantenere il setting sicuro tende a rafforzare le funzioni dell'Io del paziente.

Anch'io mi sento più sicuro alla presenza di un solido setting analitico, e particolarmente soddisfatto nel formulare interventi validati che portano a un miglioramento sintomatologico e introspettivo. Eppure, l'approccio comunicativo ha individuato aree di paura inconscia che sono presenti sia nel paziente che nell'analista. Come nella vita stessa, il progresso si accompagna a prese di coscienza di nuovi limiti. La sfida, ora, per lo psicoanalista comunicativo, è capire la natura delle angosce di morte e del setting sicuro, e i modi coi quali i pazienti soggetti a queste angosce possono essere mantenuti in una significativa relazione analitica allo scopo di ottenere una effettiva guarigione. Dà comunque una particolare soddisfazione vedere come con le ricche intuizioni dell'approccio comunicativo sia stato possibile identificare nuove problematiche psicoanalitiche. Così spero di scrivere di nuovo su queste pagine tra dieci anni per descrivere le ulteriori modifiche della mia tecnica, le quali dipenderanno dalla soluzione di quei problemi che al momento rimangono insoluti.

(Traduzione di Paolo Migone)

Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 278-281

Malattie multiple concomitanti e terapia plurimodale: nuovo pardigma o vecchio modello?

George H. Pollock, Stati Uniti (80 North Michigan Avenue, Chicago, IL 60601, USA)

Io ho lavorato psicoanaliticamente con quattro pazienti che presentavano una diagnosi clinica di disturbo affettivo bipolare maniaco-depressivo. Ho lavorato inoltre con parecchi pazienti che hanno riferito di soffrire di almeno due diverse forme di depressione contemporaneamente, e ho analizzato due pazienti bulimici e un paziente anoressico. Sulla base di questa ricerca clinica, che conduco da circa dieci anni, sono arrivato alle seguenti conclusioni: 1) possono esistere, contemporaneamente, più disturbi emotivi e psicologici, e un disturbo può mascherare l'altro se non viene controllato farmacologicamente; 2) in questi casi è indicata una terapia congiunta che combina diverse modalità, cosicché entrambi i disturbi possono essere trattati nello stesso tempo; 3) è venuto il momento per noi di ritornare al vecchio modello di malattia, il che però non costituisce necessariamente un nuovo paradigma.

E' apparsa una vasta letteratura psicoanalitica sull'argomento dei disturbi maniacale e depressivo. I contributi clinici e teorici risalgono a più di settanta anni fa, e, tra gli altri, includono i lavori di Abraham, Freud, Fenichel, Lewin e Jacobson. Vi sono stati comunque altri lavori che hanno fornito dati significativi riguardo ai disturbi affettivi. Gaensbauer, Harmon, Cytryn e McKnew (1983) hanno identificato un gruppo di bambini (dai 12 ai 18 mesi di vita) ad alto rischio, i cui genitori erano maniaco-depressivi; questi bambini mostravano disturbi nella qualità del loro attaccamento e una diminuita capacità di autoregolare l'emotività e l'affettività. Più l'età cresceva, più aumentavano questi disturbi, e a 18 mesi questi bambini mostravano forti distorsioni dello sviluppo. Oltre alle predisposizioni genetiche, questi autori ipotizzano gli effetti dannosi dell'ambiente familiare. Gershon, Dunner e Goodwin (1971), e Winokur, Cadoret, Dorzob et al. (1971) hanno riportato una più alta percentuale di disturbi affettivi nei parenti dei pazienti maniaco-depressivi, se paragonati con la popolazione generale. Nei disturbi maniaco-depressivi è chiaramente evidente una componente genetica, ma non sono stati ancora compresi pienamente gli effetti combinati della predisposizione genetica e dei fattori ambientali per quanto riguarda il quadro clinico che osserviamo negli adulti.

Io propongo che invece di trattare un solo disturbo e quindi privilegiare una unica modalità terapeutica, sia meglio pensare alla esistenza di più disturbi che si presentano simultaneamente, ciascuno dei quali richiede la somministrazione della propria terapia specifica. Queste conclusioni derivano dalle mie osservazioni cliniche su pazienti che ho trattato per un lungo periodo di tempo. I miei pazienti maniaco-depressivi erano donne. Sappiamo che il disturbo unipolare depressivo si presenta nelle donne rispetto agli uomini con un rapporto di 2 a 1, ma che il disturbo unipolare maniacale si presenta con frequenza maggiore negli uomini, e si presenta con un rapporto, rispetto alle donne, di 3 a 2. Inoltre sappiamo che l'incidenza del disturbo maniaco-depressivo è più frequente nelle classi sociali privilegiate. Troviamo che specialmente nell'infanzia, ma anche più avanti nella vita, vi sono determinati eventi che determinano la "uscita" del paziente verso il disturbo maniaco-depressivo.

Nella mia casistica, due delle pazienti avevano perduto uno o entrambi i genitori nell'infanzia o nella prima adolescenza. Questa perdita era dovuta alla loro morte, anche se il divorzio può rappresentare un evento traumatico che determina "l'uscita" del paziente verso la malattia. Ho di fatto osservato l'aumento del desiderio sessuale negli episodi maniacali e la diminuzione di esso in quelli depressivi. I sogni spesso preannunciavano il manifestarsi di uno o dell'altro polo del ciclo maniaco-depressivo, e in parecchie circostanze le pazienti erano capaci di registrare il viraggio del proprio stato affettivo prima che questo diventasse clinicamente conclamato. In un caso, l'Io osservante della paziente le permise di predire il proprio livello ematico di litio che ella in seguito controllò tramite gli esami di laboratorio. L'Io osservante si mantenne abbastanza intatto nonostante le gravi oscillazioni dell'umore. Non posso dire che le oscillazioni delle mie pazienti furono soltanto nella sfera libidica (fase fallica). Ritengo invece di aver avuto la dimostrazione che i disturbi erano nell'area della aggressività e della libido, con regressioni a fasi molto più precoci dello sviluppo: per esempio, aumentata oralità - crescita del peso corporeo, dell'uso di alcool, insonnia o ipersonnia, eccessivo uso di sigarette. Nel corso del trattamento, comunque, una volta che fu possibile instaurare una solida alleanza terapeutica, le pazienti furono capaci di distinguere i problemi psicologici da quelli "biologici". Fu possibile instaurare e identificare il transfert, ottenere insight, gestire le relazioni personali esterne in modo più realistico e distinguere più accuratamente tra passato e presente, transfert, e realtà storica.

Ora è stato meglio studiato il fenomeno della "ciclizzazione rapida", e quindi il problema della possibile inefficacia del litio in questi casi - ma qui ancora l'Io osservante dei pazienti permette loro di anticipare i viraggi affettivi e di essere meno traumatizzati, meno feriti narcisisticamente, meno danneggiati a livello psicosociale. I sogni continuano, e alcuni pazienti sembrano procedere su due binari, quello del processo psicoanalitico e quello della progressione bio-farmacologica.

Le mie pazienti hanno avuto disturbi psicologici che potevano essere diagnosticati come personalità ossessivo-compulsiva, isteria d'angoscia, isteria di conversione, personalità depressiva, in concomitanza al disturbo maniaco-depressivo.

William Osler propose di tentare di far rientrare tutti i sintomi all'interno di un'unica diagnosi e, in una certa misura, noi abbiamo seguito questo principio. Però questo può non essere più valido quando lavoriamo con pazienti di pertinenza medica.

Per esempio, un paziente può avere una miopia, un mal di gola e anche una ernia ombelicale. Non sarebbe corretto prescrivere la penicillina come terapia per l'ernia ombelicale e neppure le lenti di correzione per il mal di gola. In altre parole, il trattamento deve essere rivolto verso la situazione che richiede una terapia, correttiva o riabilitativa che sia. Similmente, io ritengo che sia giunto il momento per noi di incominciare a parlare di terapie specifiche per disturbi specifici, e ciò presuppone un esame più accurato delle nostre premesse sulla psicopatologia e le sue molte e complesse cause. Questo compito può non essere così facile, dato che abbiamo di fronte molte variabili, ma non credo sia impossibile; con l'ausilio delle tecniche più recenti noi potremmo essere capaci di scoprire dimensioni che ci aiuteranno nella nostra ricerca.

Quello di cui abbiamo bisogno è un maggior numero di studi epidemiologici e clinici, di ricerche sullo sviluppo infantile, di dati derivati dal trattamento psicoanalitico - specialmente di pazienti con disturbi affettivi. La terapia psicologica unita alla terapia farmacologica aiuterà non soltanto i nostri pazienti, ma ci permetterà di ottenere dati precedentemente non disponibili. Individuare casi di neonati, bambini e adolescenti dove tali disturbi siano presenti e dove l'osservazione attenta di individui ad alto rischio può permettere la diagnosi di disturbi prima che questi diventino clinicamente conclamati, ci permetterà di intervenire prima che la malattia interferisca seriamente nello sviluppo. La psicoanalisi può e deve essere parte di questo sforzo preventivo, terapeutico e di ricerca.

Bibliografia

Gaensbauer T.J., Harmon R.J., Cytryn L., McKnew D. (1983), Social-affective development in infants of maniac depressive patients. Manoscritto non pubblicato.

Gershon E.S., Dunner D.L., Goodwin F.K. (1971), Toward a biology of affective disorders. Archives of General Psychiatry, 25: 1-15.

Winokur G., Cadoret F., Dorzob J., et al. (1971), Depressive disease: a genetic study. Archives of General Psychiatry 24: 135-144.

(Relazione presentata all'Incontro autunnale della American Psychoanalytic Association, New York, 17 dicembre 1983. Pubblicata anche in The Annual of Psychoanalysis, 1986, XIV, New York: Int. Univ. Press. Traduzione di Paolo Migone)

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