LA MALINCONIA CLINICA NELL'OTTICA FENOMENOLOGICA: UNA SFIDA PER LA PSICHIATRIA MODERNA Francesco Silvetti * Cultore della materia presso la Cattedra di Psicologia Generale del Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane - Università degli Studi, Cagliari
Una storia di malinconia clinica
"Non le darò un nome. La malattia rappresenta, nel nostro peregrinare, l'incognita permanente: una specie di oggetto invisibile prima ancora che una forza ostile" Carmelo Samonà (1)
In Psichiatria, oggi, è il tempo delle scelte: la scelta di una modalità di fare psichiatria non può comportare, certo, la negazione di altre chiavi di lettura della sofferenza mentale: perché questo diverrebbe la trionfalizzazione ideologica di una onnipotenza scientifica, culturale e terapeutica destinata al fallimento. Questo mio scritto affonda le sue radici su uno dei possibili orizzonti tematici, quello che fa riferimento alla psichiatria fenomenologica: che si confronta nella sua prassi quotidiana con quelle realtà che la psichiatria naturalistica non prende in considerazione o, in ogni caso, tende a considerare irrilevanti nella sua prassi. I sentieri (2) che la psichiatria fenomenologica intende percorrere, sono situati in territori per loro natura complessi ed articolati: labirintici ed enigmatici: che sono, in ultima analisi, quelli relativi alla esistenza (alla presenza in questo mondo (3, 4), nel senso di Danilo Cargnello) di ciascun essere umano. La psichiatria, a ben guardare, di che cosa si occupa (infatti) se non delle questioni fondamentali della condition humaine che riguardano ognuno di noi: la gioia e la tristezza (sia qualora queste si esprimano attraverso modalità somiglianti a quelle che tutti noi conosciamo, sia quando si manifestino in modo qualitativamente diverso dalle prime), il tedio e la noia, la malinconia e la speranza, il dolore e la disperazione? Se si trascurassero queste realtà, si perderebbe di vista il significato autentico del fare-psichiatria: in questo ambito, invece, ci si deve confrontare anche con situazioni (e dimensioni esistenziali) che non hanno nulla a che fare con tecnologie, etichette, codici e numeri (statistiche): cose, queste, tanto care alla psichiatria oggi dominante (quella naturalistica, intendo). Vorrei, in questa sede, affrontare il discorso relativo all'esperienza depressiva (alla malinconia clinica (5,6), in particolare): perché mi pare rappresenti un esempio emblematico di come una realtà clinica (perché essa costituisce anche una realtà clinica: al di là di ogni dubbio) nasca, e si strutturi, in primo luogo come esperienza individuale: e in quanto tale, racchiuda in sé una cifra antropologica, e psicopatologica, dalla quale non è possibile prescindere. Se si trascurasse l'aspetto ermeneutico (legato, cioè, al senso delle diverse componenti fondanti questa esperienza depressiva), si precipiterebbe nelle tenebre in cui tutte le depressioni sono uguali: e si commetterebbero, così, errori irreparabili sul piano terapeutico. La netta, e fondamentale, separazione tra i diversi quadri depressivi, invece, si può (e si deve) realizzare solo attraverso un metodo che affondi le sue radici nella fenomenologia: che ha dimostrato come la depressione endogena (la malinconia clinica o depressione psicotica, cioè) sia caratterizzata da specifiche trasformazioni qualitative delle normali (cioè delle comuni) esperienze vissute (mi sto riferendo a quella relativa al tempo, in particolare): modificazioni del tutto assenti nei quadri depressivi reattivi (neurotici) (5-9). Se vogliamo davvero comprendere il significato di queste cose, incominciamo con l'accogliere, dunque, il monito di Eugenio Borgna: senza farci distrarre da inutili, e fumosi, discorsi: "La psichiatria, questa sfinge, che non conosciamo perché nascosta nelle sue fondazioni ultime ma che non conosciamo (anche) perché non accettiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, di guardare negli specchi in cui si riflettono i nostri volti e le nostre ansie, le nostre inquietudini e le nostre speranze, le nostre vertigini e i nostri silenzi. La psichiatria (ancora) che si nasconde soprattutto a coloro che l'affrontano e la studiano con gli strumenti gelidi della ragione astratta e geometrica, e non con quelli dell'intuizione e delle ragioni del cuore. Ciascuno di noi vive come se la psichiatria fosse un'estranea: una realtà sconosciuta e inutile; come se la esperienza psicotica, in particolare, fosse un'esperienza di un altro pianeta che non abbia mai a sfiorare la nostra personale condizione di vita. Cose, queste, che si fanno ancora più radicali quando sia in gioco l'esperienza schizofrenica sulla quale si addensano (senza risposta) le infinite domande della psichiatria" (10). Il monito è racchiuso nell'invito ad abdicare ad ogni tecnicismo (a qualsivoglia riduzionismo di matrice naturalistica), per affrontare realtà che riguardano ciascuno di noi: che possono riguardare, in particolari momenti, ogni essere umano, al di là di "sintomi" o di "disturbi". Allora, non sono i "sintomi" (messi l'uno di seguito all'altro) a rivelare un "disturbo": è l'articolazione organica dei segni la loro aggregazione consegnata al senso), che consente di cogliere la struttura (il nucleo bruciante) di una condizione depressiva. Il sintomo, qui, deve fatalmente lasciare spazio al segno, che diviene portatore di significati: mentre "il sintomo chiuso al senso, il segno è aperto al senso" (11). Solo così, accostandosi al vécu (nel senso di Eugène Minkowski (12, 13), ovviamente), non ci si limiterà a fare un semplice inventario: sterile e anti-terapeutico.
Una storia di malinconia clinica "... Un esistere nudo, esposto al dolore, tormentato dalla luce, ferito da ogni suono". Hguo von Hofmannsthal (14) Valentina ha ventiquattro anni quando sprofonda in una condizione di malinconia clinica: non è la prima volta che ciò accade, in alternanza a periodi caratterizzati da una gioia effimera, che brucia e si consuma come fuoco di paglia. La vedo per la prima volta mentre piange un pianto irrefrenabile e disperato, risponde con molta difficoltà alle domande che le vengono poste. Da tre settimane ha lasciato gli studi perché l'attenzione e la capacità a concentrarsi l'hanno completamente abbandonata; non ha più appetito e perde gradualmente peso. Al mattino si sveglia prestissimo, pietrificata da un'angoscia che non riesce a gestire e a controllare. Dice, parlando a fatica, di sentirsi inutile, incapace a fronteggiare qualsiasi cosa: fisicamente appare molto rallentata, i movimenti sono lenti ed appesantiti, la parola è sussurrata e strascicata, la mimica del volto svuotata di espressività. Non sembra (solo apparentemente) essere successo nulla, negli ultimi tempi, che possa giustificare una simile condizione di disperazione; ma ecco le sue parole: "Sento di non valere niente. Non dovrei esistere. Mi sento solo responsabilità e colpe addosso. Perché mi sta capitando tutto questo?". Analizzando, durante i colloqui (sia pur solo indiziari, in quanto molto frammentati dal pianto) il suo sentimento di colpa, quest'ultimo sembra esser riconducibile al solo fatto di esistere: non sono, cioè, specifiche azioni (od omissioni) a causare preoccupazione o rimorso, ma "l'esse si fa motivo di tormento della coscienza" (11). Nella malinconia clinica, il sentimento di colpa può scaturire anche da particolari azioni: può, cioè, essere motivato da qualcosa di definito (di concreto) che si sa (o si pensa) di aver (o di non aver) fatto. È un sentimento di colpa, questo, che si struttura come conseguenza della condizione depressiva: si parla, allora, di colpa secondaria (11). In chi si trovi ad essere immerso in questo tipo di depressione, però, si può assistere alla epifania di un sentimento di colpa che è qualitativamente diverso dal primo (e da quello che si osserva nelle depressioni neurotiche). La genesi di questo sentimento di colpa va ricercata nel solo fatto di esserci: ci si sente colpevoli perché si esiste, perché si vive. È, questa, la colpa ontologica, quella che viene anche definita colpa primaria (11,15). "Si ha in questi casi - ha scritto Borgna in una raffinatissima analisi fenomenologica sull'argomento (16) - una desolazione così assoluta e così disperata che non solo l'esistenza si vuota di ogni significato e di ogni speranza ma essa è anche sentita come una inutile (dolorosa) sopravvivenza della quale si è colpevoli fino in fondo". Le condizioni generali di Valentina sono ulteriormente complicate dalla presenza di ideazioni francamente ossessive, che si strutturano come tipiche di un quadro depressivo: "Sto facendo soffrire anche il mio fidanzato perché mi fisso con l'idea che non lo amo e invece so benissimo che non è vero; ma il dubbio mi perseguita, mi attanaglia, mi assilla, non mi lascia in pace un secondo. Come posso studiare in queste condizioni? Come faccio a vivere in questo modo?". Si colgono, nella loro graduale epifania, la chiusura sempre più netta verso il futuro e l'inesorabile frantumarsi della speranza. La profonda metamorfosi (qualitativa) del tempo vissuto costituisce uno degli elementi più significativi dell'esperienza melanconica. Le ricerche fenomenologiche sono state in grado di scomporre (di differenziare) ciò che comunemente viene definito tempo: e questa analisi assume una importanza imprescindibile qualora venga applicata alla psicopatologia e, in particolare, alla depressione endogena. Vorrei ricordare, a questo proposito, la distinzione fatta da Minkowski, sulla scia delle ricerche di Straus e di von Gebsattel, a proposito delle differenze sostanziali che esistono tra il tempo immanente e il tempo transitivo (12): il primo è il "tempo (vissuto) dell'io", che ha caratteristiche assolutamente uniche in ciascun individuo; mentre il secondo è il "tempo del mondo", il quale "riguarda il cammino del tempo che abbiamo in comune con gli altri esseri umani e, pur avvicinandosi per conseguenza al tempo oggettivo, se ne distingue per il fatto che possiede punti elettivi, come l'ëadesso', l'ëoggi', l'ëieri', ecc." (12). Il secondo, "il tempo del mondo", in alcune situazioni, può non corrispondere al primo: entrambi, in ogni caso, si differenziano dal tempo oggettivo (quello scandito dalle lancette dell'orologio). Nella malinconia clinica, i due tempi appaiono separati da un baratro incolmabile. Il presente del melanconico, gravato e appesantito anche dalla sintomatologia somatica e privato del futuro (dell'idea del futuro), perde i suoi limiti e i suoi confini: questa presentificazione della esistenza affonda le sue radici anche in un processo di confusione (di perdita della differenza, cioè) con un passato incombente costituito solo da ricordi angoscianti e da insostenibili rimorsi. In riferimento alla metamorfosi del tempo vissuto nella Lebenswelt malinconica, non è possibile tralasciare le cose che ha scritto Bruno Callieri in uno dei lavori (17) più belli tra quelli pubblicati negli ultimi anni. Scrive Callieri (17): "Vivere - dicevano i saggi - è fare buon uso del tempo, cioè cogliere la piena realtà dell'esperienza, con le sue contraddizioni, i suoi successi e i suoi scacchi; quindi esperire la propria temporalità secondo un tempo vissuto in funzione di un tempo da vivere, in perpetua genesi: un tempo ripreso, ricominciato, perseguito, dipanato, non un temps figé (Le Guen), non un tempo suicidario, non il tempo chiuso e sbarrato dell'angoscia e della disperata depressione, senza scampo". "Ma vivere - continua Callieri - è anche spazializzazione dell'esistenza, spazio aperto, movimento che diviene linguaggio, comunicazione, possibilità di dialogo. Ecco invece che l'esperienza vissuta melanconica si situa in uno spazio ridotto, coartato, bloccato, in uno spazio che si muove solo verso la chiusura, il barrage, l'eclisse". "Ecco quindi la grande solitudine del depresso ancorarsi, secondo me, al disturbo profondo della temporalità e della spazialità, al disturbo del ëdivenire', nel senso di von Cebsattel: è questo il disturbo patogenetico fondamentale (la Grundstörung) della melanconia, con il suo innegabile ancoraggio al bios (se si vuole, anche circadiano, anche cronobiologico. (...) Non è previsione intellettuale di un futuro che si pone come determinato in base ai precetti di un'esperienza in formazione, ma è sapere profetico all'interno di un futuro che si pone all'interno di un'esperienza in formazione, all'interno di un tempo già tutto dato, senza più svolgimento possibile, hortus conclusus, tanto che può dirsi: si dà memoria del futuro" (17). La quotidianità melanconica (lacerata dalla angoscia, privata di ogni slancio verso un possibile futuro, svuotata di qualunque significato positivo) agonizza in una parabola discendente che può avere, a volte, il suo esito nel suicidio. Non è facile sondare i territori in cui si nasce, e si struttura, l'idea della morte volontaria: perché è necessario avere la consapevolezza che non può esistere una sola risposta agli infiniti interrogativi che questo gesto racchiude in sé. Anche la psichiatria, in fondo, può solo accostarsi (in silenzio) all'ora che Rainer Maria Rilke ha chiamato "sorella delle altre ma diversa" (18), in cui la vita trova la sua conclusione. Dinanzi al mistero (come Karl Jaspers (19) lo ha definito) del suicidio, c'è spazio solo per risposte frammentarie, e qualsiasi discorso non può se non essere parziale e indiziario. Non esiste, certo, depressione (endogena) che non abbia a confrontarsi con il tema della morte: con la morte temuta (penso, ad esempio, all'ipocondria delirante del melanconico), e con la morte desiderata; con la morte possibile e con quella, al contrario, che appare impossibile a realizzarsi (2, 5, 11), Nella depressione (in questa depressione), l'aspirante suicida desidera morire per porre fine alle sofferenze: il suo gesto è, in questo senso, inesorabilmente condizionato dalla sofferenza indicibile in cui si trova a vivere: morire, allora, significa non vivere e, quindi, non soffrire più. A volte, però, l'idea della morte (possibile) può strutturarsi come un progetto che vada al di là di quella vita (lacerata dalla sofferenza): può significare intravedere nella morte, una possibilità di riscatto esistenziale: può significare, in definitiva, sperare in una nuova forma di vita. Ricollegandomi al fondamentale discorso svolto da Borgna (20) a questo riguardo, l'idea del suicidio, in questi casi, nasce allora come "ricerca di una vita diversa: la morte diviene qualcosa che dilata il futuro e ne recupera il senso; e la morte volontaria è vissuta come una ultima possibilità di salvazione" E ancora: "La morte viene ricercata non nella coscienza (nella-consapevolezza) del suo senso profondo; mai nella determinazione fatale di non-poter-fuggire al suo richiamo (alla sua chiamata). Nella malinconia, insomma, la azione autodistruttiva si svolge nell'area di una libertà sempre più ristretta e sempre più assediata dalla necessità; benché non si possa dire, ed in fondo non si sappia, fino a che punto l'una escluda, e riassuma in sé, - l'altra" (20). L'idea della morte (della morte possibile), indissolubilmente legata alla frantumazione dell'idea del futuro (e della speranza), si coglie facilmente nei discorsi di Valentina: "Non ce la faccio più a continuare così: non ha senso. Soffro e basta. Domani sarà uguale a oggi: solo sofferenza. Non riesco a vedere una via d'uscita. Vorrei un po' di serenità; non voglio più sentire questo dolore. Mi basterebbe addormentarmi e non svegliarmi più". I legami tra il futuro e la speranza (la struttura esistenziale e psicopatologica della speranza) sono inscindibili: e qualsiasi discorso relativo all'esperienza-depressiva non può sfuggire al confronto con l'analisi della fenomenologia della speranza nei suoi complessi rapporti con il tempo vissuto. Nella malinconia clinica, la metamorfosi del tempo vissuto si accompagna inesorabilmente alla perdita della speranza: questa perdita (questa frantumazione) non è unicamente indirizzata verso qualcosa di specifico, non è solamente orientata verso un oggetto. Questa disperazione (questa lacerazione della speranza) si dilata fino ad inglobare anche la perdita della possibilità di sperare in qualcosa di indefinito. Si assiste, allora, alla scomparsa dell'ultima speranza: di quella che, fenomenologicamente è stata definita Espoir (5). In questa disperazione, il tempo è un tempo chiuso: mentre la speranza rimanda indissolubilmente ad un tempo aperto (5). Questi concetti (queste idee) si colgono dalle parole della paziente: "Sono disperata. Nessuno mi può aiutare, né lei né i farmaci... non ne uscirò più, non ritornerò mai a fare una vita normale. La mia angoscia e le mie paure non mi abbandoneranno. Lo so, lo sento, non potrò fare più nulla". Le parole di Valentina sono sigillate dalla assenza radicale della possibilità di sperare in qualcosa: dalla certezza irremovibile che nel futuro non potrà esserci nulla di positivo. Durante le prime settimane di terapia non si assiste ad alcun significativo miglioramento delle sue condizioni generali: che continuano ad essere sigillate da una ghiacciata chiusura nei confronti del mondo che la circonda. L'unica possibilità d'intervento (oltre ad un'adeguata terapia farmacologica) si può concretizzare nello stare seduti accanto a lei, senza delegare ogni cura al farmaco. Questo gesto (questa disposizione terapeutica, la chiamerei) sembrerebbe inutile, precario ed inconsistente. Valentina, infatti, si trova ad essere immersa in una solitudine (apparentemente) impenetrabile, che non sembra possa essere scalfita da farmaci (da terapie mediche, in senso stretto) o da parole di alcun tipo. Col passare dei giorni, intorno alla terza settimana di terapia, si cominciano ad intravedere, in Valentina, alcuni pallidi miglioramenti: il primo segnale è un sorriso (fragile e quasi timoroso) col quale una mattina mi accoglie. L'incedere è leggermente più spedito del solito, i movimenti meno appesantiti ed impacciati: il volto, a tratti, sembra manifestare, nuovamente, espressioni di ritrovata serenità ed apertura al mondo. Nel corso della giornata, mi dirà che si è svegliata meno angosciata rispetto ai giorni precedenti, anche se con una grande stanchezza: "Ho la vaga sensazione che, nonostante tutto, oggi le cose vadano meglio; ho paura a dirlo, ma mi sento un po' più forte; sono ancora molto triste, non ho voglia di fare nulla, di parlare con le amiche che mi telefonano o di uscire col mio fidanzato. Lui, comunque, lo sento per telefono... mi fa piacere... gli voglio bene". "Non le so spiegare cosa stia provando in questo momento". "È come se qualcosa stesse piano piano cambiando. Ma non so essere più precisa. È una sensazione che non riesco ancora a capire e a verbalizzare". Nei giorni successivi, si assiste ad un progressivo miglioramento delle sue condizioni cliniche: la stanchezza fisica diminuisce, il risveglio è un po' più sereno; pensare, mi dice, è meno faticoso. Il futuro sembra dischiudersi nuovamente alla speranza di guarire, di riprendere gli studi, e di tornare alla vita di prima. Anche i sentimenti di colpa si attenuano, e i segni dell'esperienza che Valentina si sta ormai lasciando alle spalle vengono compresi meglio, nella loro genesi e nel loro significato. "Sono stata davvero molto male. Mi venivano in mente idee terribili che mi toglievano ogni energia e ogni speranza di guarire. Svegliarmi era un incubo, venire qui era una fatica enorme. Ho pensato spesso alla morte: forse non l'ho fatto per i miei genitori... Vivere era un peso insostenibile: credo che non mi rendessi nemmeno conto di essere malata. Sentivo una grande confusione. E poi la sensazione di essere sempre in colpa... mi schiacciava... era insopportabile". Valentina, dopo aver assunto i farmaci, adesso va via da sola: salutandomi con un sorriso che mi appare, ogni volta, come la luminosa immagine di un effettivo concreto miglioramento.
Cosa può dire (cosa può dirmi) una storia come quella di Valentina? Cosa posso comprendere della realtà (del mondo) di una esistenza che soffre, e chiede aiuto, come quella della mia paziente? Certo, al di là di ogni dubbio, in Valentina era presente una condizione di depressione clinicamente rilevante (e ad elevato rischio suicidario, peraltro): e, quindi, la terapia farmacologica ha costituito un'arma indispensabile: l'importanza della quale, solo una fumosa psicologia da strapazzo, avrebbe potuto (o potrebbe) misconoscere e negare. Detto questo, è pur vero che anche in situazioni come queste (in cui la sintomatologia clinica è palese: e un intervento farmacologico adeguato è doveroso), non può mai venir meno un orizzonte di senso che lo psichiatra deve attribuire ai fenomeni che osserva, e dei quali diviene (inesorabilmente) protagonista anch'egli: nel momento in cui chi soffre gli affidi la sua sofferenza e il suo destino. Non è pensabile, in ogni caso, che la terapia farmacologica non venga inserita in un contesto dialettico (dialogico) anche nelle situazioni nelle quali (apparentemente) l'unica cura sia quella medica in senso stretto (21). Questo contesto dialogico (in senso ampio) è costituito da chi ha bisogno di cura e da chi ha il compito di curare, in un reciproco (e sempre ri-definibile: a seconda delle situazioni e dei momenti contingenti) scambio: psichiatra e paziente si trovano a dover con-dividere (sempre e comunque) uno spazio vissuto che, dal momento del primo incontro, diviene comune: e all'interno del quale (in definitiva) può nascere, e strutturarsi, una relazione terapeutica significativa, il cui fine ultimo è la cura dell'Uomo nel senso definitivo di Ludvig Binswanger (22).
1. SAMONà C: Fratelli, 1991; Garzanti, Milano. 2. BORGNA E: Come se finisse il mondo. Il senso dell'esperienza schizofrenica, 1995; Feltrinelli, Milano. 3. CARGNELLO D: Alterità e alienità, 1977; Feltrinelli, Milano. 4. CARGNELLO D: Analisi della presenza come locuzione italiana equivalente al termine composto tedesco Daseinsanalyse, Psich Gen Età Evol 1992; V. 30:377-392. 5. BORGNA E: Malinconia, 1992; Feltrinelli, Milano. 6. CALLIERI B: Lo scacco della donazione di senso nella psicosi melanconica: aspetti antropofenomenologici, NóoS, 1995; 1:61-70. 7. BORGNA E: L'immagine psicopatologica e clinica, In: AA.VV, La cura dell'infelicità, Theoria, Roma-Napoli, 1994; pp. 29-55. 8. BORGNA E: La dissolvenza della morte nell'esperienza depressiva, Riv Sperim Fren, V. CXIV, 1990; 2:355-369. 9. BORGNA E: La psicopatologia delle depressioni ha ancora un senso, oggi? Riv Sperim Fren, 1992; V. CXVI, 3:499-509. 10. BORGNA E: Come se finisse il mondo, Cit., p. 17. 11. BORGNA E: I conflitti del conoscere, 1988; Feltrinelli, Milano. 12. MINKOWSKI E (1933): Il tempo vissuto, 1993; Einaudi, Torino. IX ed ital a cura di Paci E. 13. MINKOWSKI E (1966): Trattato di psicopatologia, 1973; Feltrinelli, Milano. Ed ital a cura di Francioni M. 14. VON HOFMANNSTHAL H: Ieri, Pordenone: Ed Studio Tesi, 1992; p. 36. 15. CALLIERI B: Il senso di colpa. Aspetti di psicopatologia antropologica, In: AA.VV, La cura dell'infelicità, Cit. 16. BORGNA E: I conflitti del conoscere, Cit, pp. 133-145. 17. CALLIERI B: La depressione: solitudine dell'essere o crisi dell'amore, Riv Sperim Fren, V. CXIV, 1990; 6:1207-1217. 18. RILKE RM: Requiem ed altre poesie, 1992; Mondadori, Milano. Trad ital a cura di Donati G, p. 85. 19. JASPERS K (1913): Psicopatologia generale, 1988; Il Pensiero scientifico Ed, Roma. Ed ital a cura di Priori R. 20. BORGNA E: I conflitti del conoscere, Cit, p. 159. 21. SILVETTI F: I labirinti dell'anima. Conflitti e limiti della psichiatria moderna, 1997; Demos Editore, Cagliari. 22. BINSWANGER L (1957): La psichiatria come scienza dell'uomo, 1992; Ponte alle Grazie, Firenze. Ed ital a cura di D'Ippolito BM. © POL.it 2000 All Rights Reserved |