CRITERI PSICOPATOLOGICI E CLINICI NELLA DIAGNOSI DI SCHIZOFRENIA Eguenio Borgna, M.T.Ferla, Chiara Guglielmetti (Servizio di Psichiatria, Azienda Ospedaliera "Maggiore della Carità", Novara)
La psicopatologia non è clinica L'orizzonte di conoscenze della psichiatria clinica L'orizzonte di conoscenze della psicopatologia L'orizzonte di conoscenze della psicopatologia Gli scenari sembrano cambiare quando si abbia a che fare con la psicopatologia, con l'indagine psicopatologica, che è indirizzata a cogliere le costellazioni micromolecolari, i contenuti di ogni singola funzione psichica, scendendo lungo i sentieri frastagliati e segmentati della vita interiore (della soggettività) dell'altro-da-noi confrontata con la nostra soggettività. Quando Eugen Bleuler (10) ha introdotto il termine di schizofrenia, sostituendolo a quello di dementia praecox, ha spostato radicalmente e vertiginosamente l'asse della conoscenza e della denominazione della forma morbosa dal piano di una esperienza psicotica, che si riconosca e si costituisca utilizzando criteri clinici, a una esperienza psicotica che si abbia a definire e a diagnosticare mediante criteri non clinici (comportamentali ed esteriori) ma, appunto, psicopatologici (interiori e immedesimativi). Non solo: parlando di schizofrenia, Eugen Bleuler ha inteso sottolineare la sindromaticità degli elementi sintomatologici, che contrassegnano la ragione d'essere di questa, che è l'esperienza psicotica par excellence, e l'importanza della dissociazione (sintomo micromolecolare) nel farne diagnosi. Nel solco delle grandi analisi bleuleriane e jasperiane si è, così, indotti a sottolineare come la descrizione e l'analisi, e cioè la conoscenza, non siano possibili in psicopatologia senza la partecipazione radicale della soggettività del medico alla soggettività del paziente. Non c'è una modalità astratta e impersonale, in psicopatologia, ma in essa ogni forma di conoscenza è implacabilmente implicata e immersa in una circolarità ermeneutica che trascini con sè la interiorità (la soggettività) del paziente e la soggettività (la interiorità) del medico. Non c'è, dunque, possibilità di conoscenza in psicopatologia, non c'è captazione possibile degli orizzonti infiniti che fanno da sfondo ai sintomi (ai fenomeni), che possano fare a meno delle connessioni radicali con l'area sfuggente e problematica, ma essenziale, della intersoggettività. Non è possibile fare della psicopatologia, non è possibile sondare i modi di vivere e di ri-vivere (le cose e le situazioni) da parte dei pazienti se non si rinuncia a ogni atteggiamento di neutralità, di fredda e gelida scientificità, di fronte a loro, e se non ci si serve della intuizione e della immedesimazione. Ancora: solo mettendo fra parentesi ogni impostazione ideologica, ogni teoria che si sovrapponga come un diaframma impenetrabile alle realtà umane (normali o patologiche), solo muovendo dalle esperienze vissute dai pazienti e mettendoci dalla parte dei pazienti mediante una conoscenza che si abbia ad alimentare, appunto, di immedesimazione e di intuizione, è possibile cogliere le dimensioni e le interne articolazioni della vita psichica e il senso che da essa, di volta in volta e di situazione in situazione, riemerga: frastagliato e straziante, doloroso e opaco, silenzioso e nostalgico. Una psichiatria, che faccia a meno delle labili sonde della psicopatologia, delle sonde che abbiano a fare lievitare le stratificazioni magmatiche delle emozioni, si trasforma, o rischia di trasformarsi, in una meccanica applicazione di metodologie meramente cliniche incentrate sui comportamenti e sui modi di essere esteriori dei pazienti: come si è già sottolineato, del resto, nelle pagine precedenti. Qualche osservazione ancora su questo tema e su questi aspetti del discorso. La psicopatologia, la decifrazione dei segni dotati di senso, consente una conoscenza più radicale e più profonda dei modi di essere di ogni esperienza neurotica e di ogni esperienza psicotica, e consente anche di riconoscere le differenze categoriali che separano le esperienze neurotiche da quelle psicotiche: tematizzando ciascuna di esse nei suoi contenuti e nelle sue articolazioni formali che rimandano alle radicali epistemologie jasperiane (3). La psicopatologia si riflette anche nei modi con cui la diagnosi, in psichiatria, abbia a essere rifunzionalizzata. Solo nella ricerca degli elementi psicopatologici, che la costituiscono, la diagnosi riassume una sua emblematica significazione dialettica e dialogica che nasce e si continua fra paziente e medico: nel contesto di una relazione interpersonale, di una rifondazione intersoggettiva della relazione, che sfugga a ogni reificazione e a ogni negazione del senso e che non rinunci mai alla intuizione e alla immedesimazione come strumenti essenziali di conoscenza. Ma la psicopatologia consente infine di realizzare una farmacopsichiatria che si indirizzi selettivamente alle singole sindromi psicopatologico-cliniche. Ma a quali risultanze, a quali contenuti e a quali modi di essere psicotici ( e neurotici), in particolare a quali modi di essere schizofrenici, giunge una indagine psicopatologica che analizzi, dunque, le diverse funzioni psichiche nelle loro articolazioni modali e tematiche? Ovviamente, non ci è possibile se non svolgere un discorso di sintesi e di ricapitolazione critica: alcuni sintomi guida della schizofrenia, come l'autismo (considerato sintomo fondamentale da Eugen Bleuler) (10), la dissociazione, le modificazioni della esperienza dell'io (riguardate da Kurt Schneider come strutture portanti di ogni fenomenologia schizofrenica) (11), come anche le modificazioni della esperienza del tempo e dello spazio così magistralmente analizzate nei lavori di Hubertus Tellenbach (12), e come del resto le diverse modalità di rivivere affettivamente le situazioni e gli eventi vitali, sfuggono fatalmente ai criteri conoscitivi rigidamente clinici e si rivelano invece ai criteri conoscitivi psicopatologici. Solo, infatti, con la rivoluzione copernicana che Karl Jaspers (3) ha introdotto in psichiatria sottolineando l'importanza decisiva della soggettività nel conoscere e nel fare-diagnosi, questi sintomi sono riemersi nella loro fenomenologia. I criteri psicopatologici di analisi di una forma di vita (di una Lebensform) schizofrenica conducono alla valutazione e alla delimitazione di sindromi e non già di malattie; ed è ciò, che è avvenuto, nel momento in cui dal termine di dementia praecox si è slittati in quello di schizofrenia nel senso di Eugen Bleuler. (La valutazione del decorso di una esperienza psicotica, o neurotica, rientra invece nei criteri di captazione e di delimitazione non della psicopatologia ma, ovviamente, della psichiatria clinica; e già questo significa che il giudizio diagnostico e prognostico complessivo non può configurarsi se non sulla base di una integrazione e di una aggregazione dialettica dei criteri clinici e di quelli psicopatologici: non essendo giustificata una escalation trionfalistica ed enfatizzata che abbia a privilegiare gli uni o gli altri criteri di analisi e di valutazione). Certo, lo slittamento dal conoscere clinico a quello psicopatologico trascina con sè un indebolimento degli elementi di tipicità e un accrescimento di quelli di atipicità; nel senso che la connotazione clinica dei modi di insorgere e di evolversi di ciascuna esperienza schizofrenica, benché non sempre univoci e omogenei, ha in sè una Gestalt e una impronta di alta pregnanza; e questo fino al punto che alcuni autori, come Henri Ey (13) che ha svolto lavori di straordinaria significazione psicopatologica e clinica, hanno sostenuto che la natura e la ragione d'essere della schizofrenia si possono fondare e giustificare solo nella misura in cui si tenga presente (kraepelinianamente, del resto) la evoluzione della forma morbosa: la sua scansione implacabile e fatale. Cosa che non è, oggi, accettabile ovviamente; anche se non è possibile negare che alcune delle forme di vita schizofreniche mantengano, al di la di ogni strategia terapeutica e riabilitativa, la tendenza a una evoluzione inafferrabile. In ogni caso, l'analisi del decorso consente di cogliere meglio quello che c'è di tipico in una esperienza schizofrenica; meglio che non una analisi fondata sulle aggregazioni psicopatologiche: nelle quali l'oscillare fra tipico e atipico si fa molto più significativo. Una ultima cosa; e anche questa induce a ritenere che non sono possibili assolutizzazioni, in psichiatria, ma che è invece necessaria una alta coscienza critica della relativizzazione delle cose. La considerazione psicopatologica, anche se più fragile e più sfuggente che non quella clinica, consente di riguardare l'esperienza schizofrenica nella sua dimensione dilemmatica: nel senso che essa, alla luce della psicopatologia, si svolge e si viene articolando come una forma di vita a volte intensa, drammatica e radicale, ma a volte come una forma di vita sfumata, sfibrata e oscillante: molto più vicina, cioè, a una esperienza che possa fare parte, sia pure solo virtualmente (sul virtuale vorremmo rinviare al bellissimo libro di Pierre Levy) (14), della condizione umana. Intendiamo richiamarci nel dire questo alla tesi suggestiva di Asmus Finzen (9) che ha prospettato l'esistenza di uno spettro (di un potenziale) schizofrenico, in senso psicopatologico ovviamente, che da gradienti normali, o schizotimici (rinasce, qui, il discorso ancora attuale e affascinante di Ernst Kretschmer) (15), si sposterebbe poi lungo sequenze variabili e zigzaganti verso gradienti di schizofrenicità (come intendeva dire, nei suoi lavori smaglianti e indimenticabili, Ferdinando Barison) (16-18) scompensata e radicalmente psicotica. La psicopatologia tende a essere, oggi, come ancora ha sostenuto Ferdinando Barison, ermeneutica: decifrazione dei segni più che non dei sintomi. © POL.it 2000 All Rights Reserved |