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LA RELAZIONE ANALITICA E LE SUE TRASFORMAZIONI: UN CONTRIBUTO CLINICO CON UNA PAZIENTE "BORDERLINE"

Carmelo Conforto

Direttore Clinica Psichiatrica III

Uinversità di Genova

INTRODUZIONE
MATERIALE CLINICO
ALCUNE CONSIDERAZIONI
BIBLIOGRAFIA

Introduzione

Quello che descriverò in questo contributo è un pezzo d'analisi, all'incirca sei mesi, condotta con una ragazza di vent'anni, con cui avevo iniziato quattro anni prima il lavoro analitico. Gli avvenimenti che riporterò sono accaduti dieci anni fa e solo ora mi è parso opportuno riprenderli in considerazione e mostrarli ad altri. Mi hanno spinto a lasciar trascorrere un tempo certo non breve il rispetto della riservatezza, resa particolarmente "privata" dal fatto che il materiale che presenterò è costituito non solo da affetti e parole parlate ma, soprattutto, da parole ed affetti scritti, grazie ai quali ha potuto procedere in quei mesi il nostro lavoro.

Inoltre ha avuto il suo peso una sorta di mio particolare pudore nello svelare momenti emotivi che ho vissuto con grande trepidazione, ansia e, spesso, commozione; e il timore che sentimenti della mia paziente, al limite del sopportabile per l'intensità della sofferenza e delicatissimi e coraggiosi potessero in qualche modo essere offesi da una esposizione "scientifica".

Credo che questo sia un problema comune ad ogni analista che espone se stesso ed i propri pazienti ai colleghi e mi rendo sempre più conto che il presentare materiale clinico così intensamente vissuto come è il nostro ci costringa ogni volta ad affrontare un certo tipo di dolore depressivo.

Sappiamo che non è evitabile ed è anzi conveniente alla nostra maturazione di analisti non evitarlo.

Prima di procedere oltre, presenterò brevemente G.

E' secondogenita, una sorella maggiore di un paio d'anni. Madre rigida, apparentemente priva di affetti, esclusa un'angoscia trattenuta da tratti fortemente ossessivi, un'ostilità mai dissimulata verso l'analisi. Il padre, mai conosciuto da me, descritto come uomo di successo a spasso per il mondo, pragmatico, superficiale sul piano degli affetti. G. strana da sempre, isolata, bizzarra, con paure infantili di tale intensità da richiamare nell'età scolare l'attenzione dei maestri. Parlo di fobie assai intense, agorafobia, claustrofobia, crisi di terrore, ipocondria, depressioni inspiegabili che limitarono in maniera sempre più vistosa la sua vita, che si ridusse alla scuola e quasi a nient'altro. Una particolarissima passione per la musica e la danza classica, dopo un paio d'anni di studio in gruppo, venne coltivata nella solitudine della sua stanza e proseguita con costanza negli anni. Venne da me dopo anni di incontri piuttosto saltuari con una neuropsichiatra infantile. Nel primo nostro incontro venne accompagnata dalla madre fino alla porta del mio studio. G. si bloccò qualche secondo sulla soglia e poi si precipitò a nascondersi dietro una poltrona, scarmigliata e terrorizzata. Solo dopo parecchie sedute, avevamo stabilito tre sedute settimanali e ci attenemmo sempre a questo impegno, iniziò con molta cautela a parlarmi di lei e di me e delle così allarmate reazioni che aveva vissuto nella prima seduta.

Durante l'analisi terminò le scuole secondarie e si iscrisse all'università.

L'analisi con me si svolse dai sedici ai ventun'anni.

Nell'ultimo anno e mezzo, poco dopo l'inizio del periodo analitico che presenterò, G. si trasferì con la famiglia in un centro a circa duecento chilometri dal mio studio.

Questo episodio, reso ancora più traumatico dall'insistente suggerimento della madre di troncare la terapia riprendendola eventualmente con uno "psichiatra" in sede, si inserì in una fase molto delicata del nostro rapporto, come chiarirò meglio in seguito. Aggiungo che lo scioglimento del nostro rapporto coincise non con la fine dell'analisi ma con una sufficiente elaborazione del distacco che consentì a G. di proseguire nella sua nuova città, con un collega di cui le avevo fornito il nominativo, l'analisi, che si concluse soddisfacentemente dopo circa cinque anni.

Alcuni problemi e ipotesi mi hanno spinto a presentare questo contributo.

Li elenco:

- L'attenzione di molti analisti sta sempre più spostandosi sull'analizzabilità dei casi cosiddetti "gravi", ovvero patologie narcisistiche, "borderline", a volte francamente psicotiche. Devo precisare che mi sento molto in sintonia con Green (1974) quando, parlando di queste patologie, suggerisce che forse sarebbe meglio usare la definizione di "stato-limite dell'analizzabilità".

In questa categoria rientra credo a buon diritto il percorso terapeutico di G.

- Il lavoro analitico con queste patologie può costringere l'analista ad adattare il setting alle particolari condizioni mentali dei suoi pazienti. Tuttavia è soprattutto sollecitata, in queste situazioni, quella che Meltzer (1967) ha chiamato l'unità fondamentale del setting analitico, cioè lo stato mentale dell'analista, idoneo a ricevere il materiale del paziente, a contenerlo, a meditare sulla situazione di transfert e infine a comunicare la comprensione dell'analista. Riferendosi alla patologia grave infantile la Hoxter (1977) ribadisce che una parte della funzione dell'analista si esplica nel costruire un setting in cui il paziente possa comunicare ed il terapeuta possa svolgere la sua funzione analitica. Sottolinea che: "L'elemento di gran lunga più importante dell'intero setting è rappresentato dalla mente dell'analista" (p. 147 tr. it.). Aggiunge: "L'arte o talento del terapeuta sembra essere connessa alla sua capacità di fornire uno spazio mentale interno al paziente" (p. 148 tr. it.). Questo elemento, il setting interno dell'analista, è stato ampiamente messo alla prova nella relazione che descriverò.

- Nel lavoro che ho fatto con G. mi sono occupato, naturalmente, di ciò che si ritiene essere (G. Klein, 1976, p. 51 tr. it.) "l'obiettivo fondamentale dell'impresa psicoanalitica, e cioè cogliere i significati che vanno via via rivelandosi". Credo che nella relazione con G., anche nei momenti più travagliati, ho cercato di pensare soprattutto a questo, tentando di riflettere su che cosa effettivamente stavo facendo specie quando mi pareva di non aver proprio altra scelta. Questo ragionare avveniva naturalmente in tempi diversi, fuori dalla seduta, e il mio tentativo di organizzare secondo modelli psicoanalitici noti o che imparavo a conoscere mi ha sostenuto nel mio lavoro.

Oggi, a tanta distanza di tempo, avverto la curiosità di riscoprire il me al lavoro dieci anni fa e di valutare, se possibile, quali modelli consci e quali allora inconsci sono rintracciabili ora nel materiale che esporrò.


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