LA RELAZIONE ANALITICA E LE SUE TRASFORMAZIONI: UN CONTRIBUTO CLINICO CON UNA PAZIENTE "BORDERLINE" Carmelo Conforto Direttore Clinica Psichiatrica III Università di Genova INTRODUZIONEMATERIALE CLINICO ALCUNE CONSIDERAZIONI BIBLIOGRAFIA Alcune considerazioni Ho descritto una relazione psicoanalitica che ho vissuto come modello di situazione "limite". Per "situazione limite" ho inteso una relazione psicoanalitica che si è avvicinata pericolosamente alla sua morte ed è riuscita ad evitarla attraverso l'invenzione di una nuova modalità di contatto in seduta che ha preso il posto di quella più abituale, che utilizzava il percorso delle libere associazioni. Questa modificazione dei modi di comunicazione di G. ha costituito, anche se non esplicitata, una modificazione del setting, questa volta proposto da G., e da me condiviso. Riflettendo su questo percorso mi è tornato in mente il lavoro di Winnicott (1967), in cui egli divide in alcune categorie psicologiche le persone. Ho pensato che la mia paziente poteva avvicinarsi a coloro i quali si portano dentro un'angoscia non pensabile e in certo modo colgono delle occasioni per avvicinarsi al crollo (breakdown) onde riavvicinarsi a quella "terribile, impensabile angoscia" (p. 89 tr. it.). G. con la gestualità della lettera stropicciata e buttata via, per terra, mi ha comunicato il terrore dell'essere "lasciata cadere". Contemporaneamente mi ha espresso la speranza di "essere raccolta" e, una volta raccolta, la lettera-paziente è stata in grado di comunicarmi dei "pensieri" su questo terrore. Mi sono chiesto se il mio atto di raccogliere il pensiero stropicciato di G. e di entrarne così in contatto non si possa interpretare come un processo trasformativo di coppia di elementi "beta", emozioni psichicamente indigerite, in un iniziale aggregato di elementi "alfa". Ho anche pensato quanto l'atto del raccogliere e conservare la stropicciata lettera-paziente possa confermare l'idea di Winnicott che il breakdown necessita, per non travolgere il paziente, di un sostegno (holding) la cui realizzazione da parte del terapeuta mi pare attinga in maniera specifica alla sua funzione empatica. Ad essa è necessario aggiungere, quando sarà possibile, una funzione altra dell'analista, che si assume specificatamente il compito della pensabilità delle emozioni della coppia, e qui il modello di rêverie bioniana mi pare particolarmente utilizzabile. Winnicott sostiene che per certi gravi pazienti la madre è morta, ad un certo momento dello sviluppo, come presenza psichica, evidentemente, e qui si è prodotto, commenta Green (1977) il vuoto (blankness) psichico. Green distingue, tra perdita e assenza, dando alla prima parola il senso di una negatività negativa; sterile, mortifera. L'assenza è al contrario una negatività positiva, feconda, creatrice di pensiero simbolico. Credo che G. nella sua analisi abbia attraversato momenti in cui la perdita è apparsa come terrore cieco, panico, senso di morte: ho pensato che non ne sia "morta" come individuo capace di mantenere comunque il rapporto, il contatto, perché proprietaria di un "seno idealizzato" interiorizzato che è sopravvissuto e le ha permesso, e ci ha permesso, di sopravvivere e di riprendere a pensare. Indubbiamente devo pormi altre domande: quali aspetti di G., in contatto con "il seno idealizzato" hanno mantenuto in vita il rapporto? E poi, quali avvenimenti, condizioni, sviluppi dentro di me hanno contribuito a rendere possibile questo svolgimento? Descriverò quello che penso con maggior chiarezza oggi rispetto ad allora, con l'aiuto di modelli che ora ho reso consci e che ritengo possibile che allora fossero in me presenti, assai meno strutturati, a livello preconscio. E' un po' il discorso che fa Sandler (1983) quando afferma che noi lavoriamo sempre anche sulla base di una struttura concettuale preconscia che cammina parallela al modello conscio e che emergerà poi nel tempo come corpo teorico consapevole. Penso che il mio acconsentire a che G. scrivesse invece di parlare abbia espresso un mio percepire (preconsciamente) le strutture difensive di G., i suoi meccanismi di difesa, non solo come aspetti regressivi, allarmanti e per me colpevolizzanti, ma anche espressioni di una dimensione diversa, cioè l'estremo tentativo di mantenere il contatto con la mia immagine idealizzata e di comunicare a G. quindi, emotivamente almeno, rispetto e valore. G. riusciva a scrivermi quando la mia presenza fisica non la rimandava con eccessiva violenza ad un me deteriorato, forse danneggiato irreparabilmente, inevitabilmente prossimo a scomparire. Credo che la mia assenza fisica le abbia permesso di ritrovarmi come presenza interna positiva, con cui dialogare, pensare. Nella lotta così accanita tra distruttività e vitalità che abbiamo attraversato ritengo abbia giocato un ruolo rilevante un altro aspetto assai particolare, che ho preso in considerazione solo ora. Mi riferisco ad una corrente di piacere estetico che io ho sempre provato, mescolato a sentimenti altri, nell'entrare in contatto con le descrizioni che G. mi forniva attraverso le parole scritte e che credo di averle trasmesso. Mi sono tornate in mente alcune considerazioni di Meltzer (1988) quando afferma che il mondo psicoanalitico ha prodotto "una certa timidezza" (p. 44 tr. it.) nell'affrontare temi di questo tipo "per paura di apparire sentimentali o di colludere nella coperta aggressione del transfert erotico" (p. 44 tr. it.). E' possibile che io abbia allora per lo più allontanato, "scisso", queste emozioni controtransferali per timori di questo tipo. Oppure, nei momenti in cui non mi era possibile ignorarne la presenza, ne trascuravo il valore relazionale. Oggi sono convinto che hanno avuto grande importanza e trovo che le parole di Meltzer illustrino quello che penso: "...quando ci imbattiamo in qualcosa che cattura il nostro interesse, quando lo vediamo come un frammento o un'istanza, o un esempio della bellezza del mondo, desideriamo... conoscerlo in profondità. In quel momento incontriamo il cuore del (suo) mistero, oltre ai forti limiti delle nostre capacità di conoscenza. Entriamo nei regni della scienza e dell'arte, la cattedrale della mente nascosta nella foresta del mondo" (p. 168 tr. it.). Ritengo cioè che la mia paziente sia riuscita, pur nelle condizioni di maggior chiusura e ritiro, ad immettere in me, al di là del significato "letterale" delle sue comunicazioni scritte, una funzione di richiamo di attenzione, di spinta conoscitiva attraverso l'elemento estetico. Ed io, a mia volta, penso di averle restituito la sensazione di essere da lei "stimolato" a conoscerla, a conservarla in me, e di aver con questa risposta contribuito ad "animarla" quando l'angoscia di morte tentava di riempire e soffocare la sua anima. Ho capito anche che il peggior nemico della mia funzione terapeutica, almeno in questo rapporto, è stata l'inconscia utilizzazione di una mia difesa di ordine maniacale che mi ha trascinato a investire G. di eccitazione malata. Fortunatamente è stata lei a farmi capire che la stavo distruggendo e mi ha fermato e fatto riflettere. © POL.it 2000 All Rights Reserved |