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PSICHIATRIA E CULTURA:

NOTE E CONFERENZE

 

Un’etica per la Città della Terra

Vittorino Andreoli

 

Esiste una grande differenza tra chi crede profondamente in Cristo e chi non crede affatto. Una differenza che riporterei al mondo intimo, interiore e non più, per fortuna, alle opposizioni che segnarono l’inizio di questo secolo, tra clericali e anticlericalismo.

Ora, la differenza tra credente e non credente non è più un’occasione di lotta, ma invece si concentra nel modo di vivere, di guardare le cose: credere implica un salto, la fede è forse un dono, una scintilla che disvela la realtà e modifica la percezione del mondo, della morte.

Tra chi aderisce alla religione di Cristo e chi non crede, pur non ignorandone l’esistenza storica di uomo, oggi c’è un grande senso di rispetto, una sorta di "santa invidia".

Mentre ascolto un sacerdote parlare, guardo il suo viso e ne ammiro la serenità, l’espressione di un uomo che crede. Quando pongo una domanda, già ha la risposta. Ecco la fortuna di chi crede. Mentre io, come laico, faccio seguire a una domanda un’altra domanda. Eppure non per questo la ricerca si arresta in me, la ricerca che guarda soprattutto l’uomo, il suo dolore e il tentativo, talvolta disperato, di imparare a vivere.

Io sono innamorato dell’uomo, cerco l’uomo dietro ai gesti e alle azioni, anche i più tremendi. Sono innamorato dell’uomo anche quando uccide e non smetto di interessarmi a lui. Per questo mi sono occupato di casi difficili, ragazzi che ammazzano i genitori, uomini "rotti" dalla droga o dalla malattia mentale. Eppure sempre persone con un enorme patrimonio di umanità. E di dolore.

C’è una straordinaria quota di dolore, spesso invisibile, anche nei ragazzi che "sballano", nei drogati, in tutti quelli che sembrano cercare il godimento del vivere ma in realtà, indossano una maschera che non lascia trasparire il terrore.

Un tempo, quando si guardava un matto - e uso questa parola con molto affetto - gli psichiatri sintetizzavano la sua vita in tre o quattro frasi standard, scritte a penna sulla cartella clinica. Liquidata come cosa di poco conto.

Io mi sono innamorato da subito delle sofferenze di questi pazienti, ho lavorato con loro decenni e scoprivo sempre un’umanità di volta in volta più grande e sensibile, dietro ai loro sintomi. Le loro vite le ho dovute descrivere in racconti, tanto sono intense: sono esistenze piene, percorse dalla sofferenza come una scarica elettrica, eppure lottano per non spezzarsi.

Nei Salmi, che leggo spesso, perché le sacre scritture non appartengono solo ai credenti, ma anche ai laici, ho ritrovato la forza delle storie comuni, storie di paure e dolori, che per l’uomo di fede si risolvono nella grandezza dell’immagine di Dio. Io non ho quella risposta, eppure, di fronte alle esistenze "rotte", cerco di capire perché si vede la morte. Non so smettere di domandarmi perché si uccide, perché lo si fa quasi sempre sentendosi eroi, forti come un dio. È strano quello che accade durante il compimento del gesto omicida: in nessuno dei grandi casi che hanno segnato la cronaca negli ultimi anni e che io ho seguito come perito, c’è stato un pentimento intimo, come se l’uomo si fosse, nella potenza di quell’atto, per un istante sostituito agli dei, attribuendosi il loro potere più grande, quello di decidere della morte.

C’è uno stretto contatto tra morte e sacro.

Del sacro hanno bisogno tutti, religiosi e non credenti. Per questo penso che sia giusto vedere questa necessità come un imprintig, una tendenza a interrogarsi sul mistero che sta nella vita, nella natura umana.

La religione, anzi le religioni, sono solo uno dei modi di rispondere all’esigenza di sacro, inscindibile dall’esistenza umana. È inevitabile domandare, indagare la verità e se chi crede riceve la fede come un dono e raggiunge la serenità, così non accade a tutti. Ma il bisogno di sacro è universale.

Da sempre l’uomo, credente o non credente, si domanda che cosa sia la morte, ed è un interrogativo drammatico, per chi non ha la fede, e pone il dito su ciò che l’uomo è nella Città della Terra, sul suo ruolo, il senso, sul divenire.

Da questo dubbio nasce il suo bisogno di giustizia: chi non crede sa che l’esistenza tutta dell’uomo è quella civile, nel gruppo sociale. La coscienza umana del rispetto dell’altro, il codice di comportamento diventano la forza essenziale per vivere.

La morte è un grande dramma per chi non crede, è interrogarsi di continuo senza avere una risposta, senza potere aggrapparsi alla certezza che il padre ha dato tutto per il figlio, in nome dell’amore infinito.

La morte è talmente terrificante che la società moderna l’ha spettacolarizzata, soprattutto attraverso la televisione. Per ogni ora di programmazioni si è stimato che vengano presentati in media due morti ammazzati. Ogni giorno, quindi, assistiamo alla morte in tv circa sette o otto volte. I ragazzi si sono "abituati" a questo evento come spettacolo, tanto da arrivare a parlare di morte bella, per intendere una fine senza agonia, al rallenty. I registi televisivi sanno bene che non possono tenere a lungo le scene sui decessi, perché la gente cambia canale.

Eppure la "banalizzazione" di un evento così tremendo nasconde la paura e l’impotenza dell’uomo. Dietro c’è sempre il dolore.

Anche nelle città a due dimensioni, in cui manchi Dio, si affollano i misteri e il bisogno di risposte, profonde, un bisogno che si lega al sacro, alla liturgia. Non bastano le spiegazioni scientifiche, biochimiche, a caratterizzare queste esperienze. Non sono sufficienti le tabelle mediche per calcolare il dolore. Un dolore che non risparmia nessuno, nemmeno chi sembra divertirsi. Si pensi alle storie dei molti giovani tossicodipendenti: cocaina e morfina sono usate per non sentire nulla, per cancellare ogni emozione. Eppure, dopo poco, la loro mancanza nel corpo innesca di nuovo il ciclo del dolore.

Io sono molto colpito, trovo dappertutto questo dolore e l’uomo soffre senza trovare una risposta e nemmeno la causa. Molte delle persone che incontro hanno il male di vivere e non ne conoscono il perché.

Dopo quarant’anni di lavoro in ospedale psichiatrico e con la gente che soffre, mi sto adesso occupando dei santi del Novecento. Uno studio che ho chiamato Santità e follia, perché trovo un filo, una coerenza che è data dal bisogno di dare un senso al dolore che esiste in tutte queste esperienze estreme.

Sono sorpreso dallo straordinario libro il Vangelo: dà una strada al dolore, lo trasforma, lo rende vivibile.

Ricordo che da bambino mia nonna mi portava ad ascoltare un prete veronese, oggi santificato: don Giovanni Calabria. Per me rimarrà sempre un vangelo vivente. Mi colpiva già allora quella sua "folle" bontà: ripeteva di amare i nemici, di rispettarli addirittura, contro ogni logica umana, contro la stessa psicologia. Egli sosteneva che il dolore viene sempre da qualcosa che si è subìto, da un’ingiustizia sociale.

Queste parole aiutano a rintracciare, anche per chi è laico, la storia dell’uomo, la sua natura più complessa. Egli è pervaso dal terrore della morte e colpito dal dolore, ma - ed è un terzo punto - ha in sé una caratteristica preziosa: la memoria.

La memoria da cui io sono affascinato non è quella dei fatti, bensì la memoria dei sentimenti, degli affetti. Abbiamo la capacità di tenere dentro di noi le atmosfere e le sensazioni. Anche quando un incontro si è esaurito nel tempo, le emozioni rimangono vivide nel ricordo: questa è la nostalgia.

Ho parlato a lungo dell’uomo, delle sue tre caratteristiche più particolari, perché credo che questo periodo storico ci stia offrendo una bella opportunità. Stiamo, in fondo, cercando di fare molto per quest’uomo a due dimensioni, che chiede lo stesso rispetto, per gli sforzi umani e di dolore, di coloro che hanno la fortuna di possedere la fede.

Per questo è necessario lavorare e impegnarsi sull’etica, sulla creazione di un codice di comportamento che riguardi innanzitutto la Città della Terra. Vuol dire rispettare le leggi, non imbrogliare, pagare le tasse, non farsi raccomandare. Insomma, significa usare la correttezza che è un fatto tra uomini, non c’è bisogno di scomodare Dio per questo.

Purtroppo è sotto gli occhi di tutti, con evidenza, quanto siamo ancora lontani da questo risultato. E i comportamenti giovanili ne sono una spia continua.

Nella Città della Terra c’è molto da fare e bisogna ricominciare dai ragazzi. Abbiamo perso qualche passaggio, qualche filo, se ci sono persone in grado di fare volontariato durante il mattino e commettere violenze assurde il pomeriggio seguente. Bisogna restituire valore alle esistenze, alla dimensione sociale, nella Città della Terra, solo così diminuiranno i gesti con cui si butta via la vita.

Su questo vorrei richiamare l’attenzione di tutti, smettendo quell’assurdo dibattito secondo cui si dice che quelli che non credono vogliono fare la guerra agli uomini di fede. Anziché perdere tempo in querelle inutili, lo sforzo dovrebbe concentrarsi nel tentativo di migliorare la vita su questa terra. C’è una quota troppo grande di sofferenza per rimanere immobili.

L’attuale Papa conosce questo rispetto eccezionale. Si rivolge sempre a tutti, rivolge le sue benedizioni a cristiani e non cristiani, credenti e non credenti. È straordinario starlo ad ascoltare.

Vorrei che questo rispetto e amore verso gli uomini da parte di chi professa la fede si estendesse dal Papa, che è la somma autorità, a tutti i parroci e curati. Perché è davvero una grande fortuna che hanno i credenti, un’energia che li rende sereni e privilegiati rispetto al dolore.

Eppure dalla forza interiore dovrebbero emergere non l’arroganza, la prevaricazione, bensì una maggiore generosità e coscienza verso gli altri, capacità anche di commozione di fronte alle esperienze difficili, a quelle esistenze rotte che tante volte incontriamo nel nostro lavoro o anche camminando per la strada e che non possiamo più ignorare.

Ricordo, in conclusione, il passo di Abramo che sale sulla montagna, perché Dio gli ha comandato di sacrificare il figlioletto. Il patriarca lo va a prendere e lo porta con sé. Non si chiede se sia giusto o sbagliato, se non sia assurdo che proprio Dio gli domandi una simile cosa. Lo muove la fede e, mentre sale la montagna, dai suoi passi emerge lo straordinario fatto che il credente può accettare e capire tutto dal suo Dio, traspare una forza e uno struggimento intensissimi.

Quello che all’uomo che crede appare scontato, naturale, ossia seguire la voce di Dio, lascia esterrefatto chi non ha la fede. Esterrefatto e molto più solo, senza risposte.


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