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LA FINZIONE E IL GESTO

Eugenio Borgna, Federico Leoni

Novara, 21 gennaio 2000

 

"I nostri ragazzi non imparano più concetti. Imparano gesti. Questo è il nostro orizzonte". Con queste parole Vittorino Andreoli sintetizzava, in una ricapitolazione di radicale lucidità, il senso di una lunga conferenza e di un ampio dibattito tenutisi il 21 gennaio 2000 a Novara sul tema: La fatica della normalità. Riportiamo nelle pagine che precedono quella conferenza, e tentiamo di prolungarne l'eco, a distanza di qualche tempo, e di lasciarne risuonare le sollecitazioni attraverso le domande - solo alcune domande, certo, tra le molte possibili - che nascono a margine di quella diagnosi. Che significa, ad esempio, imparare un gesto? E che cos'è un gesto, che cos'è questa cosa banalissima tra le banali, che apparentemente ciascuno compie in ogni istante e che pure subisce oggi - è la tesi di Andreoli - una metamorfosi di tale profondità da diventare l'indizio e il segno, si direbbe, di una diversa antropologia, di un'inedita forma di vita, di un nuovo, ingovernabile intreccio tra psicologia e psicopatologia, follia e normalità?

Solo misteriose costellazioni - così le chiamava il critico e filosofo tedesco Walter Benjamin, in una delle sue riflessioni più abbaglianti (1) - possono talora riaccendere l'affinità tra parole vicine e parole lontane, facendone lampeggiare l'attualità nell'attrito istantaneo con il terreno scabro del nostro tempo. C'è un grande testo quasi dimenticato al quale è necessario, per chi lo conosca, tornare per riflettere sul gesto: sul gesto, cioè, come emblema e come destino di un'esistenza. Un grande testo sul gesto e, di più, sulla finzione del gesto: sul gesto che si impara fingendo, fingendo il gesto e fingendo di essere colui che detiene quel gesto. Fingendo - cioè, etimologicamente, plasmando, se si pensa al senso latino di fingere - il proprio gesto su quello altrui. Plasmando, con ciò, sé attraverso l'altro, fingendo sé come un altro. Un grande testo sulla finzione e sul gesto come categorie psicopatologiche, certo, e come indici, sintomi, stemmi di un naufragio esistenziale. Ma anche e altrettanto sul gesto e sulla finzione come dimensioni ontologiche dell'esperienza, come imprescindibili condizioni di possibilità di ogni esistenza: sia essa ‘normale' o ‘anormale', sia essa già carpita dalla presa delle categorie psichiatriche o a essa sfuggente, infine inafferrabile.

Sono queste le tesi - incandescenti, scandalose in senso kierkegaardiano - del libro che un letterato francese di nome Jules de Gaultier dedicò, un secolo fa, a Gustave Flaubert e a Madame Bovary: allo scrittore, cioè, e al personaggio che con più violenta radicalità hanno fatto del gesto e della finzione una cifra e un tema decisivo e definitivo. Testo intitolato Le Bovarysme (2), questo che de Gaultier diede alle stampe nel 1902, a Parigi, e che sembra poter offrire a chi si interroghi sulla fatica della normalità e sui confini ambigui e inafferrabili tra normalità e follia, tra quotidianità e tragedia, una fenomenologia sottile e penetrante, millimetricamente esatta, del vasto e nebuloso insieme di fenomeni che la psichiatria definisce come borderline. Di questa categoria psichiatrica - che in verità non è tale, perché non fa che dire l'assenza di categorie e l'impossibilità della categorizzazione - Andreoli parla, nel suo intervento, con il linguaggio radente, immediato, di chi abbia vissuto l'incontro e lo scacco umanamente più sconvolgente: vite inassegnabili alle categorie della norma come dell'anormalità, indicibilmente sospese tra una smisurata ambizione e un destino irreparabilmente piccoloborghese, tra lo scintillio della finzione e dell'allucinazione e l'insormontabile opacità del reale.

E' questo stesso universo indefinito e sfuggente ad affascinare Flaubert e a tradursi nella sua scrittura dando vita a un personaggio, quello di Emma Bovary, destinato ad attraversare l'Ottocento e il Novecento come un archetipo intramontabile, cui mille e mille storie contemporanee, mille cronache di giornale, mille servizi televisivi ancora sembrano obbedire. Ed ecco le parole di de Gaultier: "Un cedimento della personalità, tale è il fatto iniziale che costringe i personaggi di Flaubert a concepirsi come altri da ciò che sono. Dotati di un carattere determinato, essi ne assumono uno differente, sotto il giogo di un entusiasmo, un'ammirazione, un interesse, una necessità vitale. Ma questo cedimento di personalità è sempre accompagnato, in loro, da un'impotenza, e, se essi si concepiscono altri da ciò che sono, non giungono mai a eguagliare il modello che si sono proposti" (2).

Poco oltre, de Gaultier scrive ancora: "Per favorire questo inganno, essi imitano, del personaggio che hanno deciso d'essere, tutto ciò che è possibile imitare: il gesto, l'intonazione, le abitudini, le frasi, e questa imitazione, che restituisce gli effetti più superficiali di un'energia senza sapere riprodurre il principio che li causa, quest'imitazione è, a dire il vero, una parodia" (2).

Col che, tutti i frammenti del nostro mosaico sono dati. La capacità e la volontà di essere quel che non si è. Insieme, la difficoltà e l'impotenza a essere davvero altro. La finzione che si nutre dei gesti e delle parole del personaggio eletto a modello. Insieme, l'imperfezione della copia, il pallore sinistro del maldestro imitatore rispetto all'originale: non più se stesso, non ancora - forse mai - il proprio modello. E il limite esiguo e abissale tra i due lati del palcoscenico, tra l'una e l'altra scena speculari, indistinguibili, indisgiungibili, che il sipario di questo teatro disegna davanti e dietro di sé.

"Quest'imitazione è, a dire il vero, una parodia", dice de Gaultier. E proprio su quest'ultimo termine, ‘parodia', che piove sui destini di tanti infelici come una ghigliottina, cade un terzo affondo: "Deformati da un'ingannevole concezione di loro stessi, essi finiscono con il non appartenere né al dramma né alla commedia, lambendo in effetti, a uno sguardo più acuto, i confini di entrambi"(2). Inutile tentare di dire con più precisione di questa riflessione sul ‘confine' quale possa essere la situazione borderline, per lo più collocata, è noto, anche dalla psichiatria più aliena da contaminazioni e incursioni in quell'archivio di stemmi e di emblemi esistenziali che è la letteratura, al confine tra narcisismo e isteria, cioè al confine tra figure psicopatologiche cui non è estranea una vocazione teatrale, un destino essenzialmente legato alla messa in scena e alla finzione nel loro senso più perturbante. E' questa vocazione propriamente tragica, che Friedrich Nietzsche una volta ha lasciato riemergere in immagini sfolgoranti di luci e di ombre, di illusioni e di speranze: "Chi sei tu, viandante? Ti vedo andare per la tua strada, senza scherno, senza amore, con uno sguardo indecifrabile; umido e triste come uno scandaglio che da ogni profondità riemerge insaziato alla luce". E, ancora in Al di là del bene e del male (3): "E chiunque tu sia: che cosa gradisci ora? Che cosa ti serve per ristorarti? Non hai che da dirlo: quel che ho, te lo offro! - ‘Per ristorarmi? Per ristorarmi? Oh curioso che sei, che vai mai dicendo? Ma dammi, ti prego' - Cosa? Cosa? Parla! - ‘Una maschera ancora! Una seconda maschera!'...".

La vita isterica è segnata, trascinata senza freni verso questa teatrale vocazione alla finzione, alla maschera, pur essendo del tutto estranea alla simulazione intenzionale e alla volontà di ingannare espressamente. Ciò che in essa piuttosto abita, estenuato, è il desiderio di accedere a friabili, labilissimi splendori, l'anelito a poter tenere in mano per un istante l'illusione dell'amore dell'altro: prima di sprofondare in lunghi, a volte definitivi tramonti, prima di abbandonarsi alle acque oscure di Narciso, il cui specchio infinito non fa che restituire sempre il medesimo sguardo, moltiplicato senza fine ma mai ricambiato, carico di seduzione ma lacerato dal solipsismo (4). Inutile, ancora, insistere ricordando il destino di autodistruzione che Flaubert impone, in una scena celeberrima, alla parabola del suo personaggio, Emma Bovary: la morte orrenda che ella si dà per propria mano, il veleno per topi ingerito quasi a evocare e far coincidere l'inaudita truculenza di una fine che si vorrebbe sublime e l'allegoria banale di un decesso meno che mediocre e grigio.

Quante di queste vite trascinate al limite tra il dramma e la commedia, tra l'isteria e il narcisismo si consumano nella ripetizione di un sogno esorbitante e innocuo, quante sprofondano nel buio della morte data a sé o agli altri? Sono senza numero le prime, ma numerose anche le seconde, dilaganti. Come non interrogarsi dunque sul bovarismo, per dire così, con de Gaultier, del nostro tempo? Seconda costellazione, dunque. Per Emma Bovary il gesto da imitare è quello delle eroine del vago e attardato romanticismo di mille romanzetti ottocenteschi. Per gli infelici di oggi, suggerisce Vittorino Andreoli, la verità va attinta, invece, all'abbeveratoio della televisione e del videogioco. E' la televisione, è il videogioco lo sterminato archivio di gesti già visti e già compiuti in nostra vece, già pronti per l'uso e per la ripetizione meccanica. Pronti, cioè, per esser tratti dal labile tessuto d'origine, la cosiddetta fiction, e impiantati sull'altrettanto esile trama delle vite dei destinatari di giochi, telenovelas, passatempi e svaghi per un tempo ostinatamente definito libero. Gesti - con una sola parola, di nuovo di Walter Benjamin - essenzialmente e costitutivamente ‘citabili'. Gesti la cui verità e natura si risolve in questa stessa citabilità, in questa stessa immediata imitabilità.

L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica così si intitola, con meticolosa accuratezza, il testo di Benjamin che coglie nel modo più rabdomantico l'essenza di questa stessa citabilità del gesto, e che la lega, fulmineamente, in una seconda mossa teorica decisiva, al destino del medium cinematografico. Nel cinema Benjamin riconosce - e apprezza, con ottime ragioni che non è tuttavia possibile, qui, riassumere né riportare al nostro contesto - la dimensione della essenziale discontinuità gestuale dell'attore, la dimensione della strutturale interruzione cui è sottoposta la sua performance. Quindi, la dimensione di una potenziale, continua decontestualizzazione e ricontestualizzazione di ciascun gesto catturato dalla macchina da presa e ritradotto in immagine sullo schermo, a uso della massa anonima e distratta, secondo la celebre caratterizzazione benjaminiana, del pubblico in sala. Si legge infatti nel saggio sull'Opera d'arte, pubblicato in origine nel 1936: "La prestazione artistica dell'interprete teatrale viene presentata definitivamente al pubblico da lui stesso in prima persona; la prestazione artistica dell'attore cinematografico viene invece presentata attraverso un'apparecchiatura" (5). E ancora: "L'attore che agisce sul palcoscenico, si identifica in una parte. Ciò è spessissimo negato all'interprete cinematografico. La sua prestazione non è mai unitaria, è bensì composta di numerose singole prestazioni... A scomporre la recitazione dell'interprete in una serie di episodi montabili sono le necessità elementari dell'apparecchiatura" (5).

Benjamin torna sul tema della ‘montabilità' del gesto cinematografico, in altra prospettiva, in un testo dedicato a Bertolt Brecht e intitolato Cos'è il teatro epico: "Rendere citabili i gesti', è questo uno degli esiti essenziali del teatro epico. L'attore dev'essere in grado di spazieggiare i suoi gesti come un tipografo le parole […] Il teatro epico è per definizione un teatro gestuale. Poiché noi otteniamo tanti più gesti quanto più spesso interrompiamo colui che sta agendo" (6). Si disegna così davanti ai nostri occhi questo tracciato: la montabilità del gesto cinematografico è la sua citabilità teatrale; ma citabilità e montabilità non sono che figure e illustrazioni esemplari di una sorta di disponibilità originaria del gesto alla imitazione; del suo essere, come un vestito, prêt-à-porter, pronto per essere indossato dal destinatario, dallo spettatore. Ogni gesto è il perno di una strategia di finzioni, come de Gaultier intuiva; ogni gesto si dà alla finzione di chi lo imita e si dà come finzione e come ripetizione di altri gesti. Ma questo bovarismo costitutivo risulta moltiplicato, secondo la diagnosi benjaminiana, e infinitamente potenziato dal prisma dei media. Moltiplicato da un'operazione mediatica che è a sua volta bovaristica, che è a sua volta costitutivamente situata al limite, borderline, costitutivamente fittizia e parodistica. Come non ravvisare, infatti, l'esito estremo di questa stilizzazione e segmentazione brechtiana del gesto e della sua rappresentazione nel mondo disarticolato del videogioco, nell'universo di clichés della telenovela, nelle trame ostentatamente seriali dei telefilm televisivi?

Tutto, qui, è citazione. Tutto è gesto frantumato e ricomposto da tecniche di montaggio. Tutto è materiale di riporto. E come i corpi degli attori cinematografici, nell'analisi benjaminiana, rispetto ai corpi degli attori teatrali non sono che membra disjecta, frammenti dispersi, elementi scomposti e ricomposti incessantemente secondo le regole dell'apparato tecnico che ne governa le movenze - così, allo stesso modo, i comportamenti e i gesti che finiscono con l'essere citati dalla finzione per essere iscritti nel corpo della vita reale, per dire così, semplicemente, non fanno di questo corpo altro che membra disjecta, cocci e frammenti disarticolati e incoerenti.

Infine, terza costellazione: questione, di nuovo, di un limite, di un'esperienza limite, di una borderline. Andreoli osserva, cosa incontrovertibile, che, se pure è vero che in un videogioco o sulla scena di un teatro si ammazza ‘virtualmente' e ‘simbolicamente', è però insensato illudersi di potere separare il virtuale dal reale, l'oggettivo dal simbolico. O, si dovrebbe aggiungere, il gesto autentico da quello inautentico, la finzione dalla non-finzione, infine la normalità dalla follia sulla base di una linea di confine che relega nel mondo dell'inautenticità e della patologia chi finge e assegna al regno della salute e della salvezza chi non finge, o non finge troppo. Anche de Gaultier, questo massimo fenomenologo della finzione e del gesto come maschera, sa bene che la sfida più enigmatica e inquietante non si gioca qui. Con un ultimo gesto - un gesto profondamente nietzscheano - de Gaultier fissa il volto della Gorgone e osserva: "ciascuno ha bisogno di concepirsi altro da ciò che è".

Ciascuno, cioè, vive di gesti mutuati, imitati, in qualche modo citati, direbbe Benjamin, da altri. Non solo Emma Bovary, certo. Ciascuno, ancora, vive in quella condizione e secondo quella facoltà di finzione il cui statuto è, dunque, non solo e non tanto psicologico o psicopatologico, quanto ontologico. Secondo quella facoltà la cui espressione, si legge nel Bovarysme, è più evidente, più radicale, più irrinunciabile nei bambini: "Sugli Champs-Élysées, alle Tuileries, nel giardino di casa dei suoi genitori un bambino incontra serpenti, leoni, tutta la fauna delle foreste vergini […] Nei suoi giochi, si trasforma […] in un generale, un medico, un imperatore, ma anche, essendo proteiforme, in cane, cavallo, uccello. Galoppa al modo dei quadrupedi e vola con le braccia tese come ali..."(2). (Benjamin, in uno dei suoi frammenti più stupefacenti, a sua volta poteva dire, dei bambini, il medesimo: "Il gioco infantile è tutto pervaso da condotte mimetiche, e il loro campo non è affatto limitato a ciò che un uomo imita dall'altro. Il bambino non gioca solo a ‘fare' il commerciante o il maestro, ma anche il mulino a vento e il treno") (7).

Il fatto è che un'infanzia perenne - quale è quella cui la televisione e i videogiochi educano gli adulti, in ciò svelando la loro costitutiva e paradossale pedofilia - è pericolosa e può condurre alla catastrofe. Non perché pervasa dalla finzione, non perché la finzione sia in sé ‘cattiva', ma perché nutrita di ciò che ancora de Gaultier chiama ‘haine de la réalité', nutrita di un odio e di un disprezzo fondamentali per la realtà. Per la realtà, poi, non come semplice altro dalla finzione: per la realtà come fatica banale, come lavorio tenace che fronteggia la fascinazione caleidoscopica delle finzioni e che non cessa di plasmarne le illusioni entro una fisionomia di lenta coerenza. Questo esercizio - a sua volta una maschera, tra molte, del fingere latino, del fingere sé come un altro - non è ignaro della resistenza che, alla finzione, oppone l'"argilla indocile del mondo", dice de Gaultier (2). Né è dimentico del monito di Nietzsche - ancora di Nietzsche - secondo cui "non si tratta di smettere di sognare, ma di cominciare a sognare più vero".

 

 

Riferimenti bibliografici

1. Benjamin Walter. Ms. 474. In: Tiedemann R e Herbert Schweppenhäuser H (eds), Gesammelte W. vol. V. Frankfurt a. M: Suhrkamp, 1974-1989:578.

  1. De Gaultier Jules. Le Bovarysme. Paris: Mercure de France, 1902.
  2. Nietzsche Friedrich. Al di là del bene e del male. In: Al di là del bene e del male. Genealogia della morale. Milano: Adelphi, 1968: 3-209.
  3. Borgna Eugenio. Una maschera ancora, una seconda maschera. In: Noi siamo un colloquio. Milano, Feltrinelli, 1999: 101-118.
  4. Benjamin Walter. L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Trad it in: L'opera d'arte... Torino: Einaudi, 1966.
  5. Benjamin Walter. Che cos'è il teatro epico. Trad it in: L'opera d'arte..., cit.
  6. Benjamin Walter. Sulla facoltà mimetica. Trad it in: Id. Torino: Angelus novus, Einaudi, 1962.
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