logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

Giuseppe Roccatagliata, La teoria della mente - incontro tra filosofia e neuroscienze, Borla, Roma 2006, pp. 587

 

 

In questi ultimi anni,soprattutto in seguito alla diffusione dei nuovi contributi delle neuroscienze, è fiorita una vasta produzione divulgativa e scientifica sull'origine del pensiero e sulle sue modalità funzionali, soprattutto con riferimento all'ipotetica relazione di causalità ed interdipendenza tra le attività della mente e le relative strutture cerebrali. Si tratta di tematiche estremamente complesse, di forte impatto emotivo, troppo spesso affrontate con scarsa coscienza critica e con insufficiente chiarezza metodologica.

Si evidenziano, in particolare, due filoni interpretativi, ognuno con la sua base storica e filosofica e con una sua distintiva tendenza: quella riduzionistico-naturalistica, mirante a "semplificare" il problema vedendo nella relazione pensiero-strutture cerebrali un puro rapporto causa-effetto, e quella di ispirazione idealistico-fenomenologica, che non intende abolire la costitutiva problematicità del pensiero, riconoscendo l'originalità e l'autonomia dello psichismo soggettivo.

E' chiaro che per affrontare tale questione non si può evitare di assumere una prospettiva storica, nel tentativo di ricostruire il secolare travaglio del pensiero umano ed il suo accidentato percorso tra le più esasperate e radicali antitesi: dal linguaggio metaforico del mito a quello più rigoroso della ricerca filosofica e scientifica.

Questo spirito di ricerca, che si snoda attraverso un raro lavoro di dettagliatissima documentazione, va riconosciuto al libro di Roccatagliata, che riesce a rendere l'idea di quest'incessante sforzo del pensiero per trovare il punto di connessione tra dimensione organica ed esperienza psichica, corpo e mente, struttura e funzione, sempre a metà tra scienza e intuizione fantastica.

Non a caso, il libro inizia citando proprio il mito di Apollo, nella cui essenza divina l'autore individua l'intima correlazione tra filosofia e scienza, essendo il dio fondatore di entrambe le discipline; esse, secondo la leggenda, sarebbero state trasmesse ad Asclepio, presso il cui tempio si curavano i disturbi psichici per far luce sui misteri della mente e sui suoi stretti vincoli con la corporeità. Trama comune di questa prima visione filosofico-religiosa e medico-scientifica sarebbe stato il precoce riconoscimento di due realtà distinte, ma strettamente connesse tra loro: la mente agirebbe come piano propulsore e finalistico ed il cervello ne sarebbe, al tempo stesso, condizione e strumento operativo.

L'energia mentale originaria, come è riportato dall'autore, col fascino delle sue suggestive citazioni, è identificata da Eraclito nel "sacro fuoco", da Ippocrate nel cosiddetto "messaggero", da Aristotele nell' "entelechia", dagli stoici nel "pneuma", fino alla paradigmatica filosofia platonica con la famosa teoria delle "idee innate", universali e necessarie, patrimonio di origine divina, calate in modo improprio ed approssimativo nel regno della caducità e del particolarismo, rappresentato dall'esperienza sensibile e naturale (emblematica, come esigenza di connessione tra mondo empirico e mondo ideale, la mitica figura del "demiurgo").

Il dualismo cartesiano, all'inizio dell'età moderna, influenzerà inevitabilmente lo sviluppo del pensiero, nella sua storica contrapposizione tra orientamenti materialistico-riduzionistici e rivendicazioni spiritualistiche, il cui limite scientifico risulterà sempre quello di identificare lo psichismo con l'antica idea metafisica dell' "anima-sostanza".

Un zona di contatto tra sfera psichica ed organica sarebbe rinvenibile, secondo la prospettiva dell'autore, nel mondo onirico, oggetto di disparate interpretazioni nella storia del pensiero.

La visione platonica, del tutto coerente coi suoi presupposti, sosteneva che la mente razionale, in quanto anima, per affermarsi nella sua costitutiva e originaria purezza, deve emendarsi progressivamente dai residui empirici delle emozioni mondane, liberandosi dalla prigionia del corpo. A tale interpretazione del sogno come mediatore con la trascendenza, si ricollegano tutte quelle visioni dell'attività onirica come una sorta di "episodio psicotico": un "folle ardore", un "furore divino", attraverso cui il soggetto viene a contatto con esperienze soprannaturali e misteriose.

In contrasto con questa visione metafisica, all’interno di un approccio naturalistico si sviluppa l'onirologia medica, per la quale, nello stato di sonno, stimolazioni interne, anche di carattere morboso, darebbero luogo ad equivalenti immagini oniriche.

Quindi, anche per quanto concerne l'interpretazione del sogno, posizioni naturalistiche —

tipiche degli epicurei e dei pitagorici, che negano all'esperienza onirica qualunque valore finalistico e simbolico (eredi della teoria somato-psichica galeno-ippocratica) — si contrappongono alle posizioni idealistiche e platonizzanti, che riconoscono nel sogno espressioni di una realtà trascendente.

Questa storica dicotomia caratterizza anche il pensiero dell'età moderna, dove alle concezioni della "psichiatria romantica", che vede nel sogno una versione fantastico-metaforica dei vissuti coscienti e soprattuto inconsci, si passa alle impostazioni positivistiche, che negano ogni valore simbolico all'esperienza onirica, considerata naturalisticamente come puro fenomeno fisiologico.

A metà tra le due impostazioni troveremo il pensiero di Freud, che, da un lato, interpreta il sogno come modalità di scarico di cariche libidico-energetiche rimosse, dall'altro riconosce, dietro la trama manifesta del sogno, un contenuto simbolico, inerente alla conflittualità psicologica del soggetto. Adler invece arriva ad interpretarlo come una modalità espressiva che trascende la sfera pulsionale e coinvolge tutta la personalità del soggetto, comprese quelle componenti inibite, allo stato di veglia, da censure morali. Il sogno è qui considerato come una specie di esercitazione notturna, in vista della preparazione ad affrontare problemi della vita quotidiana.

Roccatagliata dedica poi un altro lungo excursus storico al tema delle emozioni e al diverso modo di concepirle nella nostra tradizione culturale.

Nella civiltà greca si evidenzia una tipica tendenza svalutativa dell'esperienza emozionale. Per Pitagora l'anima è definita "sostanza pura" e il corpo "sostanza sporca", per cui si auspicherebbe un'adeguata opera di "purificazione", essendo le componenti psicoemotive scorie inquinanti e intrusive nell'incontaminato mondo razionale. Nel pensiero di Socrate, le emozioni sarebbero nient'altro che un "errore logico", uno "sbaglio del giudizio intellettivo", che si riflette sull'anima e sul corpo, provocando le emozioni, considerate come alterati fenomeni vegetativi. Tutto il metodo socratico del "conosci te stesso" si rivela sostanzialmente come una capacità sistematica di progressivo distacco dall'immediatezza emotiva, pericolosa e inaffidabile (temi poi sviluppati nel dualismo platonico). Anche le filosofie ellenistiche, in particolare la posizione stoica, preludendo alle concezioni ascetico-cristiane, individuerebbero nella forza dei sentimenti e delle emozioni, pericolose e devianti minacce, cui si contrappone l'ideale di un'apatia emotiva, come spersonalizzazione ed assoluto distacco dalla sfera istintuale.

In età moderna, dopo l'esaltazione romantica del sentimento, in cui il problema del dualismo mente-corpo era risolto su un piano estetizzante, anche i movimenti positivistici ed evoluzionistici riscoprono la funzionalità dell'emozione, ma solo nell'ambito funzionalistico della teoria dell'adattamento ambientale. In particolare Darwin, Wundt, Spencer, James e Baldwin tendono ad attribuire all'emozione il ruolo di "segnale", in funzione di una conoscenza adattiva e plastica, in quanto, proprio a livello fisiologico e metabolico, consentirebbe reazioni ottimali ad eventi ambientali significativi.

Secondo Roccatagliata, a conclusione di questo lungo e contraddittorio percorso, le moderne neuroscienze avrebbero conseguito finalmente l'auspicata integrazione tra il mentale e l'organico: "Un atto intenzionale dell'io attiva l'energia depositata in centri sottocorticali, che sostiene le operazioni cognitive che avvengono nel lobo frontale".

Proprio quest'ultima affermazione dell'autore, che intenderebbe presentarsi come l'ideale sintesi del travagliato percorso storico del pensiero, alla ricerca di se stesso e della sua identità, non sembra però esente, a sua volta, dalle storiche contraddizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della filosofia occidentale.

Da un lato, infatti, la scienza naturale ha cercato la spiegazione delle esperienze mentali, dalle più semplici alle più complesse, sul piano dei "comportamenti obiettivabili" e dei processi neurobiologici, quantificabili e misurabili: in quest'ottica meccanicistica, è evidente come tutti i riferimenti all'interiorità, intesa come Io, Soggetto o Intersoggettività, non possano essere altro che pure divagazioni, di ordine metafisico e misticheggiante, estranee alle finalità ed ai metodi della ricerca scientifica. Assumendo unicamente quest'ottica, sarebbe fuori luogo ammettere l'esistenza di un "atto intenzionale dell'Io", essendo egli stesso riducibile ai meccanismi ed ai processi cerebrali, specifici ed esclusivi oggetti di ricerca delle attuali neuroscienze.

Risulta inevitabile, però, che a questa concezione naturalistica della mente, che riduce le esperienze interiori a semplici funzioni dell'organismo corporeo ed a processi fisico-chimici, si contrapponga il punto di vista di chi, partendo dalla propria interiorità soggettiva (qualitativamente vissuta come irriducibile al mondo esterno), ne rivendichi i caratteri di insopprimibile originalità, anzi, di condizione "aprioristica" (come desumiamo dal pensiero kantiano) per qualsiasi esperienza di realtà.

Se, quindi, si intende riconoscere un ruolo primario all'Io ed alla soggettività, gli indiscutibili contributi delle neuroscienze dovrebbero essere integrati da una preliminare delimitazione metodologica, che stabilisse le loro funzioni ed il loro campo di competenza (riferite esclusivamente alla realtà oggettuale e alla dimensione dell'esteriorità comportamentale). Assumendo questo punto di vista critico, ogni nuovo e prezioso apporto delle neuroscienze, per quanto rivoluzionario e sorprendente, non potrà mai esaurire in modo semplicistico le complesse problematiche dell'interiorità, per le quali si rende necessario presupporre l'autonomia di un soggetto, che si ponga in relazione alla stessa dimensione oggettuale.

Anzichè quindi abolire l'originaria contraddizione soggetto-oggetto (riducendo cioè l'esperienza soggettiva alla dimensione oggettuale), in nome di un mito scientifico naturalisticamente onnicomprensivo, si dovrebbe invece mettere esplicitamente in evidenza come proprio in questa imprescindibile antitesi dialettica si possa riconoscere l'essenza originaria dell'attività psichica.

Gabriele Giacomini

LINKS

TORNA ALL'INDICE DEL MESE

CERCHI UN LIBRO?

CERCHI UNA RECENSIONE?

FEED-BACK:
SUGGERIMENTI E COLLABORAZIONI

Se sei interessato a collaborare — o se vuoi fare segnalazioni o inviare suggerimenti e commenti — non esitare a scrivere al Responsabile di questa Rubrica, Mario Galzigna, che si impegna a rispondere a tutti coloro che lo contatteranno.


spazio bianco
POL COPYRIGHTS