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QUATTRO FRATELLI, QUATTRO MODI PER DELINQUERE

Su alcuni rapporti fra criminologia e psicoanalisi

Romolo ROSSI Alfredo VERDE

 

 

    Si danno minuti in cui gli uomini amano il delitto, - pensosamente commentò Alioscia.
    Sì, sì! Avete detto quello che io pensavo: lo si ama, tutti lo si ama, e si ama sempre, non già a "minuti". Sapete, è una cosa, questa, in cui tutti si son come acconciati a mentire, e dopo d’allora, mentono tutti. Tutti dicono di odiare il male, ma nell’intimo loro, tutti lo amano (…) Ascoltate: ora vostro fratello viene processato per aver ucciso suo padre, e a tutti, intanto, piace che abbia ucciso suo padre.
    Piace che abbia ucciso suo padre?
    Piace, piace a tutti! Tutti dicono che è una cosa tremenda, ma nell’intimo piace loro tremendamente. Son io la prima, che mi piace.(…)
    Io mi figuro, alle volte, di crocifiggere qualcuno. Lui sta lì appeso e si lamenta, e intanto io gli sto seduta di faccia e mangio la marmellata d’ananas. Quanto mi piace, la marmellata d’ananas! A voi piace?

 

 

 

 

    1. I contributi della psicoanalisi alla criminologia

Oggi che la psicoanalisi, come dice autorevolmente l’Economist (24 dicembre 2005) sta "slipping peacefully away", vediamo di ricordare i contributi fondamentali che essa ha dato alla criminologia.

La storia dei rapporti fra psicoanalisi e criminologia va articolata seguendo soprattutto le vicissitudini della prima: la sua nascita, il suo sviluppo, la sua crisi, quel che ne resta e che ha permeato della cultura che le è propria un secolo e sicuramente anche il successivo. La criminologia, infatti, non può essere considerata come disciplina a sé, in quanto manca di un linguaggio specifico, e cioè di un proprio discorso, e non ha costituito una propria episteme essendo unificata soltanto dal proprio oggetto, la via finale costituita dall’interesse per l’autore di reati.

Distingueremo, così, fra i contributi che la psicoanalisi ha portato alla criminologia, quelli appartenenti alla fase pionieristica dell’entusiasmo e quelli propri della fase di successo e di espansione egemonica (specie negli Stati Uniti), per poi approdare a una visione sincronica che cercherà di mettere in luce i rapporti e le reciproche fecondità al momento attuale.

Alla fase pionieristica vanno ascritti sicuramente il contributo inaugurale di Freud (1916) sul delinquente per senso di colpa, quello di Alexander e Staub (1929), che riguardava sia un tentativo di impostazione generale della caratterologia criminologico-psicoanalitica (classificazione dei delinquenti su base psicoanalitica), sia una sorta di psicopatologia del grado di partecipazione dell’Io del delinquente all’azione criminosa, sia un primo, importante abbozzo sociopsicoanalitico dei rapporti fra società punitiva, tendenze criminali diffuse in tutti e funzione della pena, e infine quello di August Aichhorn (1925), più connesso all’aspetto pratico dell’educazione psicoanalitica dei minori delinquenti. Un particolare riferimento va fatto qui all’opera di un’altra pioniera come Melanie Klein illustratrice del contenuto indubbiamente "criminale" delle fantasie infantili in due celebri scritti degli anni trenta del secolo scorso (Klein, 1927; 1934).

Come si nota, già in questi primi contributi emerge il valore della psicoanalisi come strumento conoscitivo e di concettualizzazione, mentre non ci si pone molto la questione circa la possibilità di utilizzare il metodo psicoanalitico per il trattamento della delinquenza.

Una seconda fase, che definiremmo egemonica, vede la peste psicoanalitica approdare negli Stati Uniti e conquistare sia il campo della psichiatria, sia quello della psicologia accademica, anche per merito dell’invasione del campo statunitense da parte degli psicoanalisti transfughi dall’Europa; ma questa è solo l’eco di un movimento diffuso in scala mondiale, di cui rinverremo le tracce nelle principali scuole nazionali. Ricorderemo, a questo proposito, la silloge in memoria di August Aichhorn (Eissler, 1949), con contributi da parte dei principali psicoanalisti statunitensi ed europei non kleiniani (Eissler, Johnson, Szurek, Sterba, Lampl-de Groot, etc), in Gran Bretagna i contributi di Schmideberg (1935) e Glover (1960), poi di Winnicott (1956) e fra i postkleiniani di Hyatt Williams (1998); in Francia, l’interesse per la criminologia mostrato da analisti come Lagache (1950) e Lacan (Lacan e Cénac, 1950); nel nostro paese da analisti come Davide Lopez (1970) e Romolo Rossi (Rossi, 1983; Rossi e Di Marco, 19). Non dimentichiamo, inoltre, che uno dei maggiori contributi alla teorizzazione da parte della c.d. "criminologia clinica" della personalità criminale viene proprio dalla psicoanalisi, a partire da Aichhorn, che aveva sistematizzato l’antisocialità come disturbo del carattere, fino al contributo del canadese Padre Noel Mailloux (1971) che come è noto ha teorizzato la delinquenza come un "disturbo di identità", sulla scia prima della psicologia psicoanalitica dell’io e poi della moderna teoria del narcisismo nella versione di Otto Kernberg. In precedenza la criminologia clinica, sulla scia di Etienne De Greeff (1937, 1962), era invece collocata nell’ambito della tradizione fenomenologica della psichiatria.

Questo periodo, che potremmo definire come "periodo d’oro", vede, dal punto di vista terapeutico, un tentativo più diretto di utilizzare anche la clinica psicoanalitica nel trattamento dei delinquenti, sebbene con scarso successo se applicata senza parametri; con maggiore successo se al tentativo di effettuare terapie psicoanalitiche in senso stretto si sostituiscono interventi psicoterapeutici o di comunità alla psicoanalisi ispirati. Come si diceva, la caratteristica fondamentale del periodo egemonico è per la psicoanalisi la sua volontà di conquistare una serie di territori confinanti, sebbene al prezzo di trasformarsi. Con la cura-tipo non si sono mai curati, si diceva, i delinquenti. La psicoanalisi doveva così rassegnarsi a un ingresso in carcere (dove avrebbe valicato e rafforzato l’ideologia del trattamento, entrata in crisi, come è noto, alla metà degli anni settanta) e al suo adattamento alla nuova situazione, espressa attraverso la sua trasformazione in terapia di gruppo (ad esempio, nella pionieristica esperienza di Redl e Wineman; lo stesso Mailloux era stato uno degli artefici di questa trasformazione) o addirittura in terapia di comunità (ciò, in particolare, in Gran Bretagna dove sarebbe nato e si sarebbe affermato il movimento delle comunità terapeutiche, e anche in Francia, dove in fondo l’approccio attualmente egemone, quello di Balier, si basa su una presa in carico di reparto dei delinquenti). Da rilevare, che, come sempre, è stato alla fine di questo periodo che sono maturati i migliori contributi nel settore.

2. Psicoanalisi e criminologia aujourd’hui

L’età del riflusso, la presente, è l’età della crisi della psicoanalisi, della sua messa in discussione dal suo interno (la deriva verso il cognitivismo) e dall’esterno (i successi della psichiatria psicofarmacologica e biologica). Tuttavia, le ricerche sull’efficacia della psicoterapia, per quanto poco diffuse in campo psicoanalitico, mostrano che la psicoterapia psicoanalitica dà risultati promettenti (Roth e Fonagy, 1996; Fonagy et al., 2002); le ricerche cliniche sul trattamento psicofarmacologico della delinquenza indicano peraltro che la panacea di un farmaco che controlli e limiti la cattiveria e l’aggressività umana è ancora lungi dall’essere stata rinvenuta (cit).

Questo periodo di riflusso permette comunque di verificare quanto è rimasto della psicoanalisi in criminologia, nell’approccio clinico alla delinquenza: è inutile dire che, a nostro parere, il contributo psicoanalitico è ineguagliabile sia a livello della conoscenza clinica, sia a quello della derivata competenza psicogiuridica o psichiatrico-forense. Senza contare, poi, l’importanza del contributi psicoanalitici allo studio della nostra società. Inoltre, la competenza psicoanalitica nel creare teorie resta spesso alla base di una disciplina, come la criminologia, che senza teorie rischia di rimanere semplicemente una serie di dati sottoposti a infruttuose elaborazioni statistiche.

Interroghiamoci ora sulle radici dell’utilità della psicoanalisi in campo criminologico.

In primo luogo, la psicoanalisi riconosce la natura spesso antisociale dei desideri inconsci (incestuosi e omicidi), ma questo è un livello perlopiù solo di fantasia. I delinquenti, invece, realizzano nella vita i contenuti inconsci dei nevrotici mettendone i atto i desideri. Proprio la continuità fra normalità e patologia che la psicoanalisi ha sempre sottolineato costituisce un importante strumento, in presenza di una serie di opposte spinte sociali che tenderebbero a presentare il delinquente, come è noto, come "diverso", "altro", talora come mostro (a questa tendenza non sfuggono i DSM, che, come è noto, hanno costruito sull’antisocialità del comportamento e sulla cattiveria addirittura una categoria diagnostica). La pratica della psicoanalisi mette al riparo dall’identificazione (pericolosa, vedremo, e che va lasciata ai giudici) con l’istanza di pedagogia sociale "nera" (citiamo, qui, una deviante psicoanalitica come Miller, 1987) propria di ogni tentativo sociale di punizione/recupero della delinquenza.

In secondo luogo, la psicoanalisi continua a costituire un formidabile strumento di conoscenza clinica per "spiegare" il "perché" degli agiti antisociali. E’ impossibile qui trattare se non per accenni questo punto: basti accennare al fondamentale spostamento nella psicoanalisi dal concetto originale di Freud (delinquenza per senso di colpa) al concetto di ferita narcisistica, che sta alla base del passaggio fra psicoanalisi dei pionieri a psicoanalisi moderna. L’opera di Donald Woods Winnicott segna appunto questo momento, che ha permesso di evidenziare da un lato il contributo dell’ambiente (con il sostanziale cul de sac imboccato dalla scuola kleiniana attraverso la derivazione dell’invidia dalla pulsione di morte innata), e l’origine nella carenza di ogni agito antisociale (per cui si può dire che più che Eros, l’aggressività sia figlia di Penìa e di Poros), e dall’altro la natura sostanzialmente antidepressiva e autorisarcitoria di ogni agito aggressivo: è il concetto di "delinquenza come alternativa alla malinconia" (Rossi e Di Marco, 19 ). E se allora è assodata la natura "reale", infantile, della ferita originaria, il problema diventa, nella clinica attuale, che cosa se ne fa nella mente, quali vie può prendere il soggetto: quella dell’elaborazione, quella melanconica, e infine quella, che potremmo definire di "equivalente maniacale", dell’agito di valore sostanzialmente difensivo (cfr. Devereux, 1940) con tentativo di risarcimento nella realtà da parte del soggetto (Rossi e Di Marco). Va rilevato che su questo punto regna ormai un sostanziale accordo fra gli studiosi delle differenti scuole (da Winnicott, ai teorici della relazione oggettuale, a Kohut, agli studiosi che prediligono il livello del c.d. "transgenerazionale"), per cui si può affermare che la ferita narcisistica è alla base di ogni antisocialità. Occorre inserire qui il principio kohutiano di trasformazione del narcisismo (Kohut,1971; 1977), ed esprimere l’ipotesi che gli agiti criminali costituiscano una di tali trasformazioni: bisogna sottolineare cioé il peso del sé grandioso nell’atto criminoso, venendosi così a considerare la personalità criminale come un tentativo di ricostruzione del Sé via stabilizzazione della grandiosità intorno alla scelta caratteriale antisociale.

Con questo, non si vuole negare importanza ai fattori quantitativi. E’ anche significativo rilevare come la maggior parte delle recenti ricerche longitudinali sui precursori dell’antisocialità confermi, per quanto e ovviamente "per linee esterne" questo assunto dell’origine traumatica dell’aggressività - o, potremmo correggere, del suo malo uso (Farrington, 2003; Loeber, Green e Lahey, 2003).

Per proseguire in minima parte l’esemplificazione di quanto la psicoanalisi può offrire alla teorizzazione criminologica, potremmo sviluppare ulteriormente i concetti esposti, per affermare, ad esempio, che l’atto delinquente, dal punto di vista clinico, può rappresentare un "di più" o un "di meno" di pensiero e di mentalizzazione.

Troveremo, allora, da un lato gli atti deliberati di chi pianifica, progetta, utilizza il pensiero per progettare atti delinquenti (appartengono a queste categorie, probabilmente, anche gli "imprenditori" della delinquenza organizzata), cioè atti che spogliano e danneggiano altri, sostanzialmente egosintonici, che vengono poi giustificati e concretamente razionalizzati per mezzo di una serie di difese al fine sostanziale di negare la colpa depressiva legata all’identificazione con la vittima (siamo vicini alla categoria tradizionale, ma che oggi sembra tornare in auge, di psicopatia); e, dall’altro, quegli atti d’impeto, quelle impossibilità di trattenersi, con gradi diversi di egodistonicità, e che sono state variamente etichettate dalla psichiatria (clinica dell’impulsività, dal disturbo del controllo degli impulsi al disturbo borderline di personalità) e che possono essere spiegati sia con il modello dell’arco riflesso, con il corto circuito della coscienza (fino alla perdita della coscienza dell’Io) sia con quello della scarica pulsionale incontrollabile, ma che fanno comunque riferimento a un minus di mentalizzazione e di elaborazione.

Anche la tecnica necessaria per trattare questi due tipi di disturbo varierà: nel primo caso (personalità criminale, ossia delinquenza come disturbo del carattere, ovvero perversità nel senso di Kernberg, 2004, distinguendo nettamente questo stato, definito anche come "struttura caratteriale perversa" dalla scuola lacaniana e dalla scuola kleiniana, dal concetto di "perversione", più legato alle perversioni sessuali in senso stretto) sarà opportuno seguire i suggerimenti (insuperati) di Aichhorn: non cedere da un lato all’alleanza seduttiva che il sé corrotto del delinquente propone (sarà questo il cedimento di Ivàn Karamazov, lo vedremo, col delinquente Smerdiakov), mostrarsi al corrente delle tecniche delinquenziali utilizzate senza farsi corrompere dalla seduttività e dal fascino superficiali del soggetto, e cercare dall’altro lato di entrare in risonanza empatica con il Sé infantile deprivato e depresso al limite del suicidio, nei confronti del quale la struttura delinquenziale costituisce una difesa caratteriale avanzata (delinquenza, appunto, come alternativa alla melanconia), per costruire, ora per allora, nella situazione transferale, una relazione non traumatizzante e non deprivante; tutto ciò con il limite, evidente e ben compreso da Winnicott (1956), della sclerotizzazione della tendenza antisociale nel guadagno secondario, che premia la difesa e corrompe il Sé infantile deprivato ritrasformandolo in un mero fascio di pulsioni che cercano soddisfazione (è il "groviglio di serpenti furiosi che raramente trovano pace uno accanto all’altro - e allora se ne vanno ciascuno per conto suo a cercar preda nel mondo" di cui parla con la consueta straordinaria capacità anticipatrice Nietzsche nel brano dello Zarathustra sul "delinquente pallido" citato, come è noto, da Freud nel suo breve scritto sui "delinquenti per senso di colpa": cfr. Verde, 2003) senza più distinzione fra bambino deprivato e difesa caratteriale (come le bambine perverse sulla scala del pittore Titorelli ne Il processo di Kafka), con la proiezione ormai assoluta della colpa sull’altro, sulla vittima, vero e proprio "capro espiatorio" attuale della ferita antica subita dal delinquente. Da rilevare, che Kernberg ha inserito questo tipo di personalità antisociale al punto più basso del continuum dei disturbi narcisistici da lui evidenziato (come è noto, Kernberg distingue il vero e proprio disturbo antisociale di personalità, con la completa corruzione del Super-io, dal c.d. "narcisismo maligno", e questi due dal disturbo narcisistico di personalità cfr. Kernberg, 1998). E’ evidente che, nel primo caso (vera e propria psicopatia), sarà indispensabile una presa in carico anche ambientale, secondo i principi evidenziati da Gabbard (2000), negli Stati Uniti, e da Balier (1988, 2005) con una costante attenzione alle dinamiche ingenerate nell’équipe curante da parte degli agiti del soggetto, che utilizzerà in modo massiccio (e quasi consapevole, se non consapevole del tutto) scissione, identificazione proiettiva e conseguente manipolazione dell’ambiente umano circostante.

A metà fra i primi autori (psicopatici freddi) e i secondi (delinquenti d’impeto) stanno i delinquenti sessuali, caratterizzati da perversità e dalla presenza di un impulso apparentemente incontenibile. L’autore che ha fornito il contributo più adeguato per trattare tali autori è Balier (1996 e, da ultimo, 2005), che propone, come è noto, un quadro di presa in carico ambientale psicoanalicamente orientata, con incontri faccia a faccia in cui sia possibile al soggetto riconoscere l’altro nel gioco degli sguardi ed entrare quindi nel mondo umano, al di là del gesto compiuto, che consiste in un tentativo impossibile di separarsi-differenziarsi dall’oggetto relazionale primario. La via della prima connessione con il mondo umano è quella delle fobie pervasive che si manifestano, secondo l’esperienza di Balier, in tali soggetti nel momento in cui essi iniziano a mentalizzare l’alterità e quindi la separazione dalla madre.

Nel caso, invece, dei delitti impulsivi, sarà opportuno trattare il soggetto tenendo ferma e rinforzando la funzione del setting, della cornice terapeutica, mostrando al soggetto che l’analista è in grado di pensare, di fare un passo di lato e di mantenere la funzione di pensiero anche nei momenti difficili, in cui l’urgenza delle pulsioni non sembra trovare contenimento se non nell’azione, e parallelamente rimandare sempre al paziente la ricchezza di risposte metaforizzate, in una sorta di "giocare con le parole" che renda a lui testimonianza che il preconscio dell’analista è vivo, ben funzionante e capace di utilizzare l’umorismo e la creatività. Sarebbe stato di una terapia di questo tipo di cui avrebbe avuto bisogno il povero, sventurato e simpatico Dmitrij Karamazov.

In terzo luogo, e in parte sintetizzando i due momenti precedenti, la psicoanalisi ha costituito un formidabile strumento per comprendere come, a livello sociale, il delinquente rappresenti l’altro utile a rappresentare e risolvere una serie di problemi collettivi, e ha svolto quindi un’importantissima funzione sociale nel tentativo, collettivo, di riappropriazione/rinominazione della parte pulsionale espulsa con il patto sociale, che ha caratterizzato la società moderna industriale e postindustriale (pur se con il correlato prezzo in termini di inibizione pulsionale di cui ha ampiamente parlato Freud ne "Il disagio della civiltà", 1929).

    1. Quattro killer per Fedor Karamazov

I Fratelli Karamazov ci permettono di mostrare la presenza in tutti i consociati, rappresentati dai quattro fratelli appunto, dei desideri parricidi, in ciascuno declinati a proprio modo, sulla base della storia precedente (del rapporto, quindi, con la madre, diverso per i diversi fratelli). Ci permettiamo, qui, di riprendere e di approfondire gli spunti che il genio di Freud ha fornito nel celebre "Dostoevskij e il parricidio" (Freud, 1927).

Quattro fratelli, quattro killer: includiamo fra chi desidera la morte del padre anche il migliore di tutti, il mite Alioscia, a differenza di Freud. Anche Alioscia, infatti, condivide il destino degli altri tre, non foss’altro che perché è figlio di Fjodor. Un’analisi psicoanalitica del romanzo non può tuttavia dimenticare che i quattro fratelli sono nati da ben tre differenti madri: e i fratelli, allora, potrebbero essere divisi in tre gruppi, corrispondenti alle differenti madri, e alla qualità delle relazioni che queste ultime avevano intrattenuto con la vittima: per prima, la madre di Dmitrij, poi quella di Ivan e Alioscia, e infine quella, degradata e svalutata, di Smerdijakov, il turpe e disgustoso omicida. Vedremo di seguito come la qualità del rapporto con ogni madre influirà sul rapporto dei fratelli col padre. L’atteggiamento dei fratelli verso il padre potrebbe infatti essere ricondotto a tre modalità: quella di Dmitrij, struttura passionale e impulsiva, generosa e dominata dal senso di colpa: ai nostri giorni lo si definirebbe una struttura borderline; quella di Ivan e Alioscia, dominati dalle difese nevrotiche e dalle fantasie perverse più o meno sottoposte a rimozione (gestite via meccanismi di difesa ossessivi, in Ivan, e prevalentemente ascetico-sublimatori in Alioscia), e infine quella di Smerdijakov, vera personalità psicopatica, caratterizzata dalla tendenza alla rimuginazione fredda, all’assenza della dimensione affettiva e dal passaggio all’atto.

Dmitrij Fedorovic, il primo dei fratelli, è figlio della prima moglie, Adelaida Ivanovna Miusov, che, dopo una fuga d’amore con Fedor Pavlovic, lo sposa e instaura rapidamente con lui una convivenza basata sulle liti e sulle baruffe: la moglie picchia il marito. Quando il piccolo ha tre anni, la madre fugge con un seminarista e abbandona padre e figlio, per poi rapidamente morire. Il bambino viene dimenticato dal padre e raccolto nella sua baracca dal fedele servitore Grigorij; interviene il cugino della madre e lo prende con sé, ma poi lo abbandona anche lui, e lo affida a una cugina della propria madre, che presto anche lei muore e lascia il bambino alla propria figlia maritata. Dostoevskij parla poi di un quarto trasferimento del bambino. Genitori che si picchiano, parenti, famiglie che oggi definiremmo affidatarie: come stupirci allora se Dmitrij mostra l’impulsività, la labilità affettiva, gli sbalzi d’umore tipici delle personalità borderline? Generoso e gretto, dai comportamenti incoerenti (vedi la storia con Katerina Ivanovna), questo individuo passionale, ma che desta nel lettore una evidente simpatia, diverrà la vittima espiatoria collettiva e verrà dichiarato colpevole dell’omicidio del padre. In effetti, Dmitrij Fedorovic ha un movente, l’eredità materna, che il gretto genitore gli ha turpemente sottratto, e della quale lui stesso si sente espropriato. Non è chi non veda nella metafora dell’eredità la rivendicazione antica dell’amore materno, sottrattogli dal padre e dalla sua grettezza. Al padre, infatti, e al ricco mercante che ancora adesso mantiene con lei un rapporto equivoco, Dmitrij contende la bella Agrafena Alexandrovna, la Grusenka che perdutamente ama, e che il padre vuole comprare con i famosi tremila rubli che Dmitrij percepisce come quelli dei quali è stato derubato dal genitore.

Ivàn e Alioscia, i figli di secondo letto, sono figli di Sof’ja Ivanovna, un’orfanella cresciuta nella casa di una ricca vedova, e anch’essa rapita dal terribile Fedor Pavlovic, ma la relazione fra i due è diversa: intanto, Fedor è innamorato — a suo modo, ovviamente — della donna, e poi la fa partecipare a una vita promiscua, accettando in casa donne di malaffare e organizzando orge. Per sottrarsi a questa situazione, cui anche i bambini evidentemente sono esposti, la giovane contrae una malattia nervosa (con accessi periodici simili a quelli dell’isteria), oltre a concepire due figli. Anche questa madre muore quando Alioscia ha quattro anni e Ivan sette, i bambini passano per tre mesi a Grigorij, e la vedova benefattrice della madre ritorna e si riprende i bambini, per poi affidarli alla propria morte a un galantuomo di sua conoscenza, che si occupa del loro mantenimento e della loro istruzione prendendoli presso la propria famiglia. Il primo dei due, Ivan, dimostra brillanti disposizioni allo studio, e verso i tredici anni entra al ginnasio a Mosca, ospite di un pedagogo amico del galantuomo; ma entrambi sono morti quando, terminato il ginnasio, il ragazzo entra all’università: per mantenersi scrive articoli per i giornali, e un famoso articolo in cui prende in giro gli ecclesiastici; finché, a un certo punto, si stabilisce nella cittadina di provincia, presso il padre, chiamato dalle insistenze del fratello maggiore. Ivan ha un carattere fantasioso e rimuginatore, tanto incline al filosofare, all’astrazione e al bizantinismo quanto il fratello è impulsivo e irruento: è ossessionato dal problema del male e di Dio.

Alioscia, il terzo fratello, ha deciso di entrare in convento, per l’adorazione che porta per il sant’uomo del monastero locale, lo starec Zosima. Alioscia è preso da un ricordo della madre, che lo tiene in braccio e implora per lui la protezione della Vergine, singhiozzando, quando arriva la balia e glielo strappa dalle mani: questa madre, dal viso esaltato, gli è rimasta nel ricordo. Alioscia, casto e pudibondo, vive in un mondo di rigide scissioni, è ancorato a un’immagine di sé buona, non può permettersi di essere cattivo, e quindi non giudica nessuno; per questo, è amato da tutti. Alla morte del galantuomo, viene preso in casa da due signore, ma non termina il ginnasio: torna alla cittadina per cercare la tomba della madre e qui viene molto apprezzato dal padre. Ma la traccia della madre permane, indelebile, nell’amore che Alioscia nutre per Lise, affetta da una paralisi isterica alle gambe proprio come la madre era isterica, era una klikusa, addirittura un’indemoniata della tradizione popolare russa: e le klikuse venivano portate agli starec, perché questi cacciassero il demonio che albergava in loro, e così anche Lisa viene portata allo starec… Lo starçetsvo serve allora ad Alioscia come momento identificatorio: identificato sublimatoriamente con lo starec, col sant’uomo, Alioscia potrà controllare la madre troppo emotiva ed imprevedibile; ma a spese della sessualità, e attraverso una scissione troppo rigida, ché anche Alioscia dovrà sopportare il peso del parricidio, nel suo caso rappresentato dalla morte dello starec (dalla caduta cioè dell’idealizzazione che permetteva di mantenere la scissione) e dal successivo, fin troppo umano odore di decomposizione che si sprigionerà dal cadavere: tanto che il constatare che lo starec puzza, che lo starec è contaminato dalla morte, e quindi dal sesso, susciterà in questa personalità rigida un vero e proprio episodio confusionale, potremmo dire, con le parole della psichiatria, una psicosi confusionale acuta.

Smerdijakov, il quarto fratello, il fratello impossibile, il figlio della scommessa del turpe Fedor Pavlovic, che sostiene con gli amici di riuscire a andare a letto anche con la lercia, sozza scema e vagabonda del villaggio, la Smerdjask’aja; e vive, anche lui allevato da Grigorij, un’esistenza assurda, lui, figlio, non solo trattato "come" un servo, ma servo del padre. Con invidia smodata, desiderio di essere ammesso "dentro", fantasie snobistiche da pezzente: cadrà, oh se cadrà, nelle elucubrazioni ossessive di Ivan; e mentre questi enuncia le sue macabre fantasie per non metterle in atto (ricordiamo con Freud che la nevrosi è la negativa della perversione), lui invece lo prenderà alla lettera, e, credendosi convinto, spinto da lui (illuminanti sono gli episodi successivi all’omicidio, quando Ivan lo andrà a trovare nel suo letto di infermo) uccide il padre gettando la colpa su Dmitrij. Quando si renderà conto che Ivan aveva sì flirtato con l’idea, ma che non sarebbe forse stato d’accordo con la sua completa realizzazione, Smerdijakov si uccide.

Troppo si dovrebbe scrivere per commentare anche solo un poco questo romanzo straordinario in cui ritorna, sempre, come in una colossale e macabra sinfonia, il tema del parricidio: così, D’mitrij non lo ha commesso, ma si sente in colpa per averlo desiderato; Ivan lo ha istigato, e, dopo i primi due incontri con Smerdijakov, lo nega e incolpa D’mitrij, vero e proprio capro espiatorio (Girard, 1972; 1982) o "assassino innocente" (Verde, 1991), ma la menzogna regge fino a quando, nel terzo e ultimo incontro con l’infame lacché, quest’ultimo gli spiattella in faccia la verità: ha ucciso Fiodor Karamazov perché lui, Ivan, gliel’ha ordinato. Alioscia, per parte sua, prosegue nella negazione, ma la negazione crolla di fronte alla puzza, per così dire.

Basti dire, qui, che la psicoanalisi ci aiuta a capire come mai il figlio possa passare dalle fantasie parricide alla loro realizzazione. Il primo passo, evidente nel romanzo, sarà la deidealizzazione del padre: quella, evidente, cui il vecchio Fedor Pavlovic si espone ogni momento, massime al momento della udienza di fronte allo starec, in cui il vecchio si mostra cattivo, turpe, ridicolo, e non si sa se i figli lo debbano odiare o commiserare, ma comunque si vergognano di lui; il secondo, sarà la percezione di una concreta espulsione (ferita narcisistica) da parte del padre, come quella che Dmitrij teme e fantastica, espulsione dal paradiso materno (Agrafena Alexandrovna, Gruscenka), espulsione dalle sue ricchezze (il furto dell’eredità della madre); dove l’espulsione è concreta, è senza limite, è originaria, è proprio in Smerdjakov, il mai riconosciuto, il servo in casa, l’epilettico, quello che non contiene nella mente l’odio ma lo scarica in modo convulso, in assenza di coscienza, e uccide per compiacere il suo oggetto idealizzato (Ivan) , in una grossolana scissione, nell’assenza di qualsiasi oggetto sostitutivo che dia un po’ d’amore. Smerdjakov, non riconosciuto dal padre, odiato dalla madre, che ricorda, in un celebre passo, che Grigorij Vasil’evic lo rimproverava di ribellarsi contro la sua nascita: "’Tu’, dice lui, ‘le hai squarciato le viscere’. Va bene che gliel’avrò squarciate, ma io, per conto mio, avrei permesso che mi si uccidesse ancora nell’utero, purché al mondo non ci fossi venuto affatto", esclama Smerdjakov in un momento in cui dovrebbe darsi alle tenerezza con una giovane. Deidealizzazione del padre, quindi, che si deve accompagnare però alla ferita narcisistica, alla percezione di essere stati espulsi, sviliti, feriti.

Ferita narcisistica quindi presente in tutti i fratelli: in Dimitrj, si diceva, che ha perso la madre, che è stato espulso dal padre, e allevato dal servo. In Ivan e Alioscia, vissuti nella scena primaria, che tentano entrambi di risolvere il problema in modo evoluto, Ivan con la formazione reattiva, l’idealizzazione e la razionalizzazione delle originarie tendenze sadiche, di cui fa un gran parlare con grande piacere, e così si lancia nella descrizione sadomasochistica di bambini sgozzati, fatti ridere e poi brutalmente sparati alla testa, di pance incinte infilzate, di bambine cinquenni torturate con voluttuoso sadismo dai propri genitori (e l’episodio del Grande Inquisitore ci mostra lo sforzo dell’intellettualizzazione che il fratello più evoluto dei tre deve fare per integrare il diavolo, il negativo; sforzo che si accompagna, come tutte le produzioni sintomatiche, a un sovrappiù di piacere perverso), e Alioscia soprattutto con la formazione reattiva e la sublimazione, che cadono, ancora, quando la figura idealizzata dello starec inizia a puzzare; in Smerdijakov, per i motivi visti.

Chè se ciò non si verifica, e la sola idealizzazione cade, si può produrre un conflitto intrapsichico autoplastico che può condurre alla malinconia, come nel caso dello sventurato bambino Il’juscia, figlio del capitano Sceledrin. Questa caduta, che replica la caduta dell’oggetto sé narcisistico originario (il bambino che ammala e muore dopo avere assistito alla umiliazione paterna da parte di D’mitrij), è a ben pensare catastrofica. Il bambino si identifica col padre ucciso e morto, e muore appassendo di malattia, dopo che ha riprodotto su di sé (via identificazione narcisistica) la sorte del genitore: veniamo così a sapere che Il’juscia si è ammalato perché si sente in colpa per aver torturato, su istigazione (ovvia) dell’infame Smerd’jakov, il cane Zucka, dandogli da mangiare un boccione di mollica di pane con uno spillo acuminato dentro: qui, ancora, il cane è al posto del padre in quanto rappresentante, come il padre degradato, dell’animalità pulsionale. Ma il cane, per la legge fondamentale della malinconia (identificazione con l’oggetto perduto, che in questo caso è il padre perduto in quanto esposto alla degradazione narcisistica, alla deidealizzazione: cfr. Freud, 1915), è anche il rappresentante dello stesso bambino.

Il solo soggetto, qui, che possa essere qualificato come "nevrotico" è il più antipatico, Ivàn: in lui infatti è viva la doppia identificazione, sia con il bambino ucciso (si vedano i monologhi in cui lamenta la sofferenza dei bambini e se la prende con Chi la permette), sia con l’aguzzino che lo tormenta (i soldati turchi, il diavolo). Ivàn, identificato sia con Cristo, sia col Grande Inquisitore, armerà quasi consciamente la mano invidiosa del servo e quasi demente Smerdijakov, a testimoniare che sono proprio i "migliori" cittadini a lanciare il sasso nascondendo la mano: non come il piccolo Il’juscia, che osa colpire lo stesso Alioscia, perché rappresenta un fratello rivale che tollera l’umiliazione del padre ad opera di Dmitrij. Ivan è ossessionato, quasi assediato, da fantasie di contenuto sadico e aggressivo; quando le fantasie si realizzano, e il progetto del Grande Inquisitore tramonta (ché, infatti, ancora una volta questi desiderava il rogo, e cioè la scomparsa, il sacrificio, di Cristo, del figlio, masochisticamente sottomesso al padre), allora sviluppa un delirio complesso, di qualità isteriforme, caratterizzato da allucinazioni visive (il diavolo), vestito come lui stesso, Ivan, inevitabilmente finirà, un manierato e sofistico cicisbeo che vive alla giornata come un parassita: e il diavolo gli rimprovera proprio di essere quello che è.

Il romanzo esprime quindi, in modo estremamente moderno, anzi si potrebbe dire contemporaneo, il problema del crollo della funzione paterna, necessaria e indispensabile per la triangolazione edipica e la bonifica degli aspetti intollerabili della relazione con la madre (e infatti il romanzo è costellato di madri "cattive", nel passato — una fugge e muore, l’altra ammattisce e muore, la terza è la matta e la pezzente del paese; nel presente — Gruscenka rappresenta il pericolo connesso alla sessualità evoluta della donna, Katerina Ivanovna quello derivante dall’orgoglio masochista della donna, e la piccola Lise, la fidanzata dello scisso Alioscia, quello che discende ancora una volta dal disturbo psichico, qui dall’isteria della donna), come se lo scrittore si fosse reso conto che la funzione paterna è legata, aprés coup, alla necessità di neutralizzare il sovrappiù libidico legato al rapporto con la madre, e di trasmettere al bambino la funzione simbolica. E infatti il romanzo, oltre a dipingere la presenza di un padre indubbiamente cattivo, insufficiente, predatore (somiglia al padre dell’orda primordiale di Totem e tabù, questo Fedor Karamazov), mostra anche come sia possibile uno spazio per padri buoni e comprensivi, come il dottor Herzenschtube, dotato, il suo stesso nome lo dice in tedesco, di uno spazio nel cuore in cui può accogliere il piccolo Dmitrij quando è bambino, e regalargli un sacchetto di nocciole di cui lui si ricorderà per tutta la vita. Ché Dmitrij è furioso con i padri e con chi fa con loro comunella, come col padre di Il’juscia: e sente il bisogno di pareggiare il conto per fare giustizia, per compiacere il padre idealizzato interno: "- Gloria all’Altissimo nell’universo… gloria all’Altissimo dentro di me! Son piccoli versi che mi sono sgorgati dall’anima un giorno, non versi, ma lacrime… li ho composti proprio io… non mica, però, quel giorno che trascinai per la barba il capitano… - Che c’entra che a un tratto tu parli di lui? — Che c’entra che parli di lui? Fisime, ancora una volta! Tutto finisce, tutto si pareggia: una sbarretta, e la somma è fatta". D’mitrij, "cagnolino con la gamba rotta", si vendica di chi gli ha inferto la ferita narcisistica intollerabile, e confessa, poco prima di partire per Mokroe, dove la mamma-Gruscen’ka lo èandata a tradire col padre-ufficialetto polacco (da rilevarsi quanto questo soggetto sia dipinto con disprezzo, cosa che corriponde, appunto, alla caduta dell’idealizzazione) che alla mamma vera, quando aveva otto anni, aveva rubato una moneta da ottanta centesimi. Madre che sognerà ancora, dopo l’arresto, in un villaggio bruciato, con un bambinello che le piange al seno perché lei non ha più una goccia di latte; bambinello, della cui condizione lui stesso si considererà responsabile, in quanto attore dell’attacco al padre (Sceledrin) di Il’juscia. Doppia identificazione, col padre e col figlio, appunto. E non sarà casuale, che sia questo l’attacco di cui D’mitrij si sentirà responsabile, come riferisce Gruscen’ka: "Attacca a parlare, a parlare, e non riesco a capirci niente: penso, tante volte, che parlerà di cose elevate, io sono una stupida e non posso capirle, tante volte penso così; ma poi ecco che tutt’a un tratto mi si mette a parlare di un ‘marmocchio’, cioè d’un bambino, non so quale: ‘Perché’, mi fa, ‘è così povero, il marmocchio? Appunto per questo marmocchio io ora vado in Siberia: io non ho ucciso, ma bisogna che vada in Siberia!’"

4. Cristo alla rovescia

Il delinquente rappresenta quindi colui che "ha il coraggio" di violare il patto e viene inconsciamente invidiato e ammirato da tutti, come ha affermato Freud nello straordinario passo dedicato al gesto dello stareç Zosima in "Dostoevskij e il parricidio" (Freud, 1927): tutti noi, infatti, abbiamo desiderato essere rei, o ci siamo spinti melanconicamente al punto di credere di esserlo, proprio come Dmitrij Karamazov, che si presta magnificamente all’inchino dello stareç, perché è assassino in fantasia ma non lo sarà in realtà, come noi tutti: il vero assassino, Smerdiakov, non partecipa infatti all’incontro con lo stareç perché completamente e definitivamente escluso dalla famiglia, gettato fuori, nel reale, senza possibilità di simbolizzazione: e sarà per questo che tornerà, come vedremo, "dentro" la mente di un padre, che non lo vuole, che lo rifiuta, che lo ha concepito per scommessa e nel segno del massimo disprezzo per sua madre, l’orribile Smerdiask’aja, solo nel senso del concretismo reale, concreto e distruttivo del pestello che manda in frantumi la scatola cranica. In questa vera e propria "scissione" degli assassini in due, anzi in tre, anzi in quattro ci sprofonda la straordinaria opera dello scrittore russo, che mostra come tutti i fratelli desiderino la morte del padre, ma come in realtà proprio chi non viene considerato tale agisca per conto di tutti tale desiderio, esemplificando quindi come il delitto venga commesso dal reo, per motivi suoi, ma canalizzi ed esprima la rabbia di tutti coloro che lo vorrebbero commettere, ciascuno per motivi propri. Questo "essere colpevole senza esserlo in realtà" svolge, nella società moderna e tardomoderna (via processo, nel primo caso, e via anticipazione del processo tramite i media, nel secondo) una importante funzione simbolica.

La nostra ipotesi è quindi che il narrare nel e del sistema penale rappresenti uno dei modi per accogliere l’alterità all’interno del corpus della civitas, e di utilizzarla a livello delle simbolizzazioni individuali (mentre la guerra rappresenta un modo quasi totalmente espulsivo ed agito di distruggerla). La società, in altre parole, costruisce, sia attraverso i mass media, sia attraverso il sistema giudiziario, plots, copioni, canovacci relativi a storie di devianza e criminalità che vengono replicati ed utilizzati nella vita sociale di ogni giorno. E’ significativo rilevare, ad esempio, quanto, dal punto di vista stilistico, le sentenze penali relative a casi eclatanti siano simili agli articoli di giornale che si occupano della vicenda giudicata, e quanto addirittura sia talora possibile che anche il livello del dibattito "scientifico" sia da tale stile influenzato. Tali plots semplificano la vita sociale, resa incerta dalla devianza, messa a rischio dalla possibilità di realizzare le pulsioni dell’Es, attraverso una spiegazione/razionalizzazione narrativa che colloca metaforicamente il male (e chi lo ha commesso) "fuori" dal patto, inimicus, straniero, delinquente. Dopo la metaforizzazione attraverso il racconto collettivo, infatti, ci si tende a dimenticare dell’autore, che viene visto come soggetto da condannare in base a una scienza data, o da freddamente amministrare per non esserne toccati, lasciandolo quindi "fuori" dal confine di sé, e utilizzando pensieri precostituiti, quelli che W.R. Bion, appunto, chiama "" (Bion, 1963). Il penale, quindi, mette fuori da sé ciò che capisce, nella rassicurante alterità di un "oggetto" collocato attraverso una narrazione ufficiale "al di là" di un confine: rende straniero ciò di cui si occupa (Verde, 1991). Affettivamente, riflette sul "male", su ciò che non è, su quanto, con un movimento in fondo saturo di espulsività, butta fuori dal "corpo" sociale. La metaforizzazione immaginaria legata al "corpo" fa comprendere che ci troviamo in una visione "escrementizia": la "legge" è quella dell’espulsione, e la logica è quella dell’"uomo colpevole" e non quella dell’"uomo tragico" (Rossi, 1983). Un recente contributo che analizza con gli strumenti della narratologia nove perizie psichiatriche mostra, appunto, quanto anche il perito spesso non riesca a non fare riferimento al "meme" della colpa, nel senso di non elevarsi al di sopra della equiparazione fra "colpa" e "causa", senza cogliere il livello di tragicità pura delle vicende umane (Verde, Angelini, Boverini e Majorana, 2006).

Dopo aver delineato una proposta di lettura dell’attività giudiziaria con riferimento alla psicoanalisi, in particolare per quanto riguarda, lo si è visto, il penale, ci si può chiedere, anche se per sommi capi, come possano usufruire i singoli individui di questa attività istituzionale e sociale. L’ipotesi, per quanto semplicistica, è che le personalità più sviluppate e meno scisse, quelle che tendono a vivere in senso tragico il conflitto, tendano a recepire le narrative penali dal punto di vista della colpa depressiva e del dolore (cfr. Speziale-Bagliacca, 1997; 2004), nel senso, cioè, dell’"uomo tragico" (Rossi, 1983). Le personalità meno sviluppate, invece, tenderanno a mobilitare le angosce persecutorie, e vivranno l’altro rappresentato dal diverso e dal delinquente solo come nemico, straniero, invasore. E’ possibile, infine, che esista un certo numero di soggetti che siano talmente perseguitati dall’Altro da non riuscire neppure a simboleggiarlo come cattivo. Semplicemente l’altro non esisterà, e solo chi sarà "come noi" verrà rappresentato. L’altro non sarà concepito perché l’invidia occupa il campo, e fa sì che questo venga distrutto forse anche prima di essere consapevolmente percepito: ascoltiamo quanto afferma Britton, uno psicoanalista postkleiniano, a proposito dell’invidia stessa: "un elemento necessario alla sua composizione è la pulsione distruttiva, intesa come propensione innata libido-fobica, contrapposta alla relazione oggettuale, che si sforza di negare che ciò che penetra nel sé sia non-sé, compresa quindi la percezione dell’oggetto e le sensazioni che sorgono in risposta a esso. Ora lo concepisco come un impulso xenocida: nella sua forma estrema, come un atteggiamento distruttivo verso tutto ciò o chiunque venga sperimentato come altro; nella sua forma più lieve, come misantropia" (Britton, 2003).

In realtà, la stessa natura umana si basa sulla necessità del riconoscimento dell’altro, che sorge necessariamente "da dentro" come correlato all’attività pulsionale: il desiderio è il desiderio di qualcuno, il neonato nasce inerme e incompiuto. Chi butta del tutto fuori di sé l’alterità cade vittima dei propri contenuti che lo assalgono dall’esterno, dal di fuori del confine, e non può tollerare che qualcosa nasca nell’oscurità interiore dentro di lui. "Io non ho inconscio, il mio inconscio è un microchip", dice un paziente ingegnere che presto abbandonerà la terapia, convinto di essere il migliore, di capire tutto, di avere soluzioni per tutto, e che gli altri siano solo nel caso migliore degli idioti, nel caso peggiore dei delinquenti. Proprio questo paziente, moralista e noioso nell’eloquio, non tollera nella vita sociale che si parli dei fatti degli altri, non permette alcun pettegolezzo, che giudica in modo sprezzante. Come abbiamo visto, la ricostruzione narrativo-giudiziaria del delitto, innalzando il pettegolezzo a testimonianza, permette di raccontare il male, di prendere le distanze, di inventare a livello sociale l’alterità.

Possiamo, quindi, affermare che le narrative, giudiziarie e non, sul delitto costituiscono il modo storicamente e socialmente costruito di rappresentare l’alterità a livello collettivo, e forniscono un potente supporto al Super-io individuale. Raccontare delitti, infatti, serve anche a identificarsi con chi il male commette, e punendolo/riabilitandolo punire/riabilitare se stessi: è il "bisogno di espiazione" di cui parlavano Alexander e Staub. Se la sentenza penale, nel senso di Girard (1982), scrive un "testo di persecuzione" sulla base del quale identificare ed espellere il reo, gettarlo "fuori" dall’abbraccio sociale, il momento disciplinare dell’esecuzione penale serve invece a riprenderlo "dentro", in un processo questa volta non più disidentificatorio, ma identificatorio: ci identifichiamo col reo perché lui si è preso, via identificazione proiettiva collettiva, un aspetto di noi, una parte di noi, è stato punito per noi. Le parole di Freud, riferite allo starec Zosima, che si prostra davanti a Dmitrij Karamazov perché ne ha compreso la voglia parricida, risuonano in noi. L’omicida potenziale che potremmo essere va venerato, va rispettato, perché forse avrà il coraggio di fare quello che tutti vorremmo, e che non ci permettiamo, e se lui lo farà, lo farà anche per noi, perché non lo facciamo noi, afferma Freud (Freud, 1927). Quindi la parte del sé omicida e parricida, proiettata sul reo, viene recuperata e reintegrata, trattata e guarita, reinsediata nel sociale.

 

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