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Eterotopie
di Valeria Medda

La sua massima aspirazione era di produrre un'opera costituita interamente da citazioni. Il nucleo di ciò che faceva consisteva nello strappare al loro contesto una serie di frammenti e nel ridisporli nuovamente in modo tale che facessero luce l'uno sull'altro.
  Era quel suo metodo di trivellare per ottenere l'essenziale sotto forma di citazioni, essenze
  spirituali provenienti dal passato, che hanno subito “il sortilegio del mare shakespeariano”, trasformandosi da occhi viventi in perle, da ossa viventi in luce.
Hannah Arendt su Walter Benjamin, da lei
soprannominato “il Pescatore di perle”

Raymond Roussel Erano appena suonate le tre. Era bel tempo, e il sole scintillava in un cielo quasi uniformemente puro. Canterel ci aveva accolti non lungi dalla villa, all'aperto, sotto vecchi alberi che con la loro ombra avvolgevano uno spazio confortevole fornito di varie sedie di vimini.
 Ci eravamo incamminati per un viale in ripida ascesa. A mezza costa vedemmo sul bordo della strada, ritta in una nicchia di pietra assai profonda, una statua stranamente vecchia, come di terra nerastra, secca e solidificata, che rappresentava, con una certa grazia, un fanciullo nudo sorridente. Le braccia erano tese in avanti in un gesto di offerta con le mani aperte e tese verso il soffitto della nicchia. Una piccola pianta morta, d'una estrema vetustà, si innalzava dal palmo della destra, dove un tempo aveva messo radici.
 I nostri sguardi, fissi sul simbolico fanciullo, che ci appariva carico, come la vecchia pianta, del più seducente prestigio, furono attratti subito dopo da tre altorilievi rettangolari incisi direttamente nella pietra, nella parte inferiore dell'elevato blocco in cui era scavata la nicchia.
 Davanti a noi, tra il suolo e il livello della piattaforma su cui poggiava il Federale, le tre opere, elegantemente colorate, si stendevano orizzontalmente l'una sotto l'altra e, benché in più punti corrose e fruste, davano, come del resto l'intero blocco pietroso, il senso di una favolosa antichità.
 Il primo degli altorilievi rappresentava, in piedi su una pianeggiante distesa erbosa, una giovane donna dall'espressione estatica, con le braccia colme d'una messe di fiori, che contemplava all'orizzonte la scritta: ADESSO, tracciata nel cielo da esigui cirri che il vento incurvava mollemente. Le tinte, benché un po' sbiadite, resistevano dappertutto, delicate e varie, più nette però sulle nubi, pervase di rossi riflessi crepuscolari.
 Più in basso, il secondo riquadro scultoreo mostrava la stessa sconosciuta che, seduta in una sala sontuosa, approfittava di una scucitura per tirar fuori da un cuscino azzurro preziosamente ricamato un fantoccio vestito di un costumino rosa e privo di un occhio.
 Raso terra, il terzo pezzo metteva in scena un guercio in vesti rosa che, replica vivente del fantoccio, indicava a un gruppetto di curiosi un blocco di marmo verde venato, di medie dimensioni, la cui faccia superiore, nella quale si incassava a metà un lingotto d'oro, portava delicatamente incisa la parola EGO con tanto di sigla e di data. In secondo piano una breve galleria, chiusa nella parte interna da una cancellata, pareva condurre a un'immensa caverna, scavata nei fianchi di una marmorea montagna verde.
 Nei due ultimi soggetti, solo alcuni colori conservavano una certa forza, in particolare l'azzurro, il rosa, il verde e l'oro.

Michel Foucault Niente di tutto quello che qui vediamo è concesso, né può essere concesso, allo sguardo; si tratta di una visibilità che si consuma per se stessa, non si offre a nessuno e disegna una festa interna all'essere, che lo illumina da cima a fondo, per uno spettacolo senza possibili spettatori. Visibilità fuori vista. E se vi si accede attraverso una lente o una vignetta, non è per segnalare la presenza d'uno strumento fra l'occhio e l'oggetto, né per insistere sull'irrealtà dello spettacolo, ma, attraverso un effetto retroattivo, per mettere lo sguardo fra parentesi e in un'altra scala di rapporti. Grazie a questo spostamento, l'occhio e le cose che esso vede non sono situati nello stesso spazio; esso non può imporre il suo punto di vista, né le sue abitudini, né i suoi limiti. Deve, senza intervenire, lasciarle “essere viste” in virtù del loro essere; non vi è invisibilità che nel suo proprio spazio.
 Lo spazio dello sguardo “vero” è brumoso, offuscato, stratificato, profondo, e in lontananza cerchiato di nero. All'interno del cerchio magico al contrario, le cose si presentano nella loro esistenza ostinata, autonoma, come se fossero dotate di un'ostinazione ontologica che fa saltare le regole più elementari della distribuzione spaziale. La loro presenza è rocciosa, totale, libera da ogni relazione.

Roussel A mano a mano che si saliva, la vegetazione diventava più rada. Presto il terreno fu spoglio da ogni parte, e, al termine del percorso, ci trovammo di fronte a un'ampia spianata ininterrotta e totalmente scoperta.
 Facemmo qualche passo verso un punto ove s'ergeva una sorta di apparecchio per pavimentazione, che ricordava nella struttura le ballerine, o mazzeranghe, che si impiegano per livellare le strade. Leggera d'aspetto,benché interamente metallica, la ballerina stava appesa a un piccolo aerostato giallo chiaro, che, nella parte inferiore, svasata circolarmente, faceva pensare alla sagoma di una mongolfiera.
 Sotto, il suolo era decorato in modo stranissimo. Su una vasta estensione erano sparsi da ogni lato denti umani, offrendo una grande varietà di forme e di colori. Alcuni di un biancore smagliante contrastavano con gli incisivi di fumatori che fornivano la gamma completa dei bruni e degli avana. In quel bizzarro stock, figuravano tutte le gradazioni di giallo, dai più vaporosi toni paglierino fino alle più atroci sfumature rossicce. Denti blu, ora tenui, ora carichi, davano il loro contributo a quella ricca policromia, completata da una quantità di denti neri e dai rossi pallidi o squillanti di numerose radici sanguinolente.
 Sagome e proporzioni differivano all'infinito: molari immensi e canini mostruosi s'affiancavano a denti di latte quasi impercettibili. Qui e là spuntavano frequenti riflessi metallici, provenienti da piombature o da capsule dorate.

Foucault L'esperienza di Roussel si situa in quello che potremmo chiamare “spazio tropologico“ del vocabolario. Spazio che non è del tutto quello dei grammatici, o piuttosto che è questo stesso spazio, ma trattato altrimenti; non è considerato come luogo di nascita delle figure canoniche della parola, ma come uno spazio bianco sistemato nel linguaggio, e che apre all'interno stesso della parola il suo vuoto insidioso, desertico e pieno di trappole. Questo gioco di cui la retorica approfittava per far valere quel che aveva da dire, Roussel lo considera per se stesso, come una lacuna da estendere il più largamente possibile e da misurare meticolosamente. Egli vi sente, più che le semi-libertà dell'espressione, una vacanza assoluta dell'essere, che bisogna investire, padroneggiare e colmare con l'invenzione pura: è ciò che egli chiama, in opposizione alla realtà, la “concezione” (“chez moi l'imagination est tout”); egli non vuole doppiare il reale con un altro mondo, ma, negli sdoppiamenti spontanei del linguaggio, scoprire uno spazio insospettato e ricoprirlo di cose ancora mai dette.
 Le figure che costruisce al di sopra di questo vuoto sono l'inverso metodico delle “figures de style”: lo stile, è, sotto la necessità sovrana delle parole impiegate, la possibilità, mascherata e designata allo stesso momento, di dire la stessa cosa ma altrimenti. Tutto il linguaggio di Roussel, stile rovesciato, cerca di dire surrettiziamente due cose con le stesse parole. La torsione, la leggera deviazione delle parole che ordinariamente permette loro di “muoversi” secondo un movimento tropologico e di far giocare la loro profonda libertà: Roussel ne fa un cerchio impietoso che riconduce le parole al loro punto di partenza per forza di una legge costringente. La flessione dello stile diventa la sua negazione circolare.

Roussel D'improvviso, la mazzeranga si levò in aria da sè e, sospinta da un tenue soffio, si andò a posare, dopo una diretta e lenta escursione di cinque o sei metri, su un dente di fumatore brunito dal tabacco.
 ... In cima all'aerostato, lasciato a nudo dalla rete che in quel punto formava una sorta di colletto piatto, c'era una valvola metallica di alluminio costituita da un'apertura circolare munita di otturatore contigua a un piccolo cronometro a quadrante visibile. Sotto il pallone, le corde verticali e sottili che componevano la parte inferiore della rete, tessuta interamente di fine e leggera seta rossa, trattenevano, a guisa di navicella, mediante fori praticati sul bordo dritto e molto basso, un vassoio rotondo di alluminio, che, simile a un coperchio capovolto, conteneva una sostanza giallo-ocra esposta in sottile strato sul fondo orizzontale.
 Il di sotto del vassoio era centralmente imbullonato alla sommità di un albero d'alluminio cilindrico e verticale, che costituiva in sostanza il corpo dell'oggetto.
 Una lunga sbarra, parimenti in alluminio, piantata lateralmente nella regione superiore dell'albero, si drizzava obliqua verso il cielo, più in alto del vassoio circolare, e terminava in una triplice ramificazione. Ciascuno dei tre bracci reggeva alla sua estremità un cronometro abbastanza grande, in posizione verticale, e sul retro di ciascun cronometro era fissato uno specchio rotondo di uguale circonferenza; i tre quadranti, che vicendevolmente si ignoravano, si trovavano orientati all'esterno in tre direzioni divergenti, mentre i tre dischi di vetro stagnato fronteggiavano uno spazio mediano comune, e, rispettivamente, guardavano press'a poco a ovest, sud ed est. In quel momento, il primo specchio riceveva direttamente l'immagine del sole e la dardeggiava in pieno sul secondo che la rinviava a sua volta verso il vassoio-navicella: il terzo invece non pareva svolgere alcun ruolo. Ogni specchio era fissato al cronometro da quattro asticciole orizzontali leggermente dentellate, attaccate singolarmente in alto, in basso, a destra e a sinistra sul rovescio dell'orlo circolare; tali asticciole, in tutti e tre i casi, attraversavano da parte a parte il cronometro e spuntavano, dall'altra parte, lungo il margine esterno del quadrante, lievemente inferiore come diametro all'insieme del meccanismo di orologeria.
 Azionate da invisibili ruote dentate collegate col meccanismo dei cronometri, tali asticciole, usufruendo di una ampia varietà di progressioni e regressioni, erano in grado di conferire agli specchi ogni sorta di inclinazione; l'estremità anteriore di ciascuna asticciola era costituita infatti da una pallina metallica imprigionata per due terzi in una sfera cava non intera applicata al dorso dello specchio in questione; tale sistema di attacco si prestava facilmente agli spostamenti del disco riflettente nei sensi più diversi.
 Giorno per giorno, questo triplice sistema seguiva il sole nel suo giro, dall'alba al tramonto. Nella mattinata, lo specchio rivolto ad est era il primo a ricevere l'insieme dei raggi infuocati; dopo il passaggio dell'astro sopra il meridiano, il primo disco diventava inattivo e il suo ruolo era assunto dal dirimpettaio. Lo specchio rivolto a sud, in funzione da mane a sera, rifletteva sempre, in seconda, per convogliarli in  una direzione  invariabile, gli effluvi raggianti scoccati su di lui ininterrottamente dall'uno o dall'altro degli scintillanti dischi vicini.
 A metà della sbarra obliqua triplamente ramificata s'elevava un breve supporto ortogonale, quasi subito diviso in due braccia curvilinee formanti una semicirconferenza con i corni rivolti allo zenith. Questo semicerchio, perpendicolare all'ideale piano verticale sul quale si trovava la sbarra obliqua, serviva da cornice parziale a una potente lente rotonda che, assimilando il diametro orizzontale del semicerchio al proprio, era fissata internamente da due perni alla porzione culminante delle braccia ricurve.
 Esattamente situata sul percorso del fascio luminoso riflesso in seconda dallo specchio più lontano, la lente era disposta parallelamente ai raggi che la inondavano.
 Un cronometro di ridottissime dimensioni, il cui quadrante ornava all'esterno la parte superiore d'una delle braccia curve, aveva il compito di far ruotare la lente in certi momenti rigorosamente predeterminati, grazie alla squisita rispondenza esistente tra il proprio movimento e il perno contiguo.
 Per assicurare stabilità all'insieme, sull'albero di alluminio era avvitata, dalla parte esattamente opposta a quella della lente e degli specchi, un'asta metallica orizzontale, a forma di mezzo manubrio e terminante in un contrappeso a sfera.
 Un immenso ago calamitato, che pareva quello di una bussola gigantesca, attraversava perpendicolarmente l'albero a metà, e, sporgendo dall'una parte e dall'altra per eguale lunghezza, serviva, in virtù del suo magnetismo, a conservare sempre immutato, durante i voli, l'orientamento dell'utensile aereo. La sua punta nord era situata esattamente al di sotto dello specchio che teneva in osservazione il sud, mentre l'estremità opposta coincideva, in modo analogo ma a una distanza minore, con il contrappeso sferico.
 Alla base dell'apparecchio si trovavano tre piccoli artigli d'alluminio, ricurvi e massicci, che ricordavano in miniatura i piedi di un mobile e fungevano da supporto al bordo inferiore dell'albero; ognuno di essi appoggiava l'estremità sul suolo, conferendo alla ballerina una sufficiente stabilità, e mostrava esteriormente, al termine della curvatura regolare, il quadrante di un piccolissimo cronometro appena un po' più largo.
 A metà degli artigli erano rispettivamente assicurati, rivolti all'interno e convergenti, tre sottili chiodi orizzontali, le cui punte affondavano lievemente nel bordo d'una minuscola rotella di metallo azzurro, che in questo modo stava sospesa e isolata, nello spazio, perpendicolarmente all'asse dell'albero. Una seconda rotella, di uguali dimensioni, ma d'un metallo di colore grigio chiaro, stazionava esattamente al di sopra dell'altra, a un millimetro d'intervallo, sospesa ad un'asticciola verticale che, da un capo, si saldava al centro della sua superficie superiore, e, dall'altro, scompariva  nell'interno dell'albero.
 Un po' più in alto del punto di innesto degli artigli, nell'estrema porzione inferiore dell'albero,  era incastonato, in un punto della superficie esterna, il quadrante di un ultimo cronometro.

Foucault Fabbricate a partire dal linguaggio, le macchine sono meccanismo in atto; esse sono la loro propria nascita ripetuta in se stessa; fra i loro tubi, le loro braccia, le loro ruote dentate, i loro sistemi di metallo, la matassa dei loro fili, esse inscatolano il procedimento nel quale a loro volta sono inscatolate. E in tal modo lo rendono presente senza indietreggiamento. È dato fuori da ogni spazio, poichè esso è il luogo di se stesso, la sua dimora è il suo involucro; la sua visibilità lo nasconde. Che davanti a queste forme contorte, a tanti meccanismi inutili si sia pensato a un enigma, a una cifra, a un segreto, è naturale.
 Avvertiamo che intorno a queste macchine e in esse, c'è una notte testarda che le deruba. Ma questa notte è una sorta di sole senza irradiamento nè spazio; la sua luce è tagliata esattamente a filo di queste forme, costituendo il loro essere stesso, e non la loro apertura verso uno sguardo. Sole rinchiuso e sufficiente.
 Perché tutto questo macchinario divenisse leggibile non c'era bisogno di cifra, ma di una specie di apertura all'indietro, che ampliasse la prospettiva per lo sguardo, arretrasse le sue figure mute su di un orizzonte e le offrisse in uno spazio. Non occorreva qualcosa  di più per capire, ma qualcosa di meno, un'apertura attraverso la quale la loro presenza oscilla e riappare dall'altra parte. Occorreva che esse fossero date in un doppio identico a se stesse, e da cui tuttavia esse sono separate. Occorreva la rottura della morte. L'unica chiave è questa soglia.
 In effetti queste macchine, simili e sdoppiate, le vediamo apparire nel testo postumo. Per una strana reversibilità, l'analisi del procedimento ha la stessa configurazione delle macchine. Comment j'ai écrit certains de mes livres è costruito come l'esposizione delle figure nelle Impressions d'Afrique o in Locus Solus: prima, il meccanismo, i cui principi ed evoluzioni sono presentati come fra cielo e terra - serie di movimenti che funzionano da soli, trascinando l'autore in una logica di cui egli è piuttosto il momento che il soggetto... Poi, in una seconda navigazione, il procedimento è ripreso all'interno di un tempo aneddotico e successivo, che inizia con la nascita di Roussel... infine, ad esso Roussel affida la ripetizione della sua stessa esistenza in una gloria postuma - così come spetta alle macchine sdoppiare indefinitamente il passato in una riproduzione esatta, al di là del tempo. “En terminant cet ouvrage, je reviens sur le sentiment douloureux que j'éprouvais toujours en voyant mes oeuvres s'heurter à une incompréhension hostile presque générale... Et je me réfugie faute de mieux dans l'espoir que j'aurai peut-être un peu d'épanouissement posthume à l'endroit de mes livres”.
 L'ultimo libro di Roussel sarebbe dunque l'ultima delle sue macchine - la macchina che, comprendendo e ripetendo nel suo meccanismo tutte quelle che lui un tempo aveva descritto e fatto muovere, rende visibile il meccanismo che le aveva fatte nascere.

Roussel Il maestro aveva scelto come meta una specie di gigantesco diamante che si ergeva all'estremità della spianata e aveva già molte volte attirato i nostri sguardi con la sua prodigiosa lucentezza.
 Alto due metri e largo tre, il mostruoso gioiello, arrotondato a forma di ellisse, essendo colpito dai raggi del sole, gettava riverberi quasi insopportabili... saldamente piantato su una roccia artificiale di scarsa elevazione nella quale s'incastrava la base relativamente esigua, era tutto sfaccettato proprio come una vera pietra preziosa e pareva racchiudere diversi oggetti in movimento. Gradualmente, avvicinandosi, si percepiva una vaga musica, dall'effetto meraviglioso, composta da una strana serie di trilli, di arpeggi e di scale ascendenti e discendenti.
 In realtà, ma lo si vedeva solo da vicino, il diamante non era altro che un immenso recipiente riempito d'acqua. Qualche elemento eccezionale doveva  entrare nella composizione del flutto prigioniero, perché da esso e non dalle pareti di vetro proveniva tutta l'irradiazione...
 Al centro, una giovane esile e aggraziata, rivestita d'una calzamaglia color carne, stava in piedi sul fondo e, completamente immersa, assumeva una serie di pose piene di estetico fascino dondolando dolcemente la testa. Con un gaio sorriso sulle labbra, essa pareva respirare liberamente nell'elemento liquido che l'avvolgeva.
 La sua capigliatura bionda e superba, interamente sciolta, tendeva a innalzarsi sopra di lei, senza tuttavia raggiungere mai la superficie. Al minimo movimento, ogni capello, circondato da una specie di sottile fodero acquoso, vibrava sotto l'attrito delle fluide falde, e comportandosi come una corda musicale emanava, a seconda della lunghezza, suoni più o meno alti... Spesso l'esecutrice, limitandosi a imprimere mollemente al cranio una serie di lievi oscillazioni, manteneva un registro assai ristretto. Poi, ancheggiando per trasmettere al busto un largo e continuo movimento di rullio, impiegava tutte le risorse del curioso strumento, che dava allora il massimo  in estensione e sonorità...
 Passando talvolta davanti a lei, un sorprendente animale esplorava l'enorme tino nuotando allegramente - creatura terrestre, sicuramente, come dimostrava la sua struttura di quadrupede ungulato. Rosea e priva del tutto di pelo, la sua pelle impressionante sconcertava l'osservatore; ma una precisa informazione specifica era fornita dagli occhi dell'animale, che non potevano che appartenere a un gatto.
 A destra, un oggetto poco consistente, immerso a una profondità di cinque centimetri, pendeva da un filo. Non poteva essere altro che il residuo interno di una faccia umana, senza più nessun vestigio di elementi ossei, carnosi o cutanei. Sotto il cervello, rimasto intatto, i muscoli e i nervi sviluppavano da ogni lato i loro complessi tessuti.
 Grazie a una sottile carcassa quasi invisibile che sosteneva delicatamente anche i minimi angoli, l'insieme conservava la sua forma originale e dalla semplice configurazione di quel plesso si potevano riconoscere chiaramente il posto delle guance, della bocca o degli occhi. Ogni fibra era circondata da un involucro acquoso che ricordava, benchè lo spessore fosse maggiore, i tenui foderi imposti ai capelli dell'ondina. Mediante tre punti periferici della carcassa, situati subito sotto il cervello, il filo, triplicandosi nella sua estrema porzione inferiore, reggeva il tutto.
 Proseguendo l'esame verso destra, si scorgeva un minuscolo fusto di colonna, che, perfettamente verticale, si manteneva immobile a mezz'acqua.
 Sul fondo del vasto serbatoio giaceva un lungo cornetto metallico a punta, tutto trafitto da numerosi buchi.

Foucault L'opera sarebbe allora costruita su tutta una disposizione a piani di segreti che si comandano, senza che nessuno di loro abbia valore universale o assolutamente liberatorio. Fornendo una chiave all'ultimo momento, l'ultimo testo (Comment j'ai écrit...) sarebbe come un primo ritorno verso l'opera con una doppia funzione: aprire, nella loro architettura più esterna, certi testi, ma indicare che per questi e per gli altri è necessaria una serie di chiavi delle quali ciascuna apre la propria scatola, e non quella più piccola, più preziosa, meglio protetta, che vi si trova contenuta. Questa figura di involucro è familiare a Roussel: la troviamo impiegata, con cura, nei Six documents pour servir de canevas; Poussière de soleil la utilizza come metodo di scoperta di un segreto, nelle Nouvelles impressions prende invece la forma strana di un'elucidazione proliferante, sempre interrotta da una nuova luce, la quale è spezzata a sua volta da una parentesi di chiarezza diversa, che, nata all'interno della precedente, la tiene sospesa e a lungo frammentaria, finché tutti quei giorni successivi, interferenti e splendidi, formano, sotto lo sguardo, l'enigma di un testo luminoso e oscuro che tante aperture ben sistemate ereggono a fortezza impenetrabile.

Roussel Costeggiando la gabbia gigantesca, Canterel ci condusse allora un po' verso destra e ci fece fermare davanti a un sontuoso locale... a brevissima distanza dal muro divisorio di vetro, si presentava un palcoscenico non sopraelevato che doveva servire a evocare nella scenografia una lussuosa sala di un castello medioevale.
 ... Sul fondo, un po' a sinistra, seduto a un tavolo messo di sbieco, un signore a collo nudo, visto di scorcio, annotava un volume, di fronte a una parete obliqua nella quale s'apriva una grande finestra.
 Sulla sua nuca appariva in grigio scuro, un monogramma gotico formato da queste tre lettere: B,T,G.

Foucault ... assimilazione delle cose e degli uomini, del minuscolo e dell'immenso, del vivo e dell'inerte, in un essere neutro, allo stesso tempo smisurato e omogeneo.
 ... Roussel apre un universo senza prospettiva. O meglio, unisce il punto di vista verticale (che permette di abbracciare tutto come  in un cerchio) e il punto di vista orizzontale (che pone l'occhio raso terra e non gli lascia vedere che dal primo piano) in modo che tutto è visto in prospettiva e tuttavia ogni cosa è considerata in pieno centro. Prospettiva frontale e dall'alto nello spesso tempo, che permette, come certe pitture primitive, una presentazione ortogonale delle cose. Non vi è un punto privilegiato intorno al quale il paesaggio si organizzerebbe e poi, allontanandosi poco a poco, sparirebbe; ma tutta una serie di piccole cellule spaziali di dimensioni simili, poste le une accanto alle altre, senza proporzioni reciproche (come le logge a resurrezione di Locus Solus). La loro posizione non è mai definita in base all'insieme, ma secondo un riferimento di vicinanza, che permette di passare dall'una all'altra come fossero gli anelli di una catena: “a sinistra”, “davanti ad essi, più a destra” ,”in aria, più in alto”, “più lontano, sempre verso sinistra”... vicine o lontane, le scene hanno la stessa misura, come se ciascuna avesse un uguale e imperscrittibile diritto ad essere vista.

Roussel ... il nostro gruppo si fermò davanti a un'inferriata circolare alta quasi due metri, che formava, a poca distanza dal muro trasparente che ci separava da essa, una stretta gabbia immersa in una luce azzurra, di diametro non superiore ad un passo.
 Due cerchi di ferro orizzontali, uno in alto e l'altro in basso, fungevano da legamenti all'insieme e apparivano completamente attraversati da tutte le sbarre, quattro delle quali, di particolare grossezza, sistemate ai quattro angoli di un immaginario quadrato con due lati paralleli alla parete di vetro, penetravano in un'ampia pavimentazione che le altre non raggiungevano.
 Allontanandosi da un tisico, sdraiato in vestaglia e sandali su una barella, con una specie di bizzarro casco al posto dei capelli, l'aiutante tirò fuoi dalla tasca una robusta chiave che infilò in una serratura posta a mezza altezza di una delle quattro grosse sbarre, quella di sinistra, la più distante da noi.
 Dopo aver fatto funzionare la chiave, spalancò, tirandola verso destra, una porta ricurva, che, costituita semplicemente da una quarta parte della cancellata circolare e muovendosi su due cerniere applicate ciascuna ad uno dei due cerchi orizzontali, presentò ai nostri occhi queste parole indicative: Cella focale, incise, perché si potessero leggere dall'esterno, su una targa di ferro ricurva applicata sul retro a tre sbarre contigue, molto in alto.
 Il malato, a sinistra, s'era alzato e posto davanti alla barella, s'era tolto la vestaglia e appariva ora in costume da bagno. Il casco richiamava l'attenzione. Una calottina metallica, posata sulla sommità del capo e solidamente fissata da un sottogola di cuoio che gli passava sotto la mascella inferiore, era sormontata da un corto perno, sul quale s'incastrava, a metà, un ago orizzontale, che, potentemente magnetizzato, come ci informò Canterel, misurava all'incirca cinque decimetri. Sopra la spalla destra del malato, una vecchia cornice quadrata era appesa con due gancetti distanti, avvitati verticalmente nella porzione estrema del suo bordo superiore e passati dentro due buchi orizzontali che l'ago presentava perpendicolarmente a se stesso. Dentro la cornice si vedeva, sprovvista di vetro protettore, una stampa su seta, evidentemente molto antica, che riproduceva, come indicavano le tre parole: Pianta di Lutezia, disposte su tre righe nell'angolo sinistro in alto, un tracciato particolareggiato dell'antica Parigi; una larga linea nera, drittissima, attraversava il quartiere più a nord-ovest e, come vera e propria secante, superava sia da una parte che dall'altra la curva regolare formata in quel punto dalle mura. Ugualmente sprovvista di vetro, una cornice nuova di forma quadrata stava sospesa, come quella vecchia, dall'altra parte dell'ago, al di sopra della spalla sinistra del soggetto, e presentava una stampa caricaturale su carta, che, sottolineata da questa iscrizione: Nourrit nella parte di Enea, raffigurava di profilo, in uno spazio indefinito, un cantante in costume di principe troiano, ritto sul globo terrestre isolato, con il viso rivolto verso il centro e il collo congestionato da un violento sforzo vocale; sotto i piedi aveva l'Italia, posta al sommo della sfera, inclinatissima sul suo asse; dalla bocca, colossalmente aperta, partiva una verticale di punti che, dopo aver attraversato diametralmente la terra, pur rimanendo sempre ben visibile anche in mezzo a confuse indicazioni geografiche, discendeva per un buon tratto senza deviare e terminava in mezzo a un gruppo di astri tra i quali si poteva leggere la parola Nadir su pentagramma a chiave di sol che raffigurava un do acuto accompagnato da tre f.

Foucault “È un povero malatino” diceva Janet.
 - Frase di nessuna portata venendo da uno psicologo.
 - A dire il vero, non avrebbe nessuna conseguenza se Roussel stesso non l'avesse condivisa.
 - Ma l'ha condivisa ricordando la sua malattia e le cure di Janet con una indifferenza attenta soltanto alla storia; egli cita De l'angoisse à l'extase come un documento lontano e aneddotico. Il racconto in prima persona  della rivelazione postuma è già così freddo come in questa terza persona, che si intravvede nel progetto del libro e forse nella rigidità del linguaggio...
 È che già opera la sovranità della morte. Deciso a scomparire, Roussel fissa la conchiglia vuota dove la sua esistenza apparirà agli altri. Janet, le crisi, la malattia non hanno più importanza di quanta ne abbiano il successo, l'insuccesso, le rappresentazioni rumorose, la stima dei giocatori di scacchi, il disfacimento della famiglia. Ma sono aggiustamenti di superficie, l'esterno della macchina, e non il preciso meccanismo d'orologio che segretamente la fa battere.

Roussel “L'atleta Vyrlas ostacola lo slancio di un uccello robusto che, per effetto di un ammaestramento criminale, tenta di strangolare Alessandro il Grande”.
 L'oggetto in questione evocava tutto un dramma. Protagonista inconscio di una scena tragica, un uomo stava mollemente addormentato sopra una sontuosa ottomana. Fissato al muro vicino al capezzale, un filo d'oro gli circondava il collo come un nodo scorsoio e, dall'estremità libera, si attorcigliava intorno alla zampa di un gigantesco uccello verde, che, spiegando le ali, pareva sul punto di tirare la mortale stretta con una forte trazione predisposta nel senso voluto. In piedi e immobile, un salvatore dalla muscolatura atletica tendeva le due mani come per afferrare il volatile assassino, sostenuto per aria dal filo, per un'evidente inversione di ruoli, grazie a una segreta rigidità.
 L'insieme saliva rapidamente. A breve distanza dalla superficie, una grossa bolla d'aria si sprigionò di colpo da un'apertura praticata nella parte superiore del muro a cui s'attaccava il filo d'oro; il suo passaggio aveva dovuto provocare in un meccanismo interno qualche impercettibile scatto, da cui ebbe origine tutta una serie di movimenti; portato in avanti da un battito d'ali mentre il nodo comprimeva bruscamente il collo del dormiente, l'uccello cadde in potere dell'atleta, che unì le mani per afferrarlo. Effetto e non causa, lo slancio del volatile derivava da una spinta del filo che, nel restringersi, aveva leggermente allungato la parte che fungeva da sostegno.
 Staccatasi la bolla aerea, cominciò la discesa, mentre le mani dell'atleta si disgiungevano e il nodo, allentandosi, riportava l'uccello al posto primitivo. Una volta posatosi sul fondo del recipiente, l'oggetto restò per un poco stazionario - poi si effettuò una nuova ascensione che, all'altezza di prima, si concluse con la ripetizione dei movimenti già osservati, coincidenti con una forte espulsione d'aria.

Foucault Queste prigioni, queste macchine umane, queste torture cifrate, tutti questi grovigli di parole, di segreti e di segni, sono meravigliosamente usciti da un fatto di linguaggio: una serie di parole identiche che dicono cose diverse. Esiguità della lingua che, lanciata in direzioni diverse, a un tratto è ricondotta di fronte a se stessa e costretta a incrociarsi...
 ... questa esperienza a doppio versante rivela nella parola il luogo di un incontro imprevisto fra le figure più lontane del mondo (è la distanza abolita, il punto di scontro degli esseri, la differenza raccolta su se stessa in forma unica, doppia, ambigua, minotaurina); mostra uno sdoppiamento del linguaggio che, a partire da un unico nucleo, si stacca da se stesso e fa nascere senza pause altre figure (proliferazione della distanza, vuoto che nasce sotto i passi del doppio, crescita labirintica di corridoi simili e differenti).
 Nella loro ricca povertà, le parole conducono più lontano e riportano a se stesse, si perdono e si ritrovano; filano all'orizzonte in sdoppiamenti reiterati, e tornano al punto di partenza in una curva perfetta.

Roussel Dieci minuti di salita ci portarono a una piccola costruzione di pietra, la cui facciata, che dominava dall'alto un'immensa distesa di boschi, consisteva soltanto nei due battenti richiusi di un'ampia e assai arrugginita cancellata, con i cardini d'oro massiccio. Tra i muri, privi di porte e di finestre, si stendeva un'unica stanza sommariamente mobiliata.
 Su un cavalletto, una tela incompiuta presentava - inequivocabile allegoria dell'aurora - una donna dalle sembianze luminose che, sullo sfondo di un pallido orizzonte, veniva trascinata da una gran quantità di lacci dall'estremità alata.
 Con brevi commenti, Canterel ci indicò, al centro della camera,  un certo Lucius Egroizard, impazzito improvvisamente per aver visto la figlioletta di un anno torturata con odio fino alla morte da una masnada di assassini che danzavano la giga; da parecchie settimane egli si trovava per cura a Locus solus .
 In fondo alla camera stava immobile un guardiano.
 Assai calvo, Lucius, che mostrava di sé solo il lato sinistro, sedeva di profilo all'estremità di un tavolo di marmo, sul quale era posato una specie di focolare, rivolto verso di noi, fornito di due alari lisci e avvitati paralleli, in modo che nessuno dei due sopravanzasse l'altro, sui lati di una lastra di lamiera quadrata, tutta coperta di carboni ardenti.
 Gettata a ponte sopra gli alari una pezza di reps grigio lunga un metro e larga la metà, il folle, evitando scrupolosamente ogni ardente contatto, ne fece scivolare le due estremità sotto la piastra, fino a ottenere una perfetta tensione della superficie sovrastante, bordata davanti e di dietro, rispetto a noi, d'uno stretto lembo che ne ricadeva mollemente.
 Dipinte e modellate in modo mirabile, dodici figurine di membrana animale sottile, alte appena qualche centimetro, ricordavano, in un angolo del tavolo, una banda di sinistri malfattori; Lucius le dispose sul reps, la cui quadrata piattaforma lasciava passare l'aria calda da un'infinità di piccoli fori molto fitti. Sollevatesi con facilità, le figurine si mantennero ritte nello spazio, grazie a un po' di zavorra messa nei loro piedi, poi, di colpo, cominciarono a girare, obbedendo ai capricci del folle, le cui dita erravano sul tessuto-setaccio. Qualche figurina, privata per un attimo di tutte le correnti ascendenti tranne quelle che, sfiorando la schiena o l'addome, la respingevano lontano dal proprio asse, avanzava o retrocedeva precipitando, poi, venuto meno ogni impedimento sotto di lei, rimbalzava fino al primitivo livello, imitando nella ripetizione di quel maneggio un vivace saltellìo di giga; qualche altra piroettava sotto l'azione di certe correnti che ne sfioravano di striscio, dopo la soppressione di ogni controspinta, qualche parte sporgente, mano o gomito.
 Infine, schierate frontalmente su due file parallele di sei, di cui la più vicina ci rivolgeva le spalle, le aeree bambolette danzarono in modo classico la trascinante giga che va sotto il nome di Sir Roger de Coverly.

Foucault ... l'inventario prosegue; il suo movimento, a dire il vero, è ambiguo. Non si sa bene se lo sguardo si sposta o se le cose si presentano da sole... Ne esce una strana figura, nello stesso tempo rettilinea e circolare. Circolare, perché tutto è offerto alla vista senza punto di fuga, senza nascondiglio possibile, senza uscita né a destra né a sinistra... ma quest'inesauribile ricchezza del visibile ha la proprietà (correlativa e contraria) d'affilarsi lungo una linea infinita: ciò che è interamente visibile non è mai visto interamente, offre sempre qualcos'altro che chiede d'essere ancora guardato; non giungiamo mai al termine, forse l'essenziale non è ancora stato visto o forse, piuttosto, non si sa se lo si è visto, se non sia ancora da venire in questa incessante proliferazione... Il fatto è che le cose si presentano come in una cavalcata, in unità che si spingono le une contro le altre, formado una retta virtualmente infinita, ma che si chiude infine nelle due estremità, in modo tale che non si sa mai, guardando queste figure, se sono altre o le stesse, se ce ne sono ancora o già ritornano quelle di prima, se cominciano o si ripetono.
 Il tempo è perduto nello spazio, o meglio si ritrova sempre in questa impossibile e profonda figura della retta che è un cerchio: là ciò che non ha fine si rivela identico a ciò che ricomincia.

Roussel Di colpo, le evoluzioni cessarono.Tolte le mani dalla stoffa al di sopra della quale i ballerini ondeggiavano senza fine, Lucius, torvo, con gli occhi pieni di paura, s'era voltato di faccia per vederci, in procinto - ci spiegò Canterel - di subire una strana crisi capillare di riflessi allucinatori, dovuti al terrificante spettacolo evocatore che aveva appena propinato a se stesso, obbedendo suo malgrado a una crudele ossessione.
 Per la potenza dello sgomento, sei capelli si drizzarono sul limite di ciascuna delle due zone folte che orlavano a destra e a sinistra la calvizie del folle - poi da soli si spostarono saltando da un poro all'altro. Sradicato per un interno rilassamento dei tessuti, ogni capello, che il poro espulsore pareva lanciare in aria per una compressione dei propri bordi superiori, descriveva una minuscola traiettoria, sempre restando in posizione verticale, e ricadeva dentro un poro vicino che si apriva per accoglierlo, ma lo ricacciava subito dopo verso un nuovo asilo, pronto a sua volta a rilanciarlo.
 In breve, schierati faccia a faccia in cima alla lucida sommità del cranio, a forza di salti successivi, su due file uguali e parallele all'asse di una riga immaginaria, i dodici capelli, sempre attenendosi a quel loro modo di locomozione, danzarono spontaneamente una giga identica a quella delle figurine di pergamena. Stessa alternanza osservata dai quattro occupanti dei posti estremi nelle molteplici semitraversate diagonali, prima semplici poi accompagnate da diverse giravolte al centro, stessa seconda figura d'insieme, durante la quale due figurine passavano faccia a faccia per ondeggianti tappe, da un capo all'altro della quadriglia.
 Contorto dalla sofferenza e simile a quei nevrotici esasperati da un tic irrefrenabile, Lucius, come se volesse arrestare l'odioso maneggio, si portava le mani al cranio, ma una sorta di terrore gli impediva di toccarselo. E, suo malgrado, la giga, nei suoi balzi incontrastati, continuava, ininterrotta, implacabile, e i dodici capelli si conquistavano di volta in volta i quattro posti importanti.
 Canterel ci segnalò a bassissima voce l'enorme interesse anatomico presentato da quel riflesso fisico di un'ossessione generata da uno choc mentale.
 Dolorosamente cosciente della danza maledetta, la quale, sempre così esatta e impeccabile, cresceva d'impeto al pari di quella delle leggere figurine, Lucius, preso da tremiti convulsi, emetteva gemiti d'angoscia.
 Dopo un attimo di parossismo acuto, la crisi parve finalmente decrescere e, mentre il folle si calmava, i capelli, tornati dall'una e dall'altra parte ai loro siti originari  sull'orlo delle zone folte, ricaddero in posizione normale. Allora Lucius scoppiò in lunghi singhiozzi, nascondendo la faccia tra le mani e versando un fiotto di lacrime suscitate dal rilassamento della tensione nervosa.

Foucault Quando, il 30 maggio 1933, Roussel precisa quella che deve essere la disposizione dell'opera (Comment j'ai écrit certains de mes livres) aveva da tempo preso la sua decisione di non ritornare più a Parigi. Nel mese di giugno si stabilisce a Palermo, quotidianamente drogato e in una grande euforia. Tenta di uccidersi o di farsi uccidere, come se ora avesse preso “le goût de la mort dont auparavant il avait la crainte”.
 Il mattino in cui doveva lasciare il suo albergo (Grand Hotel et des Palmes) per una cura di disintossicazione a Kreuzlingen viene trovato morto; malgrado la sua debolezza, che era estrema, si era trascinato con il materasso contro la porta comunicante che dava sulla camera di Charlotte Dufresne. Questa porta, che restava usualmente sempre aperta, la si trovò chiusa a chiave. La morte, il chiavistello e questa apertura chiusa formarono, in quell'istante e senza dubbio per sempre, un triangolo enigmatico dove l'opera di Roussel ci è allo stesso tempo concessa e rifiutata.
 Quello che possiamo intendere del suo linguaggio ci parla da una soglia dove l'accesso non si dissocia da quello che forma divieto-accesso e divieto essi stessi equivoci poiché, in questo gesto indecifrabile, di cosa si tratta? di liberare questa morte così a lungo temuta e ad un tratto desiderata? o forse di ritrovare una vita dalla quale aveva tentato con accanimento di liberarsi, ma che aveva così a lungo sognato di prolungare all'infinito con le sue opere e, in quelle opere, con apparecchi meticolosi, fantastici, infaticabili? Ce n'è un'altra, di chiave, ora che questo testo ultimo è là immobile, tutto contro la porta? Facendo segno di aprire o cenno di chiudere? Tenendo una chiave semplice, meravigliosamente equivoca, capace di rinserrare o di liberare in un solo giro? Richiudendo con cura su una morte irraggiungibile, o trasmettendo forse - al di là di essa - quell'abbagliamento il cui ricordo non aveva abbandonato Roussel dal suo diciannovesimo anno d'età e del quale aveva cercato - sempre invano, a parte forse quella notte - di ritrovare la chiarezza?


Pubblicato in La Ginestra. Rivista di Cultura Psicanalitica.Figure dello spazio. 2000. Franco Angeli Editore

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