Molti di noi hanno difficoltà ad
accostarsi alle tecniche di valutazione standardizzata dei problemi
psichiatrici poiché i concetti ad esse connessi risultano di
difficile comprensione. Infatti, come in qualsiasi campo, i "tecnici"
della misurazione creano un loro linguaggio, un gergo, che finisce per
disorientare e mettere in difficoltà chi tecnico non è.
Così, mentre noi parliamo semplicemente di numeri, i tecnici
parlano di "interi" e definiscono "variabili" quello che noi chiamiamo
sintomi, comportamenti, eccetera.
"Misurare"
significa quantificare, assegnare cioè un valore numerico alle
"variabili". Viene definito come "variabile" tutto ciò che
è osservabile direttamente o indirettamente e che può
assumere valori diversi; per noi psichiatri le variabili sono il
comportamento, i pensieri, i sentimenti, le emozioni, l'autostima,
eccetera. Il numero che assegniamo a queste variabili quando le
misuriamo è un'attribuzione quantificativa che traduce in numeri
ciò che l'uomo ha fatto da sempre, misurare cioè la
"qualità" della realtà che lo circonda utilizzando
termini che contengono in sé una stima quantitativa.
Quando diciamo, infatti, di aver provato un dolore
"grandissimo", "grande", "moderato", "lieve" o "nessun dolore", oppure
che un pensiero è presente nella nostra mente "sempre", "molto
spesso", "spesso", "qualche volta", "raramente" o "mai", noi facciamo
implicitamente una misurazione, collocando la nostra esperienza in
qualche punto lungo il continuum delimitato dai due gradi
estremi di giudizio (grandissimo/assente, sempre/mai). Un'operazione
analoga la facciamo quando confrontiamo la nostra variabile ad uno
standard di riferimento, quando diciamo, per esempio, che
l'intelligenza di un individuo è "di poco", "molto", "di gran
lunga" maggiore o minore rispetto alla norma. Gli aggettivi e gli
avverbi che noi usiamo hanno implicita in sé questa funzione di
misurazione (assoluta o comparativa). Il problema è che non
possiamo sottrarre "molto" da "moltissimo", "spesso" da "quasi sempre",
"moderato" da "grave" e così via, ed utilizzare quindi le
operazioni matematiche come potremmo fare se avessimo stabilito che,
per esempio, l'assenza di un sintomo corrisponde a zero, il grado
"lievissimo" ad 1 e che ogni grado successivo (lieve, moderato, grave,
molto grave, gravissimo) aumenta di un punto (2, 3, 4, 5, 6); in tal
caso, il paziente che fosse passato da "gravissimo" a "grave", sarebbe
migliorato di 2 punti. Questo è, in effetti, ciò che
fanno gli strumenti di valutazione, riproporre cioè i giudizi in
termini numerici avendo, gli Autori che li hanno creati, associato un
valore numerico a quegli aggettivi o a quegli avverbi.
Generalmente la scelta della scala numerica è
arbitraria e risponde a ciò che l'Autore della RS ritiene
adeguato al proprio scopo. In realtà esistono delle regole alle
quali sarebbe opportuno attenersi; ad esempio l'ampiezza della scala
non dovrebbe essere né troppo ridotta, per non perdere dei
livelli significativi di definizione, né troppo estesa per non
accrescere eccessivamente la variabilità dell'assegnazione dei
punteggi da parte dei valutatori. Le regole matematiche vorrebbero
anche (e soprattutto) che gli intervalli tra i punteggi fossero uguali
fra loro, cioè che la differenza tra "lieve" e "moderato", tra
"moderato" e "grave" e tra "grave" e "gravissimo" fosse uguale
così come uguale è la differenza fra 10 e 20 centimetri e
quella fra 20 e 30 e fra 30 e 40. In ambito psichiatrico (e psicologico
in generale) questo è praticamente impossibile ed è
perciò necessario far ricorso a convenzioni e adattamenti che
impongono una lettura dei risultati ottenuti con questi strumenti che
lasci ampio spazio al buon senso e che tenga conto della realtà
clinica. Con questa premessa, tenendo conto che la misurazione numerica
è principalmente finalizzata all'elaborazione statistica dei
dati e che le analisi statistiche comunemente impiegate sono abbastanza
"robuste", le RS sono da considerarsi ampiamente accettabili.
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VALUTAZIONE"