La valutazione standardizzata dei disturbi psichici era affidata, in passato, agli psicologi i quali utilizzavano batterie di test psicologici, in particolare psicometrici e psicodiagnostici, che richiedevano, per la loro somministrazione ed interpretazione, una particolare preparazione e tempi di solito abbastanza lunghi: questo ha rappresentato un serio ostacolo ad una più ampia diffusione della valutazione standardizzata della patologia psichiatrica. Questo tipo di valutazione, peraltro, era in un certo senso funzionale alla realtà clinico-terapeutica del momento, caratterizzata dalla pressoché totale mancanza di strumenti terapeutici efficaci e specifici e fortemente connotata dalla teoria e dalla prassi psicodinamica. La valutazione psicologica aveva perciò come oggetto le dinamiche, le difese, le fantasie dei pazienti piuttosto che un accurato inquadramento diagnostico, una precisa definizione qualitativa e quantitativa del quadro psicopatologico, un'attenta misurazione dei cambiamenti del quadro clinico a seguito degli interventi terapeutici.
La scoperta di trattamenti efficaci per la cura delle malattie mentali ha cambiato in maniera radicale la teoria e la prassi psichiatrica. Il cambiamento più importante può essere individuato nella significativa modificazione dell'evoluzione e del decorso di molte malattie che ha drasticamente ridimensionato la durata dei ricoveri, quando non li ha resi non necessari. La psichiatria deve oggi impedire, per quanto possibile, l'allontanamento del paziente dal suo contesto sociale e, quando l'allontanamento si rende necessario, cercare di renderlo il più breve possibile. Questa tendenza è stata amplificata dalla necessità di contenere i costi sociali (e quelli della sanità in primo luogo) per cui, anche per i trattamenti a livello ambulatoriale, si tende a preferire trattamenti di più breve durata e minor costo. In questo contesto la psicoterapia è stata relegata, in molti casi, in un ruolo secondario, accessorio, focalizzata su problemi specifici, privilegiando i trattamenti di breve durata.
Con l'avvento di terapie sempre più efficaci e mirate, anche il linguaggio della psichiatria è cambiato, il sistema diagnostico, ampiamente rivisitato, è stato reso più descrittivo, più basato sui sintomi, più standardizzato e, in questa ottica, più adatto alla valutazione mediante strumenti standardizzati di valutazione. Anche il parallelo sviluppo e l'affermarsi delle terapie cognitive e comportamentistiche ha favorito la messa a punto di strumenti di valutazione capaci di mettere bene a fuoco l'oggetto dell'intervento e verificarne l'effetto.
E così la valutazione psicologica ha ampiamente mutato i suoi scopi e le sue strategie:
mettendo in primo piano la misurazione della gravità dei sintomi, si è passati dall'interesse verso la dinamica e le motivazioni a quello verso i disturbi e le prestazioni;
gli strumenti di valutazione sono diventati più specifici per consentire lo studio di particolari aree di interesse e più orientati verso la documentazione dell'obiettività;
la necessità di valutare rapidamente un numero consistente di pazienti in modo da avere le necessarie informazioni per impostare un trattamento o per modificare quello in atto, ha favorito lo sviluppo delle scale di autovalutazione;
le RS, per le loro caratteristiche, si prestano in maniera eccellente all'impiego dei computer per la somministrazione, ma soprattutto per la loro elaborazione e per la produzione di rapporti narrativi;
spostando l'attenzione dal soggetto alla sua relazione con l'ambiente, sono state portate all'attenzione aree in precedenza quasi totalmente ignorate come, ad esempio, l'adattamento sociale;
grazie alle loro caratteristiche, infine, le RS hanno offerto allo psichiatra la possibilità di valutare direttamente i pazienti con un modesto investimento di tempo per la conoscenza degli strumenti e per il loro impiego routinario.
La data di nascita delle scale di valutazione di variabili di tipo soggettivo è collocata da più Autori in tempi diversi. Già nel II secolo d.C. Galeno propose una scala per la valutazione soggettiva della dimensione caldo-freddo articolata su 9 punti, 4 per la sensazione di freddo e 4 per quella di caldo in rapporto ad una condizione basale considerata come standard di confronto: questa scala, per quanto ideata per la misurazione di una variabile fisica, era in effetti una vera e propria RS in quanto l'attribuzione di un valore numerico alla variabile indagata dipendeva da un giudizio psicologico (basato su di una sensopercezione).
Certamente più vicina alle RS moderne è la scala ideata nel 1692 da Thomasius, un filosofo tedesco che, ipotizzando che la personalità fosse la risultante di 4 dimensioni principali, la sensualità, l'attitudine ad acquisire, l'ambizione sociale e l'amore razionale, creò una scala per misurare queste "inclinazioni" nei soggetti.
Altri esempi di scale di valutazione sono riportati in letteratura, ma fu certamente Francis Galton che introdusse la metodologia delle scale di valutazione nell'ambito della psicologia: nel 1880, infatti, egli pubblicò una scala per la valutazione della chiarezza delle immagini mentali. Ma, cosa ancora più importante, egli introdusse il concetto fondamentale che i punti della scala dovessero essere separati da intervalli uguali.
La RS che ha avuto maggiore applicazione nella pratica clinica è comunque quella elaborata da Kempf nel 1915 per la valutazione dei tratti psicopatologici.
Tuttavia è solo negli anni Cinquanta, con l'avvento dei primi farmaci psicotropi, che si è sentita pressantemente l'esigenza di ottenere valutazioni attendibili dello stato psichico dei pazienti e delle variazioni indotte su di esso dai trattamenti e che, nell'impossibilità di ricorrere a marker bio-umorali, si è fatto ricorso a strumenti che descrivessero, in maniera sistematica ed estensiva, le diverse aree del comportamento psicopatologico e che si prestassero alla sua misurazione. Sono nate così le RS, per prime quelle per la valutazione della psicopatologia generale dei disturbi psicotici e, successivamente, quelle per la valutazione di più limitati settori della psicopatologia, in stretto parallelismo con l'avvento di farmaci attivi su specifiche patologie o con l'estendersi delle indicazioni dei farmaci già in commercio a settori emergenti della psicopatologia.
L'entusiasmo acceso dall'avvento degli psicofarmaci, che offrivano per la prima volta la possibilità di curare malattie fino ad allora considerate incurabili, è stato probabilmente la molla che ha suscitato in molti un parallelo entusiasmo per quegli strumenti (le RS, appunto) che degli effetti degli psicofarmaci davano documentazione, al punto da considerarli come capaci di dare "scientificità" alla psichiatria. Questo atteggiamento ha fornito un comodo bersaglio a quanti, da posizioni anche contrapposte (quali quella della psicoanalisi o più genericamente della psicoterapia da un lato, e, dall'altro, quella della cosiddetta "antipsichiatria", che a partire dalla fine degli anni Sessanta ha attraversato, scuotendolo dalle radici, il mondo della psichiatria) vedevano nella psicometria un modo per obiettivare il paziente e la sua malattia, scotomizzando le complesse interrelazioni tra il paziente ed il suo ambiente familiare e sociale, impedendo l'incontro empatico con lui e contribuendo alla sua ulteriore emarginazione attraverso l'attribuzione, secondo un procedimento paleo-positivista, di un valore assoluto a fenomeni che sono invece espressione di dinamiche personali e sociali più complesse. Il fronte delle critiche era variegato, spaziando da quello più estremo, che vedeva nelle RS "soltanto uno degli strumenti utilizzati fraudolentemente dagli psichiatri per la cinica conservazione del loro potere" (Faravelli, 1983), a quello più moderato, che sottolineava che le RS, tenendo conto soltanto dell'aspetto sintomatologico della malattia, finivano per isolarla dal suo contesto impedendone, in definitiva, la comprensione.
Com'è facile intuire, entusiasmi eccessivi e critiche feroci sono, ognuno per la sua parte, totalmente fuori misura, in quanto attribuiscono a questi strumenti proprietà e capacità che non hanno; la "portata teorica delle RS deve essere ricondotta entro i limiti sanciti dalla semplicità concettuale di questi strumenti, che non rappresentano certamente un contributo essenziale alla "scientificità" della psichiatria, né un attentato ad una comprensione più globale della devianza psichica, e che sono, invece, più semplicemente, un comune schema di riferimento che consente la trasposizione numerica di alcuni elementi obiettivabili della sintomatologia clinica, rendendoli così confrontabili ed analizzabili con tecniche statistiche" (Conti et al., 1993). L'impiego di questi strumenti, infatti, non può e non deve sostituirsi all'approccio clinico, ma deve essere limitato ad ambiti di ricerca specifici che richiedono l'impiego di tecniche statistiche ed informatiche che solo la trasposizione numerica delle informazioni cliniche rende possibile.
È doveroso comunque sottolineare come la ricerca psicofarmacologica clinica scientificamente fondata, abbia stimolato lo sviluppo di strumenti sempre più sensibili, capaci di valutare accuratamente l'omogeneità dei campioni sperimentali, di cogliere modificazioni del quadro clinico anche modeste, di individuare con precisione gli aspetti psicopatologici sui quali maggiormente si esplica l'attività terapeutica; per contro, la più ampia disponibilità di farmaci efficaci ha reso necessario un più accurato inquadramento diagnostico ed una più precisa definizione delle caratteristiche psicopatologiche del quadro clinico ai fini di un intervento clinico-terapeutico più mirato e, di conseguenza, più efficace: ed è dunque in questa prospettiva che l'impiego delle RS diventa un necessario complemento dell'approccio clinico tradizionale.
Vorremmo, comunque, concludere questo rapido excursus con un'affermazione "dissacrante" di Max Hamilton, il "padre" di due RS per la valutazione della depressione e dell'ansia così famose e così diffusamente impiegate da essere considerate il termine di paragone per tutte le RS successive: "Le scale di valutazione sono oggi così diffusamente impiegate, soprattutto per la valutazione dei trattamenti nelle ricerche psicofarmacologiche cliniche, che è difficile capire che esse sono relativamente nuove e che, d'altra parte, esse non sono indispensabili neppure nelle ricerche terapeutiche. Ci sono altri mezzi per valutare le condizioni del paziente, come la durata del ricovero o dell'assenza dal lavoro per malattia. Una scala di valutazione non è niente di più che un modo particolare per registrare un giudizio clinico. Il clinico esprime la sua opinione sulla presenza o assenza di un sintomo, o sulla sua gravità, ma che egli la esprima con parole o con numeri, il giudizio non cambia. Se il giudizio è basato su informazioni inadeguate, o se il clinico non ha abbastanza esperienza, il giudizio non ha alcun valore, tanto che sia espresso con parole che con numeri. Le ulteriori analisi statistiche stupiranno soltanto coloro che non capiscono o non vogliono capire queste cose. Ciò nonostante, le scale di valutazione sono popolari poiché permettono di ottenere un'informazione standardizzata: gli item sono gli stessi per tutti i pazienti ed in tutte le occasioni, e sono definiti in modo che la loro graduazione ed il loro modo di impiego siano uniformi. Inoltre, sono facili da quantificare e consentono di ottenere dei numeri agevolmente utilizzabili per le analisi statistiche. Molti clinici hanno ancora seri dubbi sulla quantificazione, ma i metodi attuali hanno una solida base teorica. Ma, cosa più importante, [le scale di valutazione] sono soddisfacenti nella pratica clinica" (Hamilton, 1981).
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