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G. Stanghellini, Psicopatologia del senso comune, Cortina, Milano 2006, p. 262, Euro 22

[Pubblichiamo in esclusiva, per i lettori di POL.it, l’indice e la prefazione, firmata da Mario Rossi Monti, dell’ultima pubblicazione di Giovanni Stanghellini: autore ed amico di cui ci siamo a più riprese occupati in questa rubrica e nella nostra rivista. Il libro – edito da Cortina e fresco di stampa – rappresenta un rimaneggiamento del saggio Disembodied Spirits and Deanimated Bodies. Psychopathology of Common-Sense, Oxford University Press, Oxford 2004, del quale avevamo già pubblicato, in traduzione italiana, l’estratto di un capitolo: si vada alla URL http://www.pol-it.org/ital/sensocomune.htm]

Indice

 

Ringraziamenti

Prologo: La stanza tatuata

Introduzione

Primo Studio: Genealogia della Psicopatologia

Critica della ragione psicopatologica: fenomeni comprensibili vs. incomprensibili

Comprendere e mancanza di presupposizione

Incomprensibilità come resistenza a coinvolgersi nella comprensione empatica

Incomprensibilità come effetto della comprensione depersonalizzata

Incomprensibilità e la funzione ancillare della psicopatologia per la diagnosi nosografia

Incomprensibilità e metamorfosi dello scenario della follia e delle categorie psicopatologiche

Dal Manicomio alle metamorfosi della follia

Dal delirio all’epifania della vulnerabilità

La crisi della Psicopatologia e il coraggio della Filosofia

Il significato della ‘Fenomenologia’

Secondo Studio: Alle origini della psicopatologia dell’essere sociale

La Psicopatologia come "scienza moderna"

Manicomio, coscienza moderna e follia

Il visibile e l’invisibile: catatonia, ebefrenia e eboidofrenia

Un’anomalia: la "follia dell’essere sociale"

Autismo e idiozia morale: alla sorgenti della coscienza vulnerabile

Alle soglie di una psicopatologia dell’essere sociale

Terzo Studio: L’equivoco ascetico e la fenomenologia sociale

L’equivoco ascetico e la psicopatologia fenomenologia

Il presunto solipsismo della fenomenologia

Le radici interiori dell’intersoggettività

Co-soggettività

Intersoggettività concreta

La comunità anonima

Intesoggettività, costrutti sociali e sintonizzazione

Sensus communis

Sintonizzazione

Quarto Studio: Aporie dell’intersoggettività

Che significa "disfunzione sociale"?

Disfunzione sociale come conseguenza dei sintomi schizofrenici

Disfunzione sociale come indicatore diagnostico della schizofrenia

Disfunzione sociale come fattore di vulnerabilità

Modelli di (dis)funzione sociale

Comportamentismo/funzionalismo

Struttural-funzionalismo

Cognitivismo

Interazionismo simbolico

Marconisti o musicisti?

I sensi del senso comune: senso comune come sapere sociale

Le presunte caratteristiche naturali ed ontologiche delle credenze di senso comune

Le origini della fenomenologia sociale

Senso comune: lost & found

Senso comune, intuizione, intercorporeità

Senso comune, imitazione, sintonizzazione

La dimensione sociale del corpo nel fenomeno dell’intersoggettività

Quinto Studio: Il mondo sociale nella melancolia e nella schizofrenia

La tragedia dell’eccentricità

Anomalie della sintonizzazione

Vulnerabilità eteronomica

Antagonomia

Ipertolleranza della complessità semantica

L’eroismo della normalità

Ordinatezza

Coscienziosità

Ipernomia-eteronomia

Intolleranza all’ambiguità

Idioagnosia: il mondo sociale del typus melancholicus

L’ordine melancolico e quello ossessivo

Sesto Studio: Sesto senso e schizofrenia

Comprendere e schizofrenia

La schizofrenia alla luce di Aristotele. I sensi del senso comune: koiné aisthesis e sensus communis

Koiné aishesis e sintonizzazione sociale: le basi incarnate dell’intersoggettività

Koiné Aisthesis, coscienza di sé e coscienza sociale: i vincoli reciproci tra intersoggettività e incarnazione

"La percezione del nostro corpo ha costantemente bisogno di una metafora"

Aristotele alla luce della schizofrenia: lo stream of consciousness

Corpi deanimati e spiriti disincarnati

Settimo Studio: La statua interiore

Appiattimento affettivo e appiattimento della psicopatologia

L’esperienza di depersonalizzazione nella melancolia e nella mania

Centricità: la dimensione antropologica nella depersonalizzazione melancolica

La statua interiore: depersonalizzazione melanconica come disturbo dell’identità

Ottavo Studio: Scanners, Cyborgs e Zombies

La depersonalizzazione schizofrenica come disturbo della coscienza sensoriale di sé

Coscienza sensoriale di sé e iperriflessività

Scanners, Cyborgs…

e Zombies

Nono Studio: Le Voci e la Coscienza

Vecchie voci ritornano

Le "voci" come disturbo della coscienza di sé

Frammenti di cervello e schegge di coscienza

Epilessia dei centri sensoriali

I meccanismi di rilascio

Il riconoscimento errato della titolarità degli stati mentali

Il disturbo del self-monitoring

La coscienza di sé come unione nella dualità

Ariel e i Marinai

Oltre il silenzio del dialogo interiore

L’emergenza esplicita dell’implicito

L’oggettivazione morbosa: organizzatore di senso della coscienza schizofrenica

Le metafore nella mente

Decimo Studio: Questo non è un delirio

Ivo e il Prefetto

"Quel che conta, nel delirio, non è il delirio stesso"

L’incontro con il nulla

Fenomenologia dei mutanti: lo sdoppiamento allucinatorio

Questo non è un delirio

I corpi diventano immagini

Le immagini diventano corpi

I segni diventano immagini

I segni diventano corpi

Le immagini diventano segni

I corpi diventano segni

Forme emerse e forme immerse della coscienza delirante schizofrenica

Forme deliranti e configurazioni antropologiche: deliri etici e deliri ontologici

 

 

Mario Rossi Monti

Prefazione

 
Scrive Racamier (1992): "è troppo facile – ed è falso – dire che quando c’è la psicosi c’è una tabula rasa". Ridurre la psicopatologia della schizofrenia (o delle psicosi in genere) ad un deficit, un difetto, una mancanza è una operazione semplificatoria che nessuno psicopatologo degno di questo nome si può permettere. La metodologia della ricerca costringe necessariamente ad operare semplificazioni. Si può decidere di studiare con metodi empirici alcuni specifici aspetti della patologia schizofrenica: studiare con tecniche di neuroimaging l’encefalo di un allucinato nell’udito, indagare il funzionamento di specifiche strutture cerebrali. Ma se la ricerca implica una semplificazione, i ricercatori non sono inconsapevoli della operazione che stano compiendo. Se per indagare un aspetto specifico della schizofrenia è necessario perdere di vista la globalità del fenomeno, nel lavoro clinico questa dimensione globale non può invece essere persa. Quella tabula, che può anche sembrare "rasa" vista da lontano, invece che povera e vuota si rivela densa e piena - quando ci si avvicini ad essa senza avere troppo timore di esserne catturati.
La "presa in carico" di un paziente schizofrenico è cosa completamente diversa dalla ricerca sulla schizofrenia. Se la ricerca consente di isolare un sintomo, una rappresentazione, un’immagine della schizofrenia e di lavorare anche proficuamente su quel fenomeno isolato dal suo contesto di appartenenza, il lavoro clinico obbliga a tenere conto nello stesso tempo di una seria eterogenea di fenomeni e a muoversi a livelli di conoscenza e di inferenza diversi. Presa in carico è un termine caro alla psichiatria di settore francese. Insieme all’idea di continuità terapeutica, la presa in carico costituisce uno dei baluardi della psichiatria territoriale o comunitaria. Il pregio del termine consiste esattamente nel suo stesso limite. Da un lato trasmette il senso della gravosità del compito che il clinico o il gruppo dei curanti si assume; dall’altra fa pensare al mettersi sulle spalle un fardello, facendosi appunto carico di una serie di incombenze che vicariano funzioni e capacità che abitualmente competono all’altra persona. Questa implicazione del termine potrebbe sembrare priva di speranza: il farsi carico di un peso può non implicare la possibilità che l’altro possa sviluppare la capacità di farsi lui stesso carico delle incombenze che gli competono. Qualche volta è davvero così: nei casi più disperati. Dove malattia e vicende di vita congiurano tragicamente. Altre volte no. La funzione vicariante può essere limitata nel tempo o parziale. Ma il termine ha comunque il merito di non nascondere la pesantezza del compito. Una pesantezza di cui non si trova traccia in molti interventi di una psichiatria miracolistica, per la quale la categorizzazione dei comportamenti patologici sembra costituire la parte più rilevante del lavoro. Da un lavoro di categorizzazione nosografica possono certamente derivare anche buone cose. Ma - nella clinica - la diagnosi descrittivo-categoriale non basta. Nè possiamo accontentarci di una rappresentazione del paziente con il quale vogliamo lavorare che assomigli ad un quadro dell’Arcimboldo: una persona coperta da una miriade di etichette (diagnostiche). Abbiamo bisogno di una rappresentazione del paziente schizofrenico più articolata: che comprenda certamente i sintomi. Ma non solo quelli.
E’ inutile nasconderselo: allo stato attuale delle nostre conoscenze (che non sono poche) la presa in carico di una condizione schizofrenica implica un lavoro complesso, faticoso e soprattutto protratto nel tempo. Un lavoro che non si può fare da soli, ma che richiede competenze e livelli di intervento combinati tra loro: il modello degli interventi combinati di cui parlavano venti anni fa Ballerini e Berti Ceroni (1986) è ancora più che mai attuale. Tecniche terapeutiche brevi, anzi istantanee, o presunti successi terapeutici che si esauriscono in un atto unico non servono a negare questa realtà. Nè a negare la pesantezza di un compito al quale viene naturale sottrarsi (in maniera consapevole o anche inconsapevole).
A questi aspetti Robert Hinshelwood (2004) ha dedicato un libro importante: Suffering insanity. Psychoanalytic essays on psychosis. Un libro che parla della esperienza psicotica (schizofrenica) dal punto di vista della psicologia dei curanti, dal punto di vista dell’impatto che la psicosi schizofrenica ha sulla esperienza personale dei curanti: soprattutto per quanto riguarda la perdita di significato della esperienza ed i disturbi della identità. Due caratteristiche fondamentali della schizofrenia che si ripercuotono sul funzionamento mentale di chi lavora con pazienti schizofrenici e che da sempre sostengono l’urgenza di modelli esplicativi e di modi di rappresentarsi l’esperienza schizofrenica. Tra i molti requisiti necessari per lavorare a lungo con pazienti psicotici la capacità di rappresentazione della persona e delle sue potenzialità evolutive gioca un ruolo fondamentale. Per questo è necessario che i singoli operatori, ma anche il gruppo curante nel suo complesso, sviluppi una capacità di visioning (Foresti, Rossi Monti, 2002; 2005) che deve essere mantenuta nel tempo, lungo tutto il corso di un progetto terapeutico-riabilitativo.

Visioning è un vocabolo tratto dal vocabolario delle discipline che si occupano di gestione delle organizzazioni. La capacità di visioning indica la necessità che il gruppo di lavoro sia sostenuto da una attività di rappresentazione/comunicazione degli obiettivi che si è dato e del lavoro necessario per raggiungerli. Questa attività di rappresentazione/comunicazione consiste nella capacità di "produrre rappresentazioni visualizzabili, concezioni del lavoro da svolgere che siano convincenti perchè in qualche modo visibili" dal gruppo e dalle posizioni occupate all’interno del gruppo dai singoli operatori (Foresti,2001). In qualche modo la diagnosi stessa deve potere essere visualizzata, in maniera tale che la rappresentazione del paziente come persona, con i suoi problemi, le sue difficoltà, i suoi sintomi, ma anche con le sue potenzialità, sia condivisa dal gruppo di lavoro. Un po’ come se ogni operatore che lavora sul caso potesse, chiudendo gli occhi, avere davanti a sè una rappresentazione della persona di cui si sta occupando e anticiparne le possibilità evolutive. Il visioning è insieme capacità di rappresentare nelle sue linee generali il progetto che è possibile formulare per quel paziente e allo stesso tempo rappresentarsi la posizione particolare che il singolo operatore occupa nell’ambito di quel progetto. Il compito di promuovere e favorire questa funzione grava sul gruppo dirigente, ed in particolare sul leader del gruppo di lavoro. Oltre al compito quello di mantenerla, per quanto è possibile, sufficientemente integra nel tempo.
In questi anni una visione semplificata della psichiatria (sistematicamente promossa dai mass-media) ha congiurato con la tendenza di una parte consistente della psichiatria contemporanea a porsi come psichiatria comportamentale, attenta ai comportamenti oggettivabili, osservabili dall’esterno, codificabili/misurabili, ma disinteressata alla conoscenza delle esperienze soggettive e ai percorsi che sottendono quei comportamenti. Una psichiatria di superficie che ambisce ad essere riconosciuta come scienza oggettiva, anche a costo di perdere uno dei cardini della sua specificità, vale a dire la attenzione alla dimensione della soggettività. Una psichiatria che interviene nell’immediato, che deve conseguire risultati senza tenere in conto il fatto che la patologia della mente umana ha i suoi tempi: tempi che non coincidono necessariamente con le esigenze dei pazienti, dei familiari, degli amministratori e neanche con quelle degli psichiatri. Un gruppo di psichiatri che lavora nei servizi ha recentemente pubblicato un Documento sullo stato e sulle prospettive della psichiatria italiana (Angelozzi, Bassi, Cappellari et al., 2005) nel quale mette in relazione la crisi motivazionale degli operatori con la semplificazione brutale dei disturbi psichiatrici promossa dai mass-media: "l’unica psichiatria che sembra interessare e coinvolgere la maggior parte dell’opinione pubblica è quella mediata dalla televisione, dalle riviste... dai quotidiani". Una psichiatria che magari salta da un fatto di cronaca tragico ed eclatante ad un altro, ma che perde di vista i percorsi che conducono a gesti così estremi. Gesti che non scaturiscono dal nulla. Se isolati dal contesto e dalla storia che li ha preceduti quei gesti suonano estranei o anche alieni: fatti inspiegabili, inconcepibili. Non possibilità estreme che si collocano alla fine di un percorso, tragico ma pur sempre possibile.
In questo contesto generale un libro come quello di Giovanni Stanghellini svolge un’opera preziosa. Abbandona il terreno delle ipersemplificazioni, fa da argine all’idea che gli psichiatri, gli psicologi clinici, gli operatori psichiatrici in genere, siano chiamati solo ad inseguire situazioni tragiche ed estreme, perdendo di vista la dimensione complessiva del loro operare. L’intervento nelle situazioni acute, di urgenza o di emergenza, non può riassumere l’attività e le funzioni di un servizio di psichiatria. Questo tipo di azione, se pensato solo per fare fronte a situazioni disperate ed estreme, diventa esso stesso altrettanto disperato, oltre che sostanzialmente inefficace. Accanto a questo tipo di intervento si deve sviluppare un lavoro protratto, che si svolge in silenzio, quasi nell’ombra, senza clamore, senza grandi successi ma anche senza grandi insuccessi. Un lavoro il cui oggetto è la relazione terapeutica. Nella "presa in carico" di pazienti schizofrenici è necessario contare su alcune idee di fondo e non sottrarsi a molti interrogativi: sempre angosciosi perchè ontologicamente rilevanti. A molte di queste domande non è possibile dare una risposta. Si è tuttavia molto aiutati dal sapere che non si è soli nel provare a non lasciarle cadere nel vuoto.
Libri come questo coniugano una esperienza pluriennale di psichiatria nei servizi, a contatto con le forme più distruttive della patologia psicotica, con la capacità di lasciarsi interrogare dalla clinica, senza sovrammettervi ipersemplificazioni o risposte dogmatiche e precostituite. Molte domande, alcune riflessioni, qualche modello teorico: questo implica il contatto prolungato con una persona schizofrenica. Dubbi radicali e domande del tipo: "sono cose che ho pensato, ho sentito, o che qualcuno ha pensato per me, o che ha letto sul muro di camera mia? – scrive Stanghellini - Quanti sono quelli che pensano? Chi sta pensando queste frasi? E chi le sta ascoltando? Siamo anime che si tengono per mano come in una danza? Parlo io per tutti? O altri parlano attraverso di me?".
Quando incontriamo un paziente schizofrenico insomma non abbiamo a che fare con una mente o con un cervello rotto, svuotato, appiattito, bruciato, degenerato ma con una mente devastata e allo stesso tempo complessa. Anche il vuoto o l’assenza sono spesso frutto di una vicenda che ha avuto un senso e che magari continua ancora ad averlo. Un po’ come scrive Starobinski (1995) : "di uno sguardo, di un'orbita, si dice che sono vuoti in quanto hanno contenuto la visione e l'hanno perduta". Anche quando quel senso è assolutamente estraneo alla mente di chi quella vicenda la ha vissuta in prima persona.
La tanto criticata incomprensibilità schizofrenica di jaspersiana memoria –precisavano Stanghellini e Ballerini (1992) – è infatti prima di tutto incomprensibilità a se stessi: auto-incomprensibilità. Auto-incomprensibilità che si realizza e si gioca allo stesso tempo sui due versanti dell’eccesso di senso del delirio o della emorragia di senso dei cosiddetti sintomi negativi. Ma la incomprensibilità schizofrenica, in questa accezione, non deve diventare una occasione di collusione. Come sembra accadere a buona parte della cultura psichiatrica dominante che ha trovato nel concetto di deficit la chiave di volta di tutte le più gravi patologie psichiche: dal vecchio Defekt schizofrenico ad una rappresentazione difettuale della schizofrenia. Del resto la storia del concetto di schizofrenia si inscrive in gran parte nell’ambito di teorie centrate sull’idea di una insufficienza: dalla riduzione di energia della vita mentale di Griesinger, all’abbassamento del livello mentale di Janet, al disturbo delle associazioni di Bleuler, alla insufficienza primaria della attività psichica di Berze, alla riduzione della curva intenzionale di Kretschmer, alla riduzione del potenziale energetico di Conrad e alla insufficienza dinamica di Janzarik. Fino ad arrivare alla recente estensione del concetto di deficit (e di difetto) anche all’area dei disturbi depressivi (Goldberg et al.,1995; Martìnez-Aran et al.,2004; Geddes et al., 2004). Ciò che viene percepito come deficit è comunque il punto di arrivo di un percorso: non è detto che rappresenti l’essenza del disturbo.
Alla indagine e alla conoscenza di queste sequenze Giovanni Stanghellini è sempre stato interessato: a partire dal suo interesse per la teoria dei sintomi base (Stanghellini, 1992; 1997). Una teoria che rappresenta il paradigma antesignano della vulnerabilità schizofrenica: i sintomi base sono infatti veri e propri marker di vulnerabilità. Questo interesse per i sintomi base deriva da una insoddisfazione sempre maggiore per il modello clinico che ha dominato a lungo il campo della schizofrenia: quello che ne individuava il nucleo costitutivo nei sintomi di primo rango di Kurt Schneider. La deportazione della teoria di Schneider oltre oceano – scriveva Stanghellini (1992) - è diventata un letto di Procuste. Ciò che conta non sono i sintomi di primo rango, nè i sintomi primari di Bleuler quanto piuttosto il rapporto dialettico tra le due categorie di fenomeni. Un rapporto che può essere studiato almeno da due prospettive: una prospettiva nosografica ed una prospettiva psicopatologico-patogenetica. La seconda è quella che Stanghellini predilige: dall’interesse per la dimensione patogenetica all’interesse per la vulnerabilità. Non rispettando i limiti che la psicopatologia fenomenologica si è data quando si è chiamata pregiudizialmente fuori da ogni discorso sulle cause e sulla cura. Condivido profondamente con lui molte cose. Tra queste la noncuranza per una adesione puramente formale a metodi, impostazioni, modi di pensare che si presume debbano essere mantenuti integri e soltanto tramandati. Un po’ come soprammobili di alabastro destinati ad assumere una funzione totemica. Qualche volta più per rassicurarci sul loro valore che non per la loro effettiva capacità di promuovere ulteriori conoscenze. Non bisogna preoccuparsi più di tanto quando qualcuno – anche autorevole - dice: "questa non è vera psicopatologia ("vera fenomenologia", o anche "vera psicoanalisi"). Come se la cosa importante fosse stare a tutti i costi stretti dentro questi limiti. Etichettarsi e riconoscersi nello sparuto gruppo delle vestali di un modello e di un pensiero che si tramanda immutato. Si tramanda immutato perchè vale? Oppure vale perchè si tramanda immutato? Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza. Ma nell’immediato è importante, senza nulla togliere al valore delle tradizioni, non barricarsi in esse. Soprattutto quando si ha di fronte un campo di studio così carico di sofferenza e nel quale le sacche di ignoranza sono ancora così ampie. Anzi, un campo di studio nel quale disponiamo di alcune sacche di conoscenza, non sempre coerenti tra loro.
Gli psichiatri qualche volta si riempiono la bocca con affermazioni grossolane. Nelle quali viceversa chi fa ricerca non si riconosce, attento invece a sottolineare i limiti e la parzialità delle conoscenze che ha realizzato (ad esempio in ambito genetico, neuroanatomico o funzionale). Cito per tutti un lavoro di Flashman e Green (2004) nel quale gli autori precisano che nonostante il tremendo progresso nelle conoscenze realizzato nelle ultime decadi, "è diventato sempre più chiaro che non esiste alcun profilo patognomico della schiozofrenia dal punto di vista neuropsicologico o strutturale neuroanatomico". Così, se non vogliamo aggrapparci alla illusione di dare per compiute conoscenze che ancora non lo sono, dobbiamo provare a capire qualche cosa di più, anche riconoscendo – quando è necessario – i vincoli o i limiti delle nostre rispettive formazioni.
Questo libro parte dalla clinica, ma è frutto di un lavoro di riflessione sulla clinica delle psicosi che va oltre l’ambito tradizionalmente riconosciuto alla dimensione clinica; interrogandosi ad esempio sul rapporto tra psicopatologia e filosofia, sul mandato della psicopatologia e sulla sua impostazione tradizionalmente "ascetica"; sul tema della fenomenologia sociale, sul problema della intersoggettività come chiave di volta per ripensare a quella che il DSM-IV individua come "disfunzione sociale ed occupazionale" della schizofrenia; ed ancora sulla centralità della oggettivazione morbosa come organizzatore fenomenologico della esperienza schizofrenica. Un libro che guarda alla esperienza clinica, alle parole e ai dubbi dei pazienti, dal punto di vista della prospettiva fenomenologica. Ma allo stesso tempo un libro che è anche un atto d’accusa contro la psicopatologia. O almeno verso quella psicopatologia che tende ad una ripetizione delle proprie asserzioni più o meno stanca, senza tenere in conto il fatto che il panorama nel frattempo è mutato.
E’ mutato il panorama clinico, nel senso che i modi in cui la follia si manifesta sono andati incontro ad una metamorfosi, legata per esempio ad un modello di assistenza che consente di entrare in contatto con pazienti vulnerabili ben prima che sviluppino sintomi psicotici. Stanghellini appartiene a quella generazione di psichiatri che è stata solo sfiorata dal manicomio e che si è cimentata fin da subito con la psichiatria territoriale e di comunità. Andando incontro a quella trasformazione dello sguardo psichiatrico di cui parlava con grande acutezza venti anni fa un grande maestro come Dario De Martis insieme a Michele Bezoari (1987). Ma la metamorfosi della follia si palesa anche nel fatto che le psicosi assomigliano sempre di più ad organizzazioni di personalità e si impastano con gli assetti personologici o con gli effetti di sostanze psicoattive. Se prima il delirio era la vera icona della follia ora il prototipo della follia - sostiene Stanghellini - è una condizione strisciante pseudo-sociopatica, caratterizzata dalla perdita della capacità e della volontà di intenzionarsi in un mondo comune.
Ma è mutato anche il panorama concettuale. Come si può continuare a parlare di empatia esclusivamente nei termini in cui ne parlava Edith Stein nel suo fondamentale saggio del 1917? Oggi empatia vuol dire anche molte altre cose. Forse troppe. Come si può non tenerne conto? Né basta dire che questa evoluzione concettuale del termine non va nella direzione della "vera fenomenologia", nè, del resto, in quella della "vera psicoanalisi". Come si può parlare di intersoggettività o di sintonizzazione senza pensare anche ai contributi di Stern? La psicopatologia deve insomma raccogliere la sfida di una realtà clinica e concettuale in evoluzione e sapersi rinnovare. Anche perchè i contributi della psicopatologia fenomenologica alla psichiatria assomigliano a qualcosa che si conquista a fatica ogni volta uno spazio nella mente per poi subito evaporare e svanire. Soprattutto i giovani psichiatri (ma anche quelli meno giovani) sono sopraffatti da un effetto cattura dei comportamenti: per cui alla fine si tende a pensare che è delirante chi dice il falso, depresso chi si isola dagli altri, folle chi fa cose incomprensibili e ossessivo chi ripete una stessa azione innumerevoli volte. Sottolineare l’importanza delle esperienze interne è dire una ovvietà: tutti sono immediatamente d’accordo. Ma poi al dunque, sono i comportamenti a guidare le danze (e spesso anche le decisioni terapeutiche)! Per questo è necessario mutare i punti di aggancio del discorso psicopatologico sulla clinica ed innestare la prospettiva psicopatologica sui rami della clinica alla quale gli psichiatri e gli psicologi clinici di oggi sono "appesi". In assenza di questo sforzo, gli straordinari approfondimenti conoscitivi della psicopatologia classica rischiano di rimanere lettera morta, legati ad un epoca nella quale le forme invarianti nelle le quali si esprimeva la follia erano i deliri primari, la paranoia, la melanconia, la mania, etc. Ma quale contributo può dare oggi la psicopatologia alla conoscenza della effervescenza borderline? o della anoressia/bulimia? o ancora dei dei disturbi di personalità a partire dalla variante cosiddetta sociopatica?
La psicopatologia, questa la tesi dell’Autore, "sembra aver perso di vista la propria natura centaurica – disciplina fondante la comprensione e la cura – e così anche il proprio mandato – elaborare gli strumenti concettuali per fondare una comprensione rigorosa dei fenomeni patologici della soggettività". Si è riciclata come disciplina che seleziona sintomi utili alle procedure diagnostiche e li definisce operativamente. Come è accaduto tutto questo? In primo luogo a causa di un "equivoco ascetico". Nonostante concepisca le psicosi come disturbo della intersoggettività, la psicopatologia ha continuato a studiarle facendo riferimento alle modificazioni di coscienza di un individuo isolato dal suo contesto. Non è sufficiente individuare microdifetti cognitivi all’esordio della psicosi. Né individuare sintomi che sono astrazioni, privati di una storia e senza relazione con la persona. Il senso di identità e di realtà che fonda il nostro modo abituale di stare al mondo (profondamente perturbato nelle psicosi) affonda le radici in qualcosa di più primariamente sociale. La psicopatologia classica si è tuttavia arrestata al di qua del confine che separa lo studio della singola esperienza disincarnata dal suo sfondo sociale.
In secondo luogo – prosegue impietosamente l’Autore - la psicopatologia classica ha tradito il suo mandato poiché ha colluso con la legge epistemica del manicomio: alienare per conoscere. Una legge epistemica che ha portato ad occuparsi del folle come se fosse un corpo morto. Una delle principali contraddizioni della psicopatologia consisterebbe nella tendenza ad oggettivare lo psichico separando l’esperienza dalla persona dall’orizzonte della vita. Questo tipo di assetto ha colluso con la soluzione istituzionale della follia. D’altra parte, è la legge fondamentale dell’episteme moderna. Una psicopatologia affascinata dalla contemplazione della materia inerte ma stupita di fronte al mondo della vita che si muove lungo un circuito già delineato da Foucault e più recentemente ripercorso da Louis Sass: "sia l’icona per antonomasia della follia – la schizofrenia – sia la psicopatologia – scrive Stanghellini - nascono sotto un segno inquietante: la perversa auto-apoteosi della mente moderna, spazializzante e iper-riflessiva".
Per uscire da questo vicolo cieco è necessario recuperare la dimensione della fenomenologia sociale mettendo al centro della attenzione il problema della intersoggettività. Una intersoggettività non declinata secondo il modello del costruttivismo sociale, quanto piuttosto sul piano della sintonizzazione precatergoriale. Intesa cioè come possibilità di attingere direttamente alla esperienza ed alla vita emotiva altrui. Per questo è necessario in primo luogo riabilitare il concetto di senso comune, inteso come senso sociale e come intercorporeità. A questi temi Stanghellini dedica la parte centrale del volume.
In un nostro comune lavoro (Rossi Monti, Stanghellini,1996) avevamo proposto di distinguere gli psicopatologi in due gruppi: nostalgici e libertini. I primi si affaccendano intorno agli strumenti spuntati della psicopatologia classica cercando di ri-affilarli, alla ricerca di dispositivi mediante i quali tracciare confini tra differenti esperienze soggettive che soddisfino anche esigenze nosografiche. Rimpiangono il tempo in cui la "percezione delirante" (nella originaria accezione di Kurt Schneider) sedeva sul suo trono. I libertini invece si sono svincolati dall’abbraccio con la nosografia. Lasciatisi alle spalle le pastoie nosografiche inseguono nuove avventure (conoscitive). Sviluppano idee, concetti, studiano stati mentali, le loro evoluzioni, indipendentemente dalla attribuzione nosografica. Sono più disordinati, fanno cose apparentemente meno utili nell’immediato, ma certamente sono più creativi. L’area della psicopatologia ormai si è fatta ampia, si è costruita un suo spazio. Gli psicopatologi non sono più una ristretta cerchia di solitari pseudo-filosofi che dialogano soltanto tra di loro. Qualche volta affogando nelle questioni da loro stessi sollevate. Paradossalmente proprio la impostazione attuale della psichiatria clinica, impiantata su una nosografia brulicante di forme che si accoppiano, si riproducono, si mangiano l’una con l’altra (spesso prima ancora che se ne possa acclarare la validità e l’utilità) ha favorito lo sviluppo della psicopatologia: sia come possibilità di riflessione metodologica sul nostro operare; sia come possibilità di andare al di là delle descrizioni ateoretico-operazionali proposte dal DSM di turno. Del resto Kenneth Kendler (2005) ha sostenuto la necessità di mettere ordine nel quadro di riferimento concettuale e filosofico della psichiatria, individuando otto proposizioni irrinunciabili, la prima delle quali recita: la psichiatria è irrevocabilmente radicata nelle esperienze mentali in prima persona.
In questa psicopatologia c’è insomma spazio per nostalgici e libertini: per chi è più vicino alle tradizioni e tenta di ravvivarle dall’interno e per chi si avventura ai confini della disciplina, varcando confini che non sono barriere invalicabili quanto piuttosto margini tracciati per delineare figure convenzionali. Quando qualcuno ci parla di psicopatologia non dovremmo fare come quando rispondiamo al telefono cellulare: la prima domanda da fare non è "dove sei? da dove parli?". Ma "che cosa hai da dirmi?"
BIBLIOGRAFIA
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