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Psicoanalisidella colpa e colpe della psicoanalisi   
intervistaa Roberto Speziale-Bagliacca 
  

Sullaformazione dell'analista  

A. G.:A proposito di Melanie Klein, vorrei tornare a un tema che lei ha appenatoccato. Nell'affrontare la parte riguardante il rapporto tra Klein e Winnicott,lei sottolinea anche alcuni passaggi delicati, sia a proposito del rapportoche intercorre tra analista e analizzando quando prosegue per motivi didatticie professionali, e al pericolo che questo possa in qualche modo influenzareanche negativamente lo sviluppo professionale dell' 'allievo' che entrain contrasto - per varie ragioni - con la teoria del 'maestro'. Da ciòsi evince che anche i grandi psicoanalisti  non sono immuni dallapossibilità di commettere errori (e una certa rivisitazione criticadella storiografia psicoanalitica ne sta fornendo diversi esempi relativiallo stesso Freud).   
Che consiglio suggerimenti potrebbe dare a coloro che magari intraprendono illungo training didattico, come si può riuscire mantenere un spiritocritico durante la fase di formazione? 

R.S.-B.:Mi ripropone un problema che mi ero già provato ad impostare inun mio libro precedente Sulle spalle di Freud. Anche in Colpacerco di non eluderlo. Per fornire una risposta che tenga debitamente inconsiderazione diverse delle variabili in gioco, affronto l'argomento inpunti diversi del saggio: per esempio: là dove discuto la tendenzadelle istituzioni a operare secondo logiche semplificate (il carrozzonealle fine deve pur andare!), che ho appena citato; là dove illustroun'altra tendenza, quella  ad aggregarsi a leader carismatici cheinconsciamente si temono, per via di quello che chiamo, forse un po' impropriamente,il "complesso di Giobbe"; ancora dove parlo di quel tipo di aggregazioniintorno a un modello "scientifico" che in realtà sono delle veree proprie combutte. 
Mi spiego:un terapeuta cronicamente depresso, magari in maniera non vistosa, potrebbenon affrontare con decisione alle radici il proprio nucleo di colpa e diambivalenza, ma preferire mantenerlo sotto la cenere. A questo tipo dianalista "indeciso", un gruppo di colleghi che ha abbracciato un modelloteorico che, senza mostrare vie d'uscita, faccia del lavorio senza finesul senso di colpa e sulla riparazione "matura" lo scopo ultimo dell'analisi,a questo tipo di analista questo modello potrebbe anche andar bene e, permantenere il proprio precario equilibrio, potrebbe adottarlo e anche difenderloin sede scientifica. 
Ma èpossibile fare un esempio nella direzione opposta: poniamo che un'analistasi difenda da una sua inesplorata depressione (inconsciamente teme di avvicinarsialla propria colpa rimossa) e che, per far questo, ricorra a difese maniacali; possiamo essere abbastanza certi che, nella sua pratica terapeutica, nonabbraccerà  facilmente una teoria che sostenga che la colpadeve essere portata alla luce e analizzata. Preferirà manipolarei suoi pazienti per poter così continuare a illudere se stesso.  
Io credoche l'apporto scientifico principale del mio saggio sia il tentativo -non sta a me dire quanto riuscito - di teorizzare "l'uscita dalla posizionedepressiva", cui la Klein stessa accenna, senza mai approdare peròa un modello teorico, come ho appena avuto modo di ricordare. Ebbene, inultima analisi anche questo mio contributo potrebbe essere consideratoun modo per cercare di spiegare come sia possibile aumentare la vigilanzasui preconcetti ideologici che pervadono i modelli scientifici. 
Quanto aciò che lei chiama la possibilità che anche i grandi psicoanalisti non siano immuni dal commettere errori, vorrei aggiungere che la mia posizionesu questa delicata materia è più o meno questa: fare erroriè un fatto che non si può eludere, non solo in psicoanalisi,ma anche in medicina, nella scienza tutta. Il cosiddetto progresso scientificopuò essere letto come il superamento di errori, di "colpe", delpassato. Ma questo è un fenomeno fisiologico, non patologico. Quindiaccusare di certe nefandezze Freud, come fece Paul Roazen e come si continuafare, significa in qualche modo idealizzarlo, farne un essere soprannaturale,per poi dall'altare gettarlo nella polvere. Invece, anche Freud era unsemplice essere umano o, se preferiamo, un genio con tutti i suoi limitiumani.  
L'ultimointerrogativo, che mi pone con tanta chiarezza, concerne i consigli o isuggerimenti che potrei dare a coloro che magari intraprendono il lungotraining didattico: come si può riuscire mantenere un spirito criticodurante la fase di formazione. Risponderò in maniera altrettantochiara: non ho consigli. Mi si potrebbe rispondere che tutto questo miolibro Colpa è un consiglio e un suggerimento anche per coloroche vogliono intraprendere una analisi o un training analitico. Io peròvorrei essere molto cauto. Durante la regressione analitica (che dopo Ferenczisappiamo essere uno "strumento" di lavoro) non viene meno lo spirito critico,come un tempo si pensava, manca piuttosto il potere contrattuale per "imporlo"al proprio analista. Visto che l'intervista è dedicata al mio libro,mi sento libero di tornare un'ultima volta a quanto ho scritto. L'ultimoparagrafo del capitolo sesto è intitolato Le critiche del paziente 
Herbert Rosenfelde tra coloro che non hanno dubbi che occorra considerare il contributodell'analista al successo ma anche all'insuccesso del trattamento. A questoproposito Rosenfeld cita, tra gli altri, l'analista americano Robert Langsche aveva fatto dell'accettazione delle critiche del paziente all'analistaun suo cavallo di battaglia. Il libro di Langs che Rosenfeld richiama portail titolo The Therapeutic Interaction, l'interazione terapeuticatra analista e paziente. Fondamentale per lui è la presa di coscienzache tra il terapeuta e il paziente si viene instaurando una spirale dicomunicazioni che interagiscono sia a livello cosciente che a livello inconscio.Questa spirale di comunicazioni è il cuore stesso del processo terapeutico,è il livello cui occorre sintonizzarsi per arrivare a curare. Iosono perfettamente d'accordo con Langs, con Rosenfeld e con quanti (nonsono molti) che sostengono l'importanza di questi aspetti della relazioneanalitica.  
Quando l'analistaopera una distorsione, vale a dire commette un errore, oppure faun intervento scorretto o a sproposito, normalmente il paziente rispondecon un commento, per così dire, annegato nel materiale che riferisceall'analista. Questo commento "in codice" può essere non realistico,ma può essere anche pertinente. La critica del paziente, se nonè realistica, aggiunge una nuova distorsione (inizio della spiralenegativa); non così se è il frutto di "una serie di percezioniinconsce valide". Il paziente può aver colto l'errore, la deviazione,e quindi criticare giustamente l'analista. Chiunque sia in grado di sintonizzarsisulla lunghezza d'onda di queste comunicazioni in codice dai pazienti,sa che esse avvengono. Molto più frequentemente di quanto non sipossa pensare, il paziente non solo collabora, ma insiste nel cercare dicorreggere il proprio analista. 
A partiredal momento in cui questa critica giusta viene accettata, uno straordinariocanale di comunicazione viene aperto e (paradossalmente?) l'analista sitrova a vivere in una dimensione di tranquillità d'animo prima impensabile.L'accettare la critica giusta cessa di essere il motivo di una ferita narcisisticao di senso di colpa, e progressivamente viene percepito come l'espressionedi una propria solidità interiore, solidità che, in genere,i pazienti, anche quelli gravi, non stentano a percepire, sia pure conambivalenza.  
 Questoè ciò che penso sulla base della mia esperienza. Quello chenon so è quante chance abbia una persona che inizia il suo training,o anche più semplicemente la sua analisi, di trovare subito unapersona in grado di fornirgli una risposta a queste giuste aspettative.A volte avviene, altre no. Quando la televisione argentina mi intervistòproprio su questo punto, ai tempi del Congresso internazionale di psicoanalisia Buenos Aires, io mi aspettai di sentirmi rispondere in maniera onestama vaga, invece mi sorpresi a dire che, se questa risposta uno non la trovanella prima analisi, può trovarla nella seconda, o nella terza.Tragico? Sì, siamo nella dimensione del tragico.  
D'altra parteguadagnare qualche margine in più di libertà personale, richiedea volte perseveranza. La psicoanalisi resta, per me, uno straordinario,per alcuni versi unico, strumento di emancipazione. Oggi aggiungerei chesi può contare anche sugli incontri, anche occasionali, e le esperienzeemancipanti che in una vita che non si arrende possiamo andare accumulando. Anche un analista che commette molti errori può aiutare (i pazientisono più collaborativi e "pazienti" di quanto spesso non si pensi),anche un terapeuta autoritario può creare occasioni di crescita.Non credo che si debba vedere il problema in termini drastici: o una opportunitàideale oppure niente. John Bailey ha scritto d'aver sentito questo miosaggio ragionevolmente ottimista e divertito, nonostante le analisi spessoimpietose. Se questo è vero, come mi auguro, sono riuscito nel miointento, altrimenti farò attenzione alle critiche che mi verrannomosse. 


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