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Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah, UTET Libreria, Torino 2005

Vol. I — La crisi dell’Europa e lo sterminio degli ebrei, pp. XVII+1188

Vol. II — La memoria del XX secolo, pp. 932

(i due volumi in cofanetto Euro 95 — ISBN 88-02-07269-8)

[ Quest’opera di epocale importanza — che tanta fortuna ha conosciuto fuori dai nostri confini nazionali — non è stata ancora intercettata da un numero sufficientemente ampio di lettori italiani. Perciò riproponiamo nella nostra rubrica alcune pagine di carattere introduttivo che forniscono ai lettori di POL.it un’immagine complessiva di questa fondamentale e insostituibile Storia della Shoah. Abbiamo eliminato le note, per rendere più agile ed essenziale il messaggio ]

Vol. I, Parte Prima

Introduzione

In questo inizio del XXI secolo, la Shoah appare come un fenomeno storico complesso nel quale si coagulano accadimenti e rappresentazioni del passato, proiezioni della memoria e inquietudini del presente. La parola Shoah condensa diverse temporalità che tendono inevitabilmente a sovrapporsi nella nostra coscienza storica. Vi è la temporalità dell’evento vissuto come trauma: un’improvvisa e fulminea rottura della storia, nel cuore della seconda guerra mondiale, che spezza la continuità di un passato segnato dall’Emancipazione, dall’integrazione socio-economica e dall’assimilazione culturale degli ebrei in Europa. Una rottura che sembra polverizzare i paradigmi di una storiografia "strutturalista" fondata sull’idea di una sedimentazione cumulativa di strati della civiltà (territorio, economia, cultura, mentalità, politica e forme istituzionali) rispetto ai quali le contingenze evenemenziali potrebbero quasi apparire aneddotiche e superficiali (l’effimera "schiuma" della storia secondo la celebre definizione di Fernand Braudel). Non vi è dubbio che l’evento traumatico della Shoah, ormai riconosciuto come spartiacque del mondo moderno, rimette in discussione questa visione della storia. Vi è poi la temporalità della memoria, costruita attraverso un itinerario tortuoso e complesso, fatto di silenzi e rimozioni seguiti da bruschi risvegli, sofferte anamnesi collettive e accese controversie che hanno ampiamente travalicato i confini della storiografia. L’"ossessione commemorativa" di questi ultimi anni rivela la posizione centrale ormai acquisita dall’Olocausto nelle nostre rappresentazioni del passato (di cui questa stessa opera è, a suo modo, un riflesso). Vi è infine la temporalità del processo storico che precede l’evento, costruendo e accumulando, attraverso tappe e svolte che si snodano lungo un secolo, gli elementi che la guerra permetterà di coagulare nello sterminio degli ebrei d’Europa, momento singolare di una crisi più ampia durante la quale l’intero continente rimane sommerso da un’ondata di violenza. A questo processo che "prepara" l’evento inscrivendolo in alcune tendenze di fondo della storia europea – la "lunga durata" braudeliana può qui essere recuperata – è dedicata la prima parte di questo volume della Storia della Shoah, mentre la seconda sarà consacrata all’evento.

Il processo che "prepara" l’evento: le virgolette che accompagnano il verbo di questa frase non sono affatto superflue. In altre parole, questo processo non va inteso in senso teleologico. Il lettore troverà in queste pagine ampia materia di riflessione sulle diverse "cause" della Shoah, ma nessuna di queste potrà essere interpretata in senso deterministico, facendo così dell’evento una conseguenza meccanica, fatale e ineluttabile. La Shoah si inscrive in una dialettica storica in cui, pur risultando vincolato all’insieme delle sue premesse, l’evento possiede la sua autonomia e si configura come fenomeno specifico. Benché valida in larga misura per tutti gli accadimenti del passato, questa messa a punto metodologica è indispensabile nel caso dello sterminio degli ebrei, che prende forma come fenomeno inatteso e sorprendente, fulminante e, per i contemporanei, incomprensibile. Nessuno poteva prevedere, negli anni Trenta, l’esito di una nuova guerra mondiale, ma tutti gli osservatori della scena internazionale riconoscevano la possibilità di un conflitto, allo stesso modo in cui, dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, la Restaurazione costituiva uno degli sbocchi eventuali (e ricercati) della crisi europea, o ancora, a partire dal 1848, l’unificazione italiana sotto l’egida della monarchia piemontese e, dopo Sadova, l’unificazione tedesca sotto l’egemonia prussiana, diventavano delle ipotesi concrete. Difficilmente si potrebbe dire lo stesso per la Shoah, e non solo per la miopia dei contemporanei. Detto in altri termini, essa non era fatalmente implicita nella traiettoria secolare dell’antisemitismo, né nelle convulsioni dell’Europa emersa dalla Grande guerra e neppure nel progetto del nazismo arrivato al potere in Germania nel 1933, benché l’antisemitismo, la guerra e il nazismo ne siano state le indispensabili premesse. Né entità metafisica (come ama definirla un’iperbole retorica oggi diffusa nei media, non esente da derive oscurantiste) né catastrofe annunciata come gli uragani di cui i meteorologi studiano la formazione e lo svolgimento, mettendo in guardia autorità e popolazioni civili, la Shoah prende forma nel contesto della seconda guerra mondiale. Essa nasce da un intreccio complesso di radicalizzazione ideologica, pianificazione militare, innovazione teconologica e improvvisazione strategica nel quale le pulsioni sterminatrici legate a una visione del mondo si fondono a necessità e considerazioni di altra natura, sfociando in una singolare combinazione di razionalità amministrativa e irrazionalità economico-militare. Studiare il processo che "prepara" la Shoah significa quindi, seguendone la formazione e lo sviluppo, individuare le diverse componenti che convergono e si uniscono nell’evento, reso possibile da una costellazione storica del tutto eccezionale. Parafrasando Hannah Arendt, le cui osservazioni meriterebbero di essere più meditate di quanto facciano gli storici abitualmente, potremmo dire che le "origini" della Shoah si configurano a posteriori; esse nascono dall’evento attraverso una ricognizione retrospettiva che ne ricostituisce le premesse, ma non lo contengono come un frutto che naturalmente viene a maturazione. Questo approccio non rimuove ovviamente le aporie della Shoah, insediata al centro delle nostre rappresentazioni del passato come trauma ineludibile e tuttavia privo di senso, impossibile a catalogare come "tappa" della civiltà, alla stregua di altre svolte epocali come le guerre e le rivoluzioni, ma riconoscibile soltanto come rottura di civiltà: la Zivilisationsbruch di cui parla Dan Diner nel suo saggio che apre questo volume. I problemi affrontati dalla sua riflessione attraversano, come un filo rosso, l’insieme dell’opera. Già Primo Levi aveva definito Auschwitz un "buco nero", pur avendo dedicato tutta una vita al tentativo di esplorarlo e "rischiararlo" dall’interno, in nome di una visione della storia (e della sua madre e ancella, la memoria) fondata sul principio – di cui rivendicava con forza la matrice illuministica – della "salvazione del capire". In altre parole, i tentativi di storicizzazione della Shoah proposti in questo volume non ne rimuovono le aporie legate al suo carattere di rottura della storia e della civiltà, ma impediscono di postularla come evento ineffabile e quasi normativamente incomprensibile (secondo una procedura che interiorizza il nomos del campo di sterminio riassunto dalla formula nazista Hier ist kein Warum).

Il tentativo di storicizzazione che si dipana attraverso i contributi di questo primo volume considera la Shoah come un processo, ma non come un processo endogeno, cumulativo e autosufficiente, secondo lo schema elaborato da Raul Hilberg ne La distruzione degli ebrei d’Europa. In quest’opera fondamentale e ormai classica, lo storico americano ricostruisce le tappe del genocidio degli ebrei: la loro definizione razziale codificata dalle leggi di Norimberga (1935), la loro espropriazione messa in atto attraverso le misure di "arianizzazione" dell’economia (1938), la loro concentrazione avviata allo scoppio della guerra con la creazione dei ghetti, infine il loro sterminio a partire dall’autunno del 1941. Quest’ultimo, che rompe con la politica di espulsione perseguita dalla Germania nazista fino all’inizio della guerra, è messo in atto attraverso in due momenti distinti: prima una vasta campagna di annientamento condotta sul fronte orientale dalle unità speciali delle SS (Einsatzgruppen), spalleggiate da polizia ed esercito, poi la deportazione verso campi di sterminio creati appositamente per gli ebrei (due dei quali, Maydanek e Auschwitz, incorporati a un più vasto sistema di campi di concentramento in cui sono deportati anche resistenti, prigionieri sovietici e zingari). Il modello interpretativo proposto da Hilberg è indispensabile per comprendere la struttura e la dinamica della Shoah, ma prescinde largamente dal contesto storico generale, in particolare la guerra e gli obiettivi che in essa persegue il regime nazista, i quali sono invece al centro del processo analizzato in questa Storia della Shoah. Non solo l’Olocausto non può essere ridotto a un contronto unilaterale tra persecutori e vittime, lasciando fuori gli "spettatori" (i bystanders presi in esame dallo stesso Hilberg in un volume successivo, più attento alla contestualizzazione del genocidio), ma persecutori e vittime non possono essere compresi se non inseriti in un quadro storico globale, di cui vanno ricostruite le premesse e nel quale va inscritta la traiettoria di entrambi. Evitare la prospettiva di un confronto unilaterale tra persecutori e vittime significa evitare gli scogli simmetrici di un approccio germanocentrico o ebreocentrico. Persecutori e vittime, nazisti ed ebrei, sono ovviamente gli attori fondamentali di questa tragedia e ad essi è rivolta in questo volume tutta l’attenzione necessaria, ma la Shoah non è interpretata come l’epilogo di una storia esclusivamente tedesca (nella forma di una patologia nazionale o di un Sonderweg che avrebbe scisso la storia della Germania da quella del mondo occidentale) né come sbocco ineluttabile di un antisemitismo secolare che avrebbe così messo in luce una sorta di separazione ontologica tra ebrei e gentili. Senza nulla togliere alle specificità del nazismo (i contributi dei volumi successivi discuteranno la questione complessa del suo rapporto con i fascismi europei) e del suo antisemitismo, questo volume affronta la Shoah come specchio e al contempo espressione parossistica di una crisi europea che nasce dalla Grande guerra e si approfondisce negli anni seguenti fino a culminare in un nuovo conflitto. Di questa crisi europea, Marcello Flores delinea i contorni generali, sottolineando l’intreccio esplosivo creato dal crollo di un vecchio ordine liberale inegualmente consolidato nei diversi paesi – uno dei tratti marcanti della "pace dei cent’anni" descritta da Karl Polanyi –, dalle convulsioni politiche che impediscono la costruzione di un nuovo equilibrio continentale, dalla crisi economica che lo mina ulteriormente, dalla nuova cultura della violenza che emerge da un continente devastato e "brutalizzato" dalla guerra totale. Emilio Gentile riassume questo mutamento profondo in seno all’immaginario europeo negli anni tra le due guerre attraverso una metafora: il passaggio dall’"Apocalisse della modernità", già annunciata, temuta o invocata fin dalla fine dell’Ottocento, all’"Apocalisse totalitaria" che prende forma dopo il conflitto mondiale, gettando le basi di regimi che, a partire da prospettive diverse, vogliono rigenerare il mondo e la civiltà, forgiare un "uomo nuovo" e, nel caso del nazismo, rimodellare biologicamente la carta dell’Europa.

Vediamo quindi quali sono le diverse premesse della Shoah che sfoceranno durante la guerra in una sola tendenza sterminatrice. Di natura sia materiale che culturale e ideologica, esse possono essere enumerate secondo un ordine argomentativo né gerarchico né strettamente cronologico. La prima, trattandosi del fattore scatenante della crisi europea, è la guerra totale. Il nazismo è un prodotto della prima guerra mondiale, la vera esperienza fondatrice del Novecento. In essa vanno ricercate le radici dello sterminio industriale, della morte anonima di massa e della riorganizzazione autoritaria delle società europee negli anni tra le due guerre. I genocidi del XX secolo nascono da questa fusione tra una nuova soglia della violenza varcata dalla guerra meccanica, industriale, e la radicalizzazione di antichi odî nazionalistici che prendono forme nuove nel contesto della mobilitazione patriottica, della crociata contro il nemico e i suoi sostenitori "interni". Nel suo saggio, Jay Winter mostra che questo binomio infernale di guerra totale e genocidio si delinea già durante la prima guerra mondiale, facendo dello sterminio degli armeni, benché in forme più primitive, una sorta di archetipo della Shoah. Esso viene messo in atto attraverso una campagna di deportazione verso l’Anatolia profonda, accompagnata dalla creazione di improvvisati campi di concentramento. La guerra costituisce un momento decisivo per la diffusione del sistema concentrazionario in Europa, dopo i primi esperimenti a Cuba, nel 1898, e nel Sudafrica, due anni dopo, durante la guerra anglo-boera. Come mette in luce Annette Becker, a partire dal 1914 non ne sono più vittime soltanto i prigionieri di guerra, perché i campi di concentramento sono rapidamente estesi a settori delle popolazioni civili che vengono così sottomesse a forme di umiliazione collettiva e di lavoro forzato.

Il fascismo sorge dalle guerre civili che, fra il 1918 e il 1923, lacerano diversi paesi europei, dalla Russia alla Germania, dall’Ungheria all’Italia. Sotto questo aspetto, esso appare indubbiamente come un erede della contro-rivoluzione che aveva accompagnato il "lungo" Ottocento, dalla coalizione antigiacobina del 1792 ai massacri della Comune. Ma la controrivoluzione del XX secolo non è più conservatrice né puramente "reazionaria"; essa si configura piuttosto come una sorta di "rivoluzione contro la rivoluzione". I fascismi non guardano più al passato ma vogliono edificare un mondo nuovo. I loro capi non provengono dalle élites tradizionali – con le quali trovano un accordo soltanto al momento di accedere al potere – ma dalle scorie di un ordine sociale e politico in decomposizione. Sono "plebei", demagoghi e nazionalisti che hanno rinnegato la sinistra socialista, come Mussolini, o elementi declassati come Hitler che hanno scoperto una vocazione politica di tribuni e agitatori nel clima incandescente della sconfitta tedesca. Si rivolgono alle masse, forgiando una comunità carismatica che si mobilita attorno ai miti nazionalisti e si nutre di promesse millenaristiche. L’esperienza della guerra spinge i nazisti ad amalgamare alcuni valori ereditati dal contro-illuminismo (il rifiuto dei principi del 1789) non solo con il razzismo scientista e biologico, ma anche con il culto della tecnica, dell’industria e della forza meccanica. Nei loro contributi, Jeffrey Herf e Anson Rabinbach sottolineano la miscela sui generis di romanticismo anticapitalistico e di razionalismo tecnocratico che caratterizza il nazismo come una forma di "modernismo reazionario".

Altra premessa essenziale del genocidio, di natura al contempo ideologica, sociale e politica, è ovviamente l’antisemitismo. Il nazismo emerge dal magma ideologico-politico del nazionalismo tedesco, una costellazione nella quale si mescolano, alla vigilia della Grande guerra, un insieme di correnti multiformi: l’antropologia razziale ossessionata dall’idea di un dominio "ariano", il darwinismo sociale fondato sul concetto di "selezione naturale" dei più forti e l’eugenismo, le cui correnti più radicali inseguono il progetto utopico di fabbricare artificialmente una specie superiore. Queste diverse sensibilità coabitano in seno al nazionalismo völkisch, la matrice comune dell’estrema destra tedesca, dalla quale si stacca nel dopoguerra il nazionalsocialismo. Un certo "pluralismo" – Stefan Breuer parla in proposito di "aggregato" – continuerà del resto ad esprimersi in seno al regime nazista, nel quale Hitler svolge un ruolo di cemento unificante, grazie alla sua autorità carismatica, più che di custode dell’ortodossia ideologica. I teorici di un mitico Männerbund del futuro (Alfred Rosenberg), i fautori di una Volksgemeinschaft modellata da un’élite "germano-nordica" (Heinrich Himmler) e i difensori di una nuova aristocrazia agraria del sangue e del suolo (Walther Darré) hanno bisogno di Hitler, riconosciuto come capo incontestato dai nazionalisti religiosi a quelli anticlericali, dai romantici ai modernisti, dagli esteti nazionalisti ai "rivoluzionari conservatori". Anson Rabinbach coglie questo aspetto, sottolineando che il pensiero völkisch di Hitler non aveva ambizioni filosofiche né scientifiche ma si presentava piuttosto come "un atto di fede politico", facendo leva sul "sentire" (Gesinnung) più che sui dogmi dell’ideologia. In altri termini, il nazismo prendeva i tratti di una "religione politica", vale a dire una dottrina secolarizzata, se non addirittura pagana, che suscitava tuttavia un’adesione di tipo religioso, fondata sulla fede anziché sulla ragione. Queste interpretazioni fanno tesoro delle intuizioni di George Mosse – uno dei primi ad aver dedicato attenzione alla parola e non solo alla lettera del nazismo – di cui propongono un brillante approfondimento.

Il saggio di David Bidussa e Simon Levis Sullam mette a fuoco la nascita dell’antisemitismo moderno. Essi ne ripercorrono le tappe fino alla sua metamorfosi, negli anni tra le guerre, in una nuova forma radicale di odio antiebraico di cui, sulla scorta di Saul Friedländer e Philippe Burrin, sottolineano il carattere "redentore" o "apocalittico". L’antisemitismo ottocentesco post-emancipatorio, che accompagna l’avvento del capitalismo e si sovrappone alla vecchia giudeofobia di matrice religiosa, si dispiega come una sorta di "codice culturale" (il concetto appartiene originariamente a Clifford Geertz), permettendo di definire negativamente un’identità nazionale fragile e incerta, attraverso l’opposizione a un archetipo ebraico costruito come deposito di tutti i valori antinazionali. La sua dimensione è europea, precisano Bidussa e Levis Sullam, ricordando che la prima sintesi di antigiudaismo cristiano, antisemitismo socio-economico e razzismo scientista trova una formulazione compiuta in Francia, alla fine del XIX secolo, grazie all’opera di Édouard Drumont (per conoscere in seguito un’ampia diffusione sulla scia dell’Affaire Dreyfus). Ma è in Germania, nell’immediato dopoguerra, che appare l’antisemitismo "redentore" nazista, il quale concepisce la lotta contro gli ebrei come una autentica crociata contro un nemico nascosto in seno alla comunità nazionale, ostacolo permanente ai suoi progetti di riscatto. La distruzione di questo nemico assume i tratti di una lotta di emancipazione nazionale e razziale. Risultato di un lungo percorso che si snoda da Richard Wagner a Wilhelm Marr, da Houston Stewart Chamberlain ai padri spirituali del nazismo (Dietrich Eckart, Theodor Fritsch e Arthur Dinter), questa variante radicale di antisemitismo non ha equivalenti in Europa, ma gli ingredienti che ne sono alla base non sono un monopolio esclusivamente tedesco. L’antropologia razziale è ben rappresentata nei paesi latini (Cesare Lombroso, Georges Vacher de Lapouge), il darwinismo sociale è nato in Gran Bretagna (Alfred Russell Wallace), l’eugenismo ha trovato ampia diffusione negli Stati Uniti (Francis Galton), l’antisemitismo sembra, alla fine dell’Ottocento, una deprecabile e arcaica pratica russa e, almeno sul piano letterario, una specialità soprattutto francese (Édouard Drumont, Maurice Barrès, Charles Maurras, Léon Bloy).

Il nazionalismo esacerbato e il razzismo biologico nazisti sono inoltre organicamente legati a una cultura e a una pratica dell’imperialismo che da secoli impregnano l’Europa e assumono forme nuove e moderne, tipiche della società di masse, nel corso del XIX secolo. In questo campo, lungi dall’occupare una posizione centrale, la Germania appariva come un parvenu, modesto allievo di Inghilterra e Francia, le due principali potenze coloniali. L’idea di una supremazia naturale dei bianchi, con il suo corollario della "missione civilizzatrice" dell’Occidente in Africa e in Asia; la visione del mondo extraeuropeo come un immenso spazio colonizzabile; la concezione delle guerre coloniali come conflitti nei quali il nemico non è un esercito ma la popolazione civile dei paesi da conquistare; la teoria dell’"estinzione delle razze inferiori" come conseguenza ineluttabile della marcia del Progresso: ecco una serie di luoghi comuni della cultura europea dell’Ottocento che ritroviamo al cuore dell’ideologia e della politica naziste. Il progetto hitleriano di conquista dello "spazio vitale" (Lebensraum) per la razza tedesca in Europa centro-orientale, nell’immenso mondo slavo, non è altro che la trasposizione nel vecchio mondo di un modello di dominio coloniale già sperimentato da oltre un secolo in Asia e in Africa. Hitler non nascondeva del resto la sua ammirazione per l’impero britannico: il suo sogno era di trasformare il mondo slavo in una sorta di "India germanica". Questo progetto, ereditato dal pangermanismo di fine ottocento e teorizzato da geografi, demografi e specialisti di diritto internazionale, sarà "naturalmente" innestato sul tronco del nazionalismo völkisch dopo la conferenza di Versailles che priva la Germania del suo impero coloniale, facendo così della Mitteleuropa un mito sostitutivo della Mittelafrika, nel quale convergono pulsioni imperiali e chimere romantiche di ritorno alla natura. Preoccupato di evitare assimilazioni abusive e letture schematiche, Nicola Labanca introduce le necessarie distinzioni tra colonialismo e nazismo, ricordando la complessità del primo, le cui pratiche non si riducevano alla distruzione e allo sterminio, e soprattutto sottolineando il carattere "preterintenzionale" dei genocidi coloniali, sottoprodotto di una politica la cui finalità non era lo sterminio ma la conquista di territori e l’appropriazione di risorse naturali ed umane. Da questo punto di vista, la violenza coloniale costituisce un antecedente della conquista nazista del Lebensraum – con il suo corteo di vittime slave, dai polacchi ai diversi popoli sovietici – ma non della Shoah. Tuttavia, come suggerisce Isabel V. Hull, il genocidio degli herero ad opera dell’esercito guglielmino, nell’Africa sud-occidentale tedesca del 1904, si configura come una vera e propria "Soluzione finale" che trascende la logica di una violenza strumentale. Il nazismo eredita dall’imperialismo guglielmino un linguaggio teso a disumanizzare il nemico (ridotto a Untermenschentum) e una pratica di annientamento (il famigerato Vernichtungsbefehl del generale von Trotha) che conferiscono a questo passato coloniale un carattere paradigmatico. Non si tratta affatto di occultare le differenze che lo separano dalla violenza nazista ma di cogliervi una delle sue molteplici matrici.

Nella visione del mondo hitleriana, la conquista dello "spazio vitale" in Europa orientale è indissociabile dalla distruzione dell’Unione sovietica di cui gli ebrei sarebbero il gruppo dirigente. La colonizzazione tedesca del mondo slavo – visto come la coalizione di una massa "subumana" sottoposta al controllo di un cervello semita – coincide quindi con l’annientamento del comunismo e lo sterminio degli ebrei. Per questo la guerra contro l’URSS è concepita come una guerra coloniale trasferita in Europa, nel cuore del Novecento, condotta con i mezzi di distruzione di una grande potenza industriale, tecnologica e militare. Razza nemica, "bacillo" bolscevico ed élite statale sovietica convergono in un solo nemico contro il quale il nazismo decide di scatenare un’offensiva di dimensioni apocalittiche. La fenomenologia della Shoah rivela del resto la sua stretta connessione con la politica globale del nazismo. Basti pensare ai campi di sterminio, che nascono dal tronco del sistema concentrazionario, di cui sono una derivazione, per diventare in seguito un dispositivo autonomo. O ancora alle Einsatzgruppen, le unità speciali delle SS che accompagnano l’avanzata della Wehrmacht sul territorio sovietico, alle quali è stata affidata una duplice missione: eliminare gli ebrei e i commissari politici dell’Armata rossa. Dipanando i diversi fili che collegano il nazismo alla cultura del razzismo europeo, Michele Nani coglie nel "razzismo di classe" – ereditato anch’esso dall’Ottocento, quando il massacro dei comunardi francesi veniva giustificato come misura di profilassi antropologica e sociale, poi risorto durante le guerre civili degli anni 1918-1921, quando in Germania, in Russia, in Ungheria e nei Paesi baltici prendeva forma il mito del "giudeobolscevismo" – un’altra matrice della sua violenza. Non la sua matrice esclusiva – così si rischierebbe di cadere nell’interpretazione monocausale di Ernst Nolte che riduce l’antisemitismo hitleriano a una semplice derivazione dell’anticomunismo – ma sicuramente una delle sue ragioni d’essere e una chiave indispensabile per comprendere l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania.

Nel corso della guerra, il nazismo trasforma lo sterminio degli ebrei in un obiettivo a se stante, per il quale vengono creati organi specifici di annientamento e di cui viene progressivamente allargato l’orizzonte su scala europea. Decisa nel fuoco della guerra sul fronte orientale, la "Soluzione finale" tocca infine tutti gli ebrei, dalla Francia all’Olanda, dall’Italia ai Balcani. Se la Shoah si è rapidamente estesa su tutta l’Europa sottoposta all’occupazione tedesca, ciò è potuto avvenire non soltanto grazie al sostegno dei movimenti e dei regimi collaborazionisti (la cui analisi sarà affrontata nel secondo volume dell’opera) ma anche in virtù di legislazioni discriminatorie o apertamente antisemite largamente diffuse nel corso degli anni Trenta, ben prima dello scoppio della guerra, non solo nella Germania nazista, ma anche in Italia, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Slovacchia. Nella stessa Francia, lo "statut des juifs" dell’ottobre 1940 è preceduto, sul finire degli anni Trenta, da una legislazione xenofoba che predispone l’opinione pubblica ad accogliere le leggi antirepubblicane di Vichy (e il maresciallo Pétain riceve i pieni poteri dai resti di un’Assemblea nazionale eletta sotto la Terza Repubblica). Marie-Anne Matard-Bonucci focalizza per questo l’attenzione sulla conferenza di Evian del 1938 dedicata al problema dei profughi, facendone uno specchio del carattere drammatico assunto dalla "questione ebraica" nel vecchio mondo. Già prima della conflagrazione mondiale, gli ebrei sono ridotti in molti paesi a una massa di "paria", non solo senza status sociale o simbolico ma soprattutto senza Stato, ossia senza protezione giuridica, una massa di "paria" fragile e in balia delle nubi minacciose che si stanno addensando all’orizzonte. Anche questa, senza esserne una causa, si configura a posteriori come una premessa della "Soluzione finale". Ne Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt lo riconosceva lucidamente indicando che "prima di mettere in funzione le camere a gas, i nazisti avevano studiato attentamente la situazione e scoperto soddisfatti che nessun paese avrebbe difeso quella gente. Il fatto è che una situazione di completa privazione dei diritti era stata creata prima che il diritto alla vita venisse messo in discussione". In fondo, la conferenza di Evian non faceva che prendere atto di una degradazione progressiva della condizione ebraica il cui punto di avvio, in larga parte d'Europa, era stato il passaggio dagli imperi multinazionali dell’Ottocento alla nuova architettura politico-istituzionale disegnata a Versailles, fatta di improbabili Stati-nazione eterogenei sul piano etnico, culturale, linguistico e religioso. Come sottolinea Hans Lemberg, gli ebrei risultavano spesso un corpo estraneo in seno alle comunità nazionali emerse da questa ridefinizione delle frontiere, diventando così la "minoranza per eccellenza". Si potrebbe qui ricordare, a complemento della sua analisi, la diagnosi di István Bibó, che vedeva nella nascita dei piccoli Stati centro-europei la fonte di un’"isteria politica collettiva" da cui avevano tratto alimento la xenofobia, il nazionalismo e l’antisemitismo.

Se tutte queste premesse prendono dei contorni chiari a uno sguardo retrospettivo, quasi nessuno, probabilmente neppure i futuri responsabili della "Soluzione finale", aveva piena coscienza del potenziale di violenza che si andava accumulando e che la guerra avrebbe scatenato contro questa minoranza indifesa. Tracciando una vasta panoramica delle comunità ebraiche in Europa alla fine degli anni Trenta, Michael Brenner ne mette in luce il carattere estremamente variegato, che va dagli ebrei assimilati (ma spesso discriminati e privati del loro statuto di cittadini) dei paesi occidentali alle minoranze nazionali di lingua yiddish dei paesi centro-orientali. Al fine di evitare una lettura anacronistica del passato, Brenner introduce una precisazione importante: nel corso degli anni Trenta, il nazismo appariva a tutti come un simbolo di persecuzione, ma ben pochi si sentivano minacciati di sterminio, e certo nessuno poteva pensare a uno sterminio su scala europea, dalla Grecia alla Norvegia, dai Pirenei al Caucaso. In fondo, sarà il nazismo a fare degli ebrei una comunità di destino, ridisegnandone l’identità.

La "genealogia" della Shoah che emerge dai contributi di questo volume non scioglie nodi interpretativi destinati a rimanere aperti ancora a lungo, dai quali sorgeranno in futuro nuove controversie storiografiche. Essi fissano tuttavia l’orizzonte attuale della ricerca e della riflessione. Ne emerge, mi sembra, un’acquisizione: la Shoah nasce dalle viscere sociali e culturali dell’Europa, non è né un incidente di percorso né una "malattia" e neppure il risultato dell’irruzione di forze "irrazionali" nel cuore della civiltà. Figlia dell’Europa, la Shoah ne rimette in discussione la storia e la civiltà. In questo senso, essa continua a interrogare il nostro presente.

Enzo Traverso

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