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Bernd Nissen (a cura di), Ipocondria. Lo stato attuale della ricerca nel campo psicoanalitico, edizione italiana a cura di Giorgio M. Ferlini, Giampaolo Storti e Christine Zimmerling, traduzione dal tedesco di Christine Zimmerling [collana Aretusa — La psicoanalisi nel campo sociale, diretta da G.M. Ferlini e G.P. Storti e coordinata da C. Zimmerling], Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna (Verona), novembre 2008, pp. 355

 

[ Bernd Nissen, Dr. phil., Dipl. Psych., socio ordinario e didatta della Associazione Tedesca di Psicoanalisi (DPV) e della Associazione Internazionale di Psicoanalisi (IPV), è incaricato di ricerca e componente della Commissione per la Ricerca della Associazione Tedesca di Psicoanalisi; è membro e docente del Karl-Abraham-Institut a Berlino. Dal 1999 è anche conduttore del Gruppo di Lavoro della Associazione Tedesca di Psicoanalisi dedicato al tema di Ipocondria. E’ Autore di diversi saggi sull’ipocondria e sulle dinamiche quasi-autistiche. Ha curata, oltre al testo sull’Ipocondria, i volumi Autistische Phänomene in psychoanalytischen Behandlungen, Psychosozial-Verlag, Gießen 2006 (it.: Fenomeni autistici nei trattamenti psicoanalitici); Zur Entstehung des Seelischen (it.: L’alba della vita psichica). E’ inoltre Autore di diversi saggi, ricordiamo tra questi: Hypochondria: a tentative approach; On the determination of autistoid organisation in non-autistic adults che sono apparsi nell’International Journal of Psychoanalysis ]

Indice

Introduzione all’edizione italiana

Giorgio M. Ferlini

Prefazione all’edizione italiana

Giampaolo Storti

Prefazione all’edizione tedesca

Bernd Nissen

Panorama storico

Teorie psicoanalitiche sull’ipocondria

Christian Röder, Gerd Overbeck, Thomas Müller

Considerazioni metateoretiche e clinico-teoretiche

La funzione di rappresentazione e il ruolo dell’oggetto nell’ipocondria

Joachim Küchenhoff

Il principio ipocondriaco

Sulla psicodinamica dell’ipocondria e dei fenomeni analoghi

Mathias Hirsch

Ipocondria e somatizzazione nei bambini e nei giovani

Dieter Bürgin, Barbara Steck, Alain Di Gallo, Heiner Meng

Alcune riflessioni sull’ipocondria

Clifford Yorke

L’ipocondria come patologia dell’interpretazione

Notazioni tecniche

Simona Argentieri Bondi

Di cosa soffre l’ipocondriaco?

Una teoria delle relazioni oggettuali dell’ipocondria

Ute Rupprecht-Schampera

Un possibile approccio all’ipocondria

Bernd Nissen

La dinamica sintomatica dei disturbi ipocondriaci dopo un trauma psichico

Mechthilde Kütemeyer

"Chiudi il dialogo e suona la melodia!" L’ipocondria come ritiro psichico

Giovanna Rita Di Ceglie

Casi clinici

Difesa isterica versus difesa ipocondriaca — un’osservazione

dal punto di vista economico

Stefanie Schunck

Un contributo alla comprensione psicoanalitica dell’ipocondria

Helmut Riedell-Heger

Sulla trattabilità dell’ipocondria monosintomatica

Bernd Nissen

Sulla genesi e sulla struttura di un caso di ipocondria a sfondo psicotico

Thomas Müller

Sulla terapia familiare psicoanalitica dell’ipocondria da AIDS

Hans-Jürgen Wirth

Prefazione all’edizione italiana

Giampaolo Storti

[Pubblichiamo qui in anteprima le due prefazioni del libro. Aggiungiamo ad esse la nota di premessa che G. Storti ha scritto per POL.it: "Sono venuto a conoscenza della realizzazione di questo volume grazie al fatto che la Dr.ssa Christine Zimmerling è la traduttrice dell’unico contributo in lingua italiana dell’edizione tedesca originale. Grazie a questa iniziativa e grazie all’interesse del Dr. Hans-Jürgen Wirth, direttore editoriale dello Psychosozial-Verlag, del Dr. Bernd Nissen, curatore del volume, della fattiva collaborazione dell’editore Cierre nella persona del Dr. Maurizio Miele e della Signora Cristina Cristante, si è potuto realizzare una edizione in lingua italiana che appare come primo volume della sezione Psicoterapia della collana Aretusa - La psicoanalisi nel campo sociale.

Come il lettore vedrà, i contenuti clinici e la discussione teorica che emergono da questo testo sono assai rilevanti e interessano non solo il campo della Clinica e della Psicoterapia ma anche altri vasti campi delle Scienze Umane, dalla Sociologia all’Antropologia, alla Semiotica"]

 

 

"E costruire trappole per acchiappare l’anima

fuoriuscita dal corpo sveglio e sottratta alla pazzia

riportarla alla sua culla viva

prima che il vuoto ricominci a bollire e la divori."

(Jolanda Insana)

Il libro che il lettore ha di fronte è il frutto del lavoro di ricerca del Gruppo "Isteria e Ipocondria" dell’Associazione Tedesca di Psicoanalisi (DPV), coordinato dal Dr. Bernd Nissen. Attorno a questo gruppo di ricerca altri psicoanalisti e psicoterapeuti sono stati invitati a dare il loro contributo clinico, critico e riflessivo.

L’ipocondria, l’anoressia nervosa, la bulimia, la depressione e la tossicodipendenza, vengono accomunate dalla definizione di "patologia della dipendenza". Le persone affette da queste problematiche implicano il loro corpo come luogo di espressione di disagio e di posta in gioco di relazioni di potere. Essi quindi colgono nella loro sofferenza e psicopatologia alcuni nessi storici e culturali:

  1. l’insistenza moderna dell’apparire corporeo come principale veicolo di comunicazione, manipolazione e potere, particolarmente sul versante dell’efficienza e della prestanza;
  2. l’utilizzo di particolari sostanze e/o comportamenti a rischio come additivi delle loro performances edonistiche, agonistiche, sessuali, consumiste e ideative;
  3. il gioco nei confronti dei differenti spettatori del rito del pericolo mortale e della vertigine;
  4. l’evocazione di particolari fantasmi e immagini che sono localizzabili nella cesura della modernità: l’inedia, la deformità, il godimento solitario, l’evitamento, la melanconia, il ripiegamento.

In questa prefazione vorremo articolare i differenti aspetti psicoanalitici, psicoterapeutici e socio-sistemici con cui si confronta chi si avvicina alla tematica ipocondriaca, incontrandola sia sul versante della cura, sia sul versante della riflessione culturale, aspetti entrambi necessari alla sua comprensione in quanto l’ipocondria usa proprio il corpo come veicolo di espressione di angoscia e metafora di un acuto disagio relazionale.

 

 

Corpo sociale e corpo politico

L’uso della metafora corporea fa parte della rappresentazione dello Stato moderno, assolutista e fondato sul territorio-nazione, da Hobbes a tutt’oggi. La sedizione, la rivolta, perciò viene rappresentata tramite il divenire autonomo di un arto, di un organo, di una parte, che in questo modo rompe l’armonia che si vuole costituita dal patto con il sovrano. La raffigurazione hobbesiana dello Stato è un grande corpo umano fatto di tanti piccoli uomini. Nel cinquecento e nel seicento europeo la raffigurazione diffusa del corpo umano oscilla dagli omuncoli hobbesiani alle inquietanti composizioni del barocco Arcimboldo, in cui il corpo è conservato come forma, ma invece il contenuto è composto di oggetti bizzarri — frutta, verdura, attrezzature militari etc.

Con l’avvento del liberalismo ottocentesco lo Stato viene tripartito in funzioni e poteri: esecutivo, legislativo, giudiziario, ma viene sempre presupposta un’armonia tra questi poteri. L’eventuale conflitto viene risolto o tramite l’appello alla Corte costituzionale oppure il ricorso allo stato di emergenza, in cui i diritti civili e politici sono momentaneamente sospesi. La guerra, il conflitto tra i poteri dello Stato e la rivoluzione sono quelle condizioni di eccezionalità che possono condurre alla dittatura, per cui la crisi dell’armonia presupposta, ma non sempre attuabile, tollerabile o risolvibile, porta a un’azione di ricomposizione violenta dove al parlamento, o alle corti, viene sostituito l’agire imperativo di un capo. Per questo motivo per Carl Schmidt le guerre nell’età contemporanea sono sempre guerre civili, coinvolgono strategicamente le popolazioni, le economie, le infrastrutture. Tra le guerre, le rivoluzioni e i conflitti tra poteri però si inserisce anche qualcos’altro di eterogeneo: le epidemie. Il controllo delle epidemie è un atto particolare dello Stato moderno, in quanto le epidemie permettono la visibilità delle diseguaglianze sociali, dei poteri personali, delle ricchezze, delle mobilità, cioè della sottesa e sempre presente disarmonia, ossia che le fortune non dipendono dal caso bensì dal reddito, dallo status, dalle conoscenze, dalle biografie.

L’ordine ristabilito riguarda alcune differenze di fondo: particolarmente tra amici e nemici, tra l’interno e l’esterno, per cui viene a costituirsi uno schema cosi esprimibile: amico/interno vs. nemico/esterno; inoltre tra l’uno e l’altro ci sono dei confini che devono essere presidiati, su cui vigilare. La sovranità deve essere certa all’interno, all’esterno essa è visibile all’altro ma anche negoziabile, particolarmente con la minaccia e poi con la forza. Ma se l’interno non è sotto controllo ogni rapporto con l’esterno è impossibile o aleatorio. Se l’interno non è sotto controllo vuol dire che il nemico si è introdotto, tramite i confini, dentro il corpo sociale. Ma il nemico non sempre è un agente esterno, può essere il disordine, la frammentazione, la lotta tra i poteri.

Se l’epidemia è l’irruzione di un nemico, che si insinua nel corpo individuale e sociale, gli effetti sono di tutt’altro tipo: esso scuote il consenso alle autorità, alle rappresentazioni dominanti, insinua il dubbio e la rivolta. Nell’ottocento liberale e poi nel novecento il corpo individuale diviene progressivamente quell’oggetto che deve essere presidiato per garantire consenso, lavoro produttivo, consumo, ordine e legalità.

Con la biomedicina moderna, nella comprensione della patologia, al paradigma della lesione tissulare (Bichat, 1801) viene progressivamente sostituito la lesione cellulare (Virchow, 1885), e dalla lesione cellulare si passa all’errore genetico.

Ma sia con la lesione cellulare e soprattutto con l’errore genetico la malattia diviene ormai qualcosa di microscopico, di infinitamente piccolo, anzi non più definibile fisicamente (piccolo/grande), ma informazionalmente. La medicina viene sostituita dall’ingegneria molecolare.

Il potere di controllo del soggetto sul proprio corpo, dipendente dai propri organi sensoriali e dalla propria percezione, come da un proprio e autonomo conoscere razionale, diviene sempre minore e il ricorso allo specialismo soppianta l’illusione di un autogoverno del proprio corpo. Il ricorso allo specialismo si fa sistematico, alimentato dai Media e da Internet. D’altra parte se la scienza moderna ha messo in dubbio la conoscenza sensoriale, dall’altra lo specialismo ha reso assai difficile la ricomposizione dei saperi ormai parcellizzati, rendendo facilmente obsolete conoscenze date per certe. I Media accompagnano queste presunte continue rivoluzioni scientifiche generalizzando, tramite la riduzione a slogan e la semplificazione, scoperte e affermazioni, tacendo dubbi e critiche. Anche il concetto di rivoluzione scientifica diventa banale.

Di fronte a queste grandi trasformazioni la persona sofferente di ipocondria sembra un animale preistorico. Se ascoltiamo le sue dichiarazioni, l’ipocondriaco ci pare fermo a una idea di salute come una sorta di autogoverno autarchico, pronto ad accettare gli specialismi e subito dopo a respingerli e negarli: è attratto dalle meraviglie della neuroimaging, ma poi infelice delle conclusioni che ne traggono. Egli nell’atteggiamento è un nostalgico: cerca di unire valori arcaici e tecnologie moderne.

La sua idea di salute è un’idea al principio di tipo visibile e tangibile: le radiografie, le tomografie, lo rallegrano, perché si vede dentro il corpo, quell’oggetto oscuro e opaco che lo fa tribolare, ma essi sono anche la dimostrazione dell’interesse che si mostra nei suoi confronti. Ma poi quando lo specialista lo gela con "nessuna patologia in atto", ecco che arrabbiato ritorna alle sue primitive certezze corporee: il fiato, il colore della pelle, le evacuazioni, l’alimentazione, i dolori articolari, il gonfiore della pancia, le allergie, l’aria di città, i treni affollati, le malattie trasmissibili nel contatto sia corporeo, sia sessuale, sia ematico che aereo… il freddo e l’inquinamento. Arrivato a casa eccolo subito in bagno per lavarsi le mani e osservarsi allo specchio.

La società tardo-capitalistica è una società di massa, che mobilizza le popolazioni, che le fa incontrare, potenzialmente morbigena nell’incontro tra differenti ecosistemi. Le popolazioni immigranti sono percepite innanzitutto visivamente e olfattivamente; a livello prossemico praticano diversi livelli di intimità e di distanza. Il consumismo igienico di massa, effetto industriale della sconfitta delle malattie infettive, è sia conseguenza di tale sconfitta che premessa di una loro mobilità e di un incontro non—infettivo, cioè pericoloso. Ma è con l’epidemia di AIDS che si è scossa tale sicurezza.

Quando la persona sofferente di ipocondria dopo molte peregrinazioni si rivolge allo psichiatra, allo psicoterapeuta, allo psicologo, lo fa obtorto collo, in quanto tra gli specialisti rimangono solo quelli, o forse qualche guaritore; spesso lo fa per compiacere il coniuge, il figlio o il medico di famiglia.

Ipocondria ed etnologia

Ma soffermiamoci un attimo sui guaritori, o meglio come suggerito dall’OMS sulla medicina tradizionale, cioè quella pratica di cura che prima dell’avvento della moderna medicina scientifica, ha curato le persone ipocondriache e che oggi, in Africa ad es. continua a curarle collaborando con i medici occidentali. Gli studi antropologici e il supporto dell’etnobotanica hanno chiarito l’efficacia simbolica e pratica della medicina tradizionale. Il curriculum del terapeuta tradizionale ha una sua dignità, un suo orientamento e tirocinio. Messa tra parentesi la rappresentazione teorica e osservata la pratica di cura, essa si presenta con la sua coerenza e omogeneità. Infatti i sistemi di cura sono efficaci se gli attori che vi partecipano condividono alcune rappresentazioni di base. Anche l’eventuale fallimento ha così senso e spazio nella terapeutica tradizionale.

Le azioni del terapeuta tradizionale agiscono a più livelli: verbale, manipolatorio-tattile, prescrittivo, farmacologico, economico, simbolico.

Le popolazioni nordafricane che dagli anni cinquanta sono giunte dall’Africa in Francia hanno permesso, nell’incontro con le scienze umane e cliniche più attente, una pratica e una riflessione etnopsichiatrica ed etnopsicoanalitica, congiungendo saperi antropologici e psicoanalisi, in particolari dispositivi di cura. Questi hanno al centro il gruppo allargato e la famiglia. Ne consegue che le manifestazioni e le sofferenze psichiche e somatiche della persona immigrata debbono essere curate mantenendo un focus gruppale e familiare. Il corpo dell’immigrato magrebino, centrafricano, caraibico, che si ammala, soffre, si lamenta, non trova nella medicina individuale occidentale una risposta alla sua sofferenza, che è soprattutto perdita di senso, anche delle sofferenze somatiche. La persona immigrata è parte di un corpo familiare e parentale.

Per il pensiero occidentale il corpo è la cifra sia della individualità che della proprietà: l’habeas corpus. Si potrebbe dire che il corpo è preso e definito attraverso la trama economico-giuridica di proprietà, individualità, privatezza. Tra le garanzie di fondo del Contratto Sociale c’è proprio la sicurezza che il cittadino non può essere privato del suo corpo, definito la sua prima e originaria proprietà: il possesso di sé.

L’osservazione delle manifestazioni di sofferenza somatica, psichica e psicosomatica, cui vanno incontro le popolazioni immigrate, ci offre la possibilità di vedere, in una specie di esperimento storico-naturale, come il corpo divenga la posta in gioco e l’espressione di un disagio esistenziale profondo, effetto sia di una rottura della continuità di vita come dell’incontro con la medicina occidentale.

Anche in Italia a partire dai pionieristici lavori di Ernesto De Martino sul morso della taranta e sulla partecipazione della magia nella vita quotidiana delle comunità meridionali degli anni cinquanta e sessanta, si scopre come il corpo sofferente trovi nella cura magica una particolare riparazione-ripresa rispetto a eventi critici che mettono in crisi la sua presenza e continuità vitale.

Scrive a questo proposito E. De Martino in Sud e magia:

"L’immensa potenza del negativo lungo tutto l’arco della vita individuale, col suo corteo di traumi, scacchi, frustrazioni, e la correlativa angustia e fragilità di quel positivo per eccellenza che è l’azione realisticamente orientata […] [è] la radice della magia lucana, come ogni altra forma di magia. […] Più concludente si fa il discorso analitico quando cercheremo di trarre il significato psicologico di quanto abbiamo indicato come potenza del negativo nel regime esistenziale lucano. Ora questo significato psicologico mette in luce un negativo più grave di qualsiasi mancanza di un bene particolare: mette in luce il rischio che la stessa presenza individuale si smarrisca come centro di decisione e di scelta, e naufraghi in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi comportamento culturale. La relativa frequenza e intensità di questi episodi di labilità della presenza fu già messa in evidenza nella vita magica di Albano: le esperienze oniroidi di dominazione esteriorizzate in vessazioni di streghe, la realizzazione mimica o addirittura psicosomatica di determinati contenuti dell’allucinazione, l’attuazione — anch’essa oniroide — di impulsi repressi allo stato di veglia già testimoniano a favore di una accentuata labilità della presenza individuale. Ma vicende oniroidi del genere, impulsi crepuscolari che interrompono lo stato di veglia, allucinazioni secondo schemi tradizionali, crisi di parossismo incontrollato o di ebetudine stuporosa in occasione di momenti critici a forte carica emozionale, punteggiano con maggiore o minore frequenza la ‘vita magica’ di tutti i villaggi lucani. Un esempio di taglio di capelli compiuto da una ragazza in un momentaneo stato crepuscolare seguito da completa amnesia è documentato dalla seguente narrazione […]." (De Martino, [1959], 1980 pp. 66 sg.)

Questa descrizione etnologica psicoanaliticamente informata delle sofferenze somatiche e psichiche degli umili e dei cafoni della Lucania ci permette di collegare la crisi della presenza con l’esperienza della frammentazione del sé (definito esistenzialmente come "centro di decisione e di scelta"), verso cui si oppone — per l’alto livello di angoscia provata in sentimenti quali la depersonalizzazione e la derealizzazione (cioè l’unione di alienazione ed estraniazione) — quella estrema difesa dall’avvenire della psicosi che è l’ipocondria, difesa che cerca di riunificare dentro il corpo, nella localizzazione di un organo, di una zona corporea, di un apparato, il male, l’angoscia di morte, la distruttività patita e subita, cioè tutto il negativo.

Se la depersonalizzazione e la derealizzazione sono concepite per quello che etimologicamente significano, allora la de-personalizzazione è la revoca della personalizzazione, ossia di quella maschera unitaria che integra coesivamente e coerentemente il sé corporeo e il sé linguistico-riflessivo. La dimensione biografica di coerenza, di armonia e di tolleranza del conflitto, produce nel suo divenire relazionale e sociale una particolare forma culturale socializzata (maschera), necessaria per rappresentarsi all’altro in forma riconoscibile, riproducibile (racconto). Tale maschera ha perciò bisogno, per rappresentarsi a sé e all’altro, di una sua forma unitaria. La maschera partecipa della relazione tra figura e sfondo.

Ma di fronte a una serie particolare di eventi critici si crea una particolare discontinuità: questa forma-cornice si rompe, cede, si crepa: quello che era una rete di significati in rapporto ai suoi significanti si smaglia. Lo specchio si frantuma. I legami personali e interpersonali, la matrice gruppale, non costituiscono quello sfondo che sostiene e significa la persona o il sé.

La derealizzazione invece è proprio il sentimento di impotenza, per cui le cose perdono la loro familiarità: o sono troppo vicine o sono troppo lontane, oppure perdono significato. Le cose sono le parti di un ambiente, l’Umwelt, lo arredano, lo riempiono, lo significano, ci ricordano: è quell’ambiente in cui la persona vive. E’ l’habitat. Esse sono il sé-oggetto, come dice Racamier, rovesciando la formula di Kohut. Cioè in quelle cose che formano l’habitat la persona si riconosce, si ricompone dopo un giornata di lavoro, si riposa dopo lo stress. La persona si rigenera transitando dallo spazio pubblico allo spazio personale, proprio: l’habitat è la forma del sé allargato.

Se dunque si revocano quei legami personali che ci fanno persona, se dunque la maschera non integra e riunisce dialetticamente le parti e la totalità, se il ritorno al nostro habitat non permette la ricomposizione e la rigenerazione e il contatto con i sé-oggetto non ci rilassa, allora una dimensione di estraneità e alienazione ci invade, appare il presentimento di un nemico interno ("c’è qualcosa che non va in me"; "non sono più quello di un tempo"; "mi evitano";"forse ho fatto qualcosa di sbagliato"; "non mi capiscono"; "io non sono adatto"…) accompagnato dalla sensazione di una grande solitudine: improvvisamente ci sentiamo soli, dipendenti e spaventati.

Spesso catalogando gli eventi critici vissuti dalla persona si fa riferimento al lutto e alla sua elaborazione. Ma il lutto e la sua elaborazione non avvengono in un vuoto, in un vacuum, esso sono possibili solo in un contesto biografico e relazionale che sostiene, riconosce, significa. Quando ciò non accade al posto della perdita, al posto della mancanza, si installa non il lutto, cioè la tristezza e la sofferenza, ma il desiderio di morte (Green, 1973).

Il corpo dunque supplisce quando la dimensione intersoggettiva, culturale e relazionale, fallisce. La continuità è spezzata. Ma questo fallimento non è solo un colpo, ciò che crolla è una prospettiva di vita, cioè di significati. A questo punto solo il corpo nella sua tangibile presenza e continuità materiale, nella sua ritmicità, può ancorare l’esistenza, esprimendo a un tempo la sofferenza del negativo (pathos), la radicale sfiducia nell’altro, ma anche un suo muto appello. Ma il corpo della garanzia della presenza e continuità materiale è il corpo materno, è il gesto che si prende cura, che sfama, che riscalda, che lava — che lava e piange anche il corpo morto. La cura magica restituisce, almeno parzialmente, questa rottura della continuità esistenziale. Essa parla un linguaggio fatto di azioni, di formule pagane e cristiane, di doni, di rituali. Essa rientra tra le pratiche terapeutiche dell’influenzamento (Nathan, 1998). La magia protegge e ti reimmette in un universo mitico, non sottoposto al cambiamento, di dialoghi con altre presenze.

Città che curano

Ma se ritorniamo alle primitive formulazione freudiane e ferencziane, vale la pena chiedersi come la società mitteleuropea della finis Austriae curasse le tendenze ipocondriache presenti in una sistema sociale che aveva fatto del dispositivo disciplinare sul corpo il suo motore produttivo. Essa aveva individuato nelle città termali quei luoghi di cura, dove venivano prescritte acque minerali, manipolazioni corporee, movimento, bagni, naturismo, fanghi, aria buona — e dove le classi agiate malate di igienica Zivilisation si univano al bel mondo letterario e culturale.

A Baden Baden la Clinica Marienhöhle del Dr. Groddeck ospitava in una villa sedici stanze per malati psicosomatici, cui la cura psicoanalitica non aveva sortito effetti. Il Dr. Groddeck si occupava personalmente degli ospiti. La descrizione della vita quotidiana di questo Sanatorium, o meglio ‘Satanarium’ come Groddeck storpiò allusivamente il nome, è descritta nel carteggio Groddeck-Ferenczi. Appare questo Satanarium una delle prime esperienze di psicoterapia istituzionale, dove alla dinamica del gruppo delle ospiti e degli ospiti, si oppone la ingombrante presenza/assenza del Direttore, della seconda moglie (ex paziente), delle diverse ‘Heilpraktikerinnen’ e dei molti illustri ospiti (ad es. Ferenczi e la moglie Gizella).

Il massaggio individuale da parte del Direttore, le diete, il movimento e le conferenze dove le tematiche individuali venivano trasposte e interpretate nell’orizzonte culturale nietzschiano e freudiano, creavano quel particolare clima emozionale che permetteva la ripresa della fiducia nel proprio corpo, come pure il superamento affettivo, critico e autocritico, di rappresentazioni, idee, preconcetti. Abbiamo testimonianza del clima arroventato di questo Satanarium dall’idea geniale di Groddeck di produrre un Journal de vie, a circolazione interna, dove i cosiddetti pazienti scrivevano e descrivevano gli avvenimenti quotidiani frammisti ai molteplici sentimenti che questo luogo di cura produceva. Tale modalità di partecipazione alla cura e alla sua rappresentazione introduce al tema della scrittura e della narrazione, anticipando alcune idee freudiane indirizzate a Joan Rivière, e poi attuate durante la Seconda Guerra Mondiale da François Tosquelles e dagli ospiti surrealisti all’Ospedale psichiatrico di Sant-Alban nella Francia occupata dai nazisti. La circolazione delle idee - da Baden Baden a Saint Alban - in forma di scrittura e testimonianza orale diveniva funzione interpretante ed evitava la chiusura in un mondo interno claustrofilico, producendo in pazienti e curanti una mobilizzazione affettiva e un decentramento degli interessi. In questo modo il paziente sarà meno preda della inevitabile alienazione del corpo istituzionale per proiettarsi nel corpo simbolico del testo scritto/circolante, rinviante all’altro generalizzato che legge, riammettendo la dissimilianza (ma non la inconciliabilità) tra corpo vivente e corpo simbolico dello scritto.

Ci si ammala per dei conflitti, per delle idee, per sottrarsi a dei doveri inutili, per le parole ricevute, ma la cura non sempre può passare per le parole. Gli scopi evolutivi della psicoanalisi per i pazienti del Dr. Groddeck, come più tardi per Ferenczi, non possono che attuarsi tramite un riconquistata fiducia nel proprio sentire corporeo, vissuto prima come nemico, ostacolo, agente perturbante, particolarmente per tutte quelle persone in cui il corpo è stato oggetto di assalto, costrizione, punizione e violenza.

Ipocondria e comunicazione

Nell’ipocondria la sofferenza psichica è ridotta all’organico, anzi spesso a un organo, o a parti di un organo. Questa riduzione si attua tramite un processo che separa, localizza e scorpora una parte del proprio corpo. Ora la riduzione dalla comunicazione intersoggettiva alla dimensione organica riconduce l’essere umano alla sua condizione animale, cioè al livello della specie. Questo processo è una spogliazione della soggettività-particolarità dell’esserci umano, cioè della sua storicità. Essa indica al terapeuta il grado zero della comunicazione, il punto da cui partire: esso è la relazione con il movimento. Ora noi attribuiamo al movimento, proprio o altrui, sempre un significato affettivo, a partire da alcuni schemi, ad es. vicinanza/allontanamento, contatto/distanza, etc. Ma quando si tratta dell’interno del corpo, dove la visibilità è zero, è il tono e la motilità che viene decifrata. Il paziente ipocondriaco decifra il suo sentire in modo solitario, anzi si osserva in modo ritirato, ed emerge dall’osservazione, spaventato.

Ora il dentro del corpo (il tono, la motilità) sono in contatto con l’altro, corrispondono o meno alle sue intenzioni inconsce. La sensazione è il segno del nostro partecipare al mondo. Se le intenzioni del mondo sono ostili, ci ritiriamo. Ma se l’altro si pone a parole amichevolmente, ma corporalmente in modo rigido, distante, freddo, allora noi dobbiamo venire a capo di una contraddizione. Diciamo quindi che la dimensione corporea si pone a livello dell’orizzontalità, quella verbale della verticalità. Ora nella dimensione infantile della dipendenza le sensazioni corporee in rapporto a un altro ostile, freddo, distante, debbono essere (auto)falsificate, misconosciute, disattivate. E’ la dimensione orizzontale che viene perduta. Possiamo perciò pensare in un orizzonte psicocorporeo che l’ipocondria può essere il tentativo di attirare l’attenzione del terapeuta sulla matrice della propria sofferenza, ossia la dissociazione dell’orizzontalità, cioè che una parte di sé non può essere creduta, ossia non si può dar credito a una parte di sé. Ma l’ostinata lamentela ipocondriaca può essere anche parte di un tentativo di rivitalizzare, riavvicinare, ricontattare, una parte del sé corporeo, questa parte misconosciuta che rimanda a un misconoscimento altrui. In altri termini l’ipocondriaco nei confronti del terapeuta si comporta alternativamente come la madre rifiutante a parole, bisognosa di lui nei fatti e viceversa — impersonando così i due poli relazionali dissociati, bisogno e rifiuto. E questo non è facile da vivere.

Ma cos’è la dimensione orizzontale? E’ la dimensione della bisognosità, di contatto, di abbraccio, di calore, di conforto; è anche la dimensione della mancanza, la cui negazione produce rabbia, collera, disperazione, ripiegamento. E ciò è intollerabile per un adulto maschio razionale che non deve piangere, o per una donna efficiente e indipendente.

Ipocondria e storia

Nella lettura dei casi clinici narrati nel testo vorremmo estrapolare prototipicamente alcune vicende biografico-familiari e connetterle con il particolare contesto storico-sociale della Germania del dopoguerra. Infatti i casi clinici di Nissen, Riedell-Heger ecc. si configurano da una parte come gli effetti traumatici della disgregazione personale, familiare e sociale successiva al crollo del regime nazionalsocialista e dall’altra parte come la crisi di ideologie e credenze, tra questi la delega al Führer di pensieri e decisioni, o convinzioni diffuse come l’ invincibilità — vicende localizzate a Berlino, una città frammentata e dissociata dalle potenze vincitrici. Dal punto di vista culturale il regista Rainer Maria Fassbinder ha ritratto nei suoi film tale drammatica situazione.

I casi invece di Hirsch e di Wirth trattano pazienti a noi vicini e contemporanei, alcuni militanti dei movimenti sociali nati nel sessantotto o comunque eredi delle idee diffuse in quella fase storica, altri, Hirsch in particolare, sembrano rievocare vicende rappresentate dalle serie popolari TV (Il Commissario Derrick, ad es.).

Ipocondria e somatizzazione nell’età anziana e nella vecchiaia

Invece osservo che l’età anziana in questo volume non è trattata come situazione vitale e relazionale che offre ai fenomeni della somatizzazione e dell’ipocondria una ulteriore possibilità di manifestazione, spesso incompresa come sofferenza psichica e trattata come un fastidioso sintomo di decadimento cognitivo — rientrando così dalla finestra l’incomprensibilità del fenomeno, la impossibilità di immedesimazione, predisponendo il personale di cura e assistenza verso comportamenti di custodia.

La vecchiaia lunga mette di fronte le persone anziane e vecchie a ripetuti episodi di perdita e abbandono, sia oggettuali che ambientali. I disturbi corporei e le disabilità nel loro rendere precaria e insicura la vita quotidiana, potenziano le domande esistenziali insite in ogni uno di noi. Tra questi i sentimenti di vergogna, di colpa, di indegnità, con la relativa netta sensazione di inutilità e non-esistenza.

Ma non solo: è gioco forza che la somatizzazione dei problemi e dei conflitti irrisolti delle proprie biografie familiari e relazionali appaia spesso nei servizi residenziali per anziani e nelle RSA ospedaliere l’unica lingua degna di essere ascoltata e profferita. Ma anche il contrario: alcuni comportamenti delle persone anziane sono troppo facilmente ricondotti, come spiegazione, alla base somatica e organica, rinforzando così la somatizzazione dei problemi.

Abbiamo invece osservato tramite l’uso intensivo dei Gruppi di Discussione eterocentrati e la Supervisione dei Servizi di Assistenza Domiciliare che questo procedimento di misconoscimento della sofferenza emozionale e relazionale, come di attribuzione somatica unilaterale, si può modulare e alcune volte modificare. Attraverso queste prassi formative si sono progressivamente resi comprensibili, intelleggibili, alcuni comportamenti ipocondriaci, oppure chiare tendenze alla somatizzazione, dotandoli di un senso, di una comprensione, spesso comunicabile — interpretazione che avvicina all’altro, riducendo quell’alone di irrazionalità e follia che alberga nell’incomprensibile. In questo modo il raggio d’azione e di comprensione del personale di cura e di assistenza si allarga e la sensazione di essere in un vicolo cieco — sia per l’uno come per l’altro — diminuisce. Ma è qui, quando ci si avvicina all’altro che appaiono i veri problemi: fare i conti con chi è l’altro, fare i conti con i nodi irrisolti della sua esistenza, fare i conti con i bisogni di contatto, vicinanza, attaccamento.

Nell’amore non c’è colpa… ma la nostra civiltà occidentale dominata dall’efficienza intellettuale e dal narcisismo corporeo ci ha disabituato all’incontro con l’altro, riducendolo a mero cliente verso cui affaccendarsi.

Corpo e contenitore

Nel 1987 mi sono recato a Tübingen a visitare lo Jugendheim al Servizio di psichiatria infantile e giovanile dell’Università. Il prof. Reinhart Lempp, durante la visita di questa originale comunità terapeutica da lui diretta, mi fece vedere la capanna che sopra un letto a castello un giovane paziente, ricoverato per gravi disturbi dell’Io, si era costruito. Lempp mi spiegò che questo giovane ora riusciva a frequentare una scuola pubblica in città, ma che al ritorno aveva bisogno di una sorta di "area di transizione" tra la tensione della dimensione pubblica della scuola e il ritorno alla dimensione personale della casa (Heim). Egli si ritirava nella capanna, dove emergeva qualche ora dopo rilassato e disposto a coinvolgersi nelle altre relazioni. La capanna costituiva un contenitore artificiale, in quanto culturale: esso era una normale tenda da camping. Come tenda era un riparo, un coperto, un ricovero, ma era un riparo socializzato, cioè identificabile come tale senza problemi; inoltre era trasportabile in uno zaino, cioè poteva essere un contenitore mobile; in più offriva identificazioni di supporto: giovane hippy, indiano delle praterie, critico del consumismo, ecologo… collegandosi idealmente con tradizioni/narrazioni di opposizione, coerentemente con la fase adolescenziale. In questa vignetta si potrebbe enucleare il passaggio metaforico "dalla cura del corpo al ‘corpo’ della cura" (Onnis, 1988, p. 21).

Contesto e cura

Le modalità terapeutiche narrate nel testo riguardano prevalentemente contesti di cura professionali e autonomi, in cui il terapeuta ha un margine di scelta e di autonomia. Ma quando si è in un servizio territoriale, in un ambulatorio pubblico, come procedere? Noi sappiamo che il paziente ipocondriaco gioca su più fronti, mostrando sfiducia a tutti, solleticando al contempo l’orgoglio professionale ai vari attori in un torneo di sfide e di controsfide. Ora se accogliamo la proposta psicocorporea in un contesto di servizio pubblico ambulatoriale possiamo strutturare un controgioco d’équipe, in cui è l’équipe che si prende dichiarativamente carico del paziente scegliendo di volta in volta un terapeuta elettivo per quelli che sono i problemi emergenti, scegliendo e modulando i contesti di cura ambulatoriali e/o residenziali e i setting (individuale, gruppale, familiare…). Ma ci chiediamo: ciò si concilia con la medicina delle evidenze, oppure il paziente ipocondriaco è l’utente, anzi il consumatore, ideale di una biomedicina fatta di esami di laboratorio e di farmaci?

Padova, settembre 2008

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Prefazione all’edizione tedesca

Bernd Nissen

 

 

Il 18 marzo 1912 Freud scrisse a Ferenczi: "Ho sempre pensato che l’oscuro problema dell’ipocondria rappresentasse uno spiacevole vuoto nel nostro lavoro" (Freud e Ferenzi, 1993).

In effetti l’ipocondria è ancora, nonostante la sua enorme rilevanza clinica — e non solo dai punti di vista psicoanalitici ma anche della terapia comportamentale, della psichiatria, delle scienze neurologiche, sociali ecc. — un enigma oscuro. Ma Freud si sbagliava rimproverandosi di essere riuscito a fare solo congetture, perché emerge dalle discussioni più recenti che la sua concezione dell’ipocondria come disinvestimento dell’oggetto (vedi Freud, 1914) torna per lo meno in alcuni quadri dell’ipocondria. E’ rimasto invece per molto tempo non chiarito, come dobbiamo comprendere questo disinvestimento: già Freud sapeva che non è totale (vedi anche le concezioni di Freud relativamente alla psicosi, 1940), e Ferenczi (ad esempio 1914, 1919) fu il primo che elaborò la presenza rilevante di "sovrappiù del transfert nevrotico" (come più tardi anche Fenichel, 1945). Schilder (1925, 1935) riconobbe il significato inconscio dell’ipocondria (qui vedi anche A. Freud, 1952). Gli studi di Herbert Rosenfeld sull’ipocondria (1958, 1964) appaiono come monoliti nell’impegno psicoanalitico finalizzato alla comprensione dei processi di disinvestimento ipocondriaco: egli li discute — come sempre mostrandosi clinicamente brillante — come organizzazioni patologiche riuscendo a descrivere, in maniera sorprendentemente precisa, la difesa, e in particolar modo la scissione patogena, la proiezione e la introiezione. Un’altra pubblicazione importante, che nell’area geografica di lingua tedesca spesso è stata ignorata, è quella di David Rosenfeld (1984) che descrive, tra le altre, la modalità di un’ipocondria basata sui meccanismi dell’autismo.

La discussione contemporanea sul tema diverge in molti aspetti, ciò nonostante si mostrano anche delle convergenze, come ad esempio nel significato delle diagnosi differenziali dell’angoscia, nelle strutture della difesa (la scissione, la proiezione, l’introiezione), nella rilevanza dell’introietto, nel significato genetico dei traumi cumulativi e dei disturbi precoci delle relazioni d’oggetto, nei derivanti disturbi del pensiero e nei problemi di separazione e quant’altro.

Accanto a questi aspetti si sta sempre più delineando la convinzione che possiamo differenziare, in modo approssimativo, tre modalità di ipocondria.

Primo, i tipi nevrotici; secondo, le organizzazioni monosintomatiche patologiche; terzo, l’ipocondria come delirio psicotico. Soprattutto la seconda modalità — e qui torniamo a Freud — corrisponde certamente con il disinvestimento dell’oggetto. Questa modalità, nella maggior parte dei contributi di questo libro, viene discussa, direttamente e indirettamente, in modo piuttosto controverso. Questa discussione non è conclusa ma sembra essersi finalmente messa in moto: forse essa apre anche la possibilità di osservare specifiche forme psicodinamiche di disinvestimento, come quelle che possiamo anche osservare nelle nevrosi ossessive gravi (vedi anche Asseyer, 2002), nei disturbi alimentari, nelle patologie derealizzanti ecc.

Sottolineo qui di seguito alcuni aspetti dei singoli contributi presenti in questo volume:

Il lavoro di Röder, Overbeck e Müller, Teorie psicoanalitiche sull’ipocondria, fornisce un affidabile panorama storico, fino al 1995.

Le considerazioni metateoriche e clinico-teoretiche costituiscono la maggior parte del libro:

Küchenhoff parte dalla ricerca relativa ai processi di costruzione delle rappresentazioni psichiche (tra gli altri usufruendo dei lavori di Ferrari; Bucci; Kristéva) e dei loro mutamenti presenti nell’ipocondria e stabilisce la connessione con una funzione α incompleta.

Hirsch discute la possibilità di un principio ipocondriaco e conclude che si tratta, nell’ipocondria e nelle forme di angoscia affini, in fondo di una angoscia rispetto l’identità.

Bürgin, Steck, Di Gallo e Meng si occupano dell’importante tema dell’ipocondria e delle somatizzazioni presenti in bambini e giovani. Accanto a importanti descrizioni classificatorie sull’ipocondria in generale essi descrivono l’influenza delle malattie dei genitori sui figli (aprono con ciò un ulteriore sguardo sulle dimensioni genetiche). La discussione di aspetti psicodinamici e terapeutici, sulla base di alcuni casi clinici, completa il loro lavoro.

Yorke parte da una analisi dettagliata del problema corpo-mente (body-mind) e definisce l’ipocondria e la dismorfofobia, in base a queste conclusioni, come disinvestimento degli oggetti e delle attività psichico-mentali.

Argentieri-Bondi vede alla base dell’ipocondria un disturbo del pensiero e sottolinea la necessità di concentrare le interpretazioni innanzitutto sulle forme del pensiero piuttosto che sui contenuti.

Rupprecht-Schampera, che discute in modo molto dettagliato diverse modalità di approccio, comprende l’ipocondria tra l’altro come un complesso processo di difesa finalizzato sia a salvare la relazione primaria di fronte al conflitto di rivalità con l’oggetto primario, oggetto che sovrasta la propria espansione vitale, che a evitare il rischio, che ne è connesso, della perdita dell’oggetto e/o di sé.

Nissen parte dalla considerazione che l’ipocondria monosintomatica dipenda da un incapsulamento traumatico che è organizzato in maniera quasi autistica e intorno al quale si costruiscono delle difese orali-anali-sadiche e perverso-sessualizzate.

Kütemeyer si batte fermamente in favore di una comprensione della sensazione ipocondriaca interpretata come una particolare modalità linguistica del paziente di comunicare un’emergenza psichica e la necessità di apprendere a "sentire" e a intendere questa lingua.

Di Ceglie cerca di accogliere l’ipocondria come organizzazione patologica, nel senso di Steiner, che rappresenta un psychic retreat, e sottolinea il resto di contatto di realtà rimasto, anche nel transfert con l’analista, come criterio importante per la prognosi.

Nei casi clinici si prosegue nel dibattito dei programmi clinico-teoretici, discussi nell’ultimo capitolo, con alcuni casi clinici narrati dettagliatamente.

Schunck prende in considerazione le formazioni isteriche e ipocondriache di difesa riguardo la particolarità del rapporto tra l’eccitazione e l’oggetto sullo sfondo di un conflitto traumatico. Lei vede nella difesa ipocondriaca come dominante l’angoscia in presenza dell’oggetto, mentre nella difesa isterica predomina il desiderio dell’oggetto nella sua assenza.

Riedell-Heger, riferisce di un trattamento completo; egli osserva nell’ipocondria un’organizzazione patologica di difesa che protegge da una indifferenziazione psicotica. Essa è espressione di un disturbo dei processi di pensiero promossi da un trauma. Vengono discusse delle prospettive tecniche di trattamento.

Nissen descrive il caso di una grave ipocondria monosintomatica, delinea in maniera dettagliata la difesa patogena, lo "scioglimento" dell’incapsulamento traumatico e il superamento dell’organizzazione quasi autistica.

Müller riproduce in maniera dettagliata la dinamica tra l’ipocondria psicotica e i conflitti nevrotici. Nel suo lavoro teorico preliminare egli discute in special modo la rilevanza di un super-Io distruttivo.

Wirth analizza, nella cornice di un complesso setting terapeutico-familiare, l’ipocondria dell’Aids per scoprire con il suo approccio al problema la relativa dinamica conscia del paziente, i suoi legami familiari e gli ostacoli che si incontrano nel trattamento.

Penso che siamo riusciti con questo testo a mettere un primo punto fermo sulla attuale situazione psicoanalitica relativa alla questione dell’ipocondria. Certo molti problemi non hanno ancora prodotto la chiara formulazione di un interrogativo, molte domande scientifiche non sono ancora state sufficientemente articolate ed espresse. Ma mi sembra che sia giustificata la speranza di essere entrati in un produttivo processo di discussione.

Auguro a tutti i lettori di questo libro una lettura appassionante e ricca di conoscenza.

Berlino, febbraio 2003

 

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