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FILIBERTO TARTAGLIA, Estetica del terziario. Bellezza, benessere e felicità della vita come fondamenti del marketing ritrovato, Franco Angeli, Milano, 2006, pp. 350, Euro 18

[Filiberto Tartaglia insegna Marketing all’Università di Ferrara, nel Corso di laurea in Comunicazione pubblica, della cultura e delle arti, dove è anche titolare dell’insegnamento denominato Laboratorio del parlare in pubblico. Ha insegnato anche sociologia del lavoro e dell’organizzazione alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Firenze. Svolge attività di consulenza di direzione e formazione nelle aree dell’organizzazione aziendale, marketing interno/esterno, marketing dei servizi, comportamenti organizzativi, gestione e sviluppo delle risorse umane, comunicazione interna/esterna, vendite, marketing della Pubblica Amministrazione e marketing sanitario. Negli anni ’80, ha fondato e diretto la rivista internazionale Media & Messaggi, gemellata con Traverses, pubblicazione ufficiale del Centre George Pompidou di Parigi. E’ stato titolare della rubrica Schegge di marketing, nel quotidiano politico finanziario Italia Oggi. Autore di Elementi di retorica manageriale (Milano, 1994) e di Essere glocali (Padova, 2003). Pubblichiamo, per gentile concessione, l’Introduzione dell’autore ]

Introduzione

Mi sono assegnato l’immodesto compito di riconcettualizzare il marketing dei servizi secondo un nuovo paradigma, che ho chiamato estetica del terziario. Una missione personale. Cominciata molti anni fa, quando ho deciso di credere fino in fondo ai vantaggi della contaminazione dei saperi. Così, nel corso del tempo, ho costruito la mia cultura sull’impresa e la mia attività di formatore e consulente di direzione d’impresa attingendo prioritariamente epistemologia e metodologia dalle scienze umane. Questo riferimento costante ha sempre mediato il mio rapporto con il marketing e la stessa economia, nella convinzione di allargare, così, la prospettiva a proposito di produzione di beni, erogazione di servizi, comportamenti di consumo.

Ho rivisitato i sacri testi del marketing generale e del marketing dei servizi con cosciente e determinato pregiudizio interdisciplinare. Antropologia, psicologia, psicologia sociale, semiologia, sociologia hanno costantemente arricchito le mie conoscenze in materia di economia, marketing e management. L’approfondimento delle problematiche della comunicazione interpersonale mi ha consentito la più efficace integrazione concettuale fra la componente razionale e l’indisciplinata costellazione degli aspetti emotivi dei comportamenti organizzativi.

L’ipotesi di lavoro è questa: si può dilatare l’approccio al marketing dei servizi per comprendervi lo studio più ampio della vita quotidiana. Come? Associando alla consolidata dizione di "terziario", tuttora validissima per denotare lo specialismo classificatorio proprio del linguaggio delle scienze economiche e del management, il termine "estetica". L’operazione semantica vuole denotare un progetto concettuale piuttosto ambizioso. L’incontro, anzitutto, fra economia e filosofia. Che serve ad approfondire o, meglio, a radicalizzare il concetto di valore economico. Come, del resto, hanno fatto l’eco-nomia civile, già nel settecento napoletano e scozzese, e la bioeconomia, a partire dagli anni settanta del secolo scorso. Entrambe smentiscono lo storico giudizio di Thomas Carlyle a proposito dell’economia come "scienza triste". L’una e l’altra non nascondono certo un fine teoretico orientato alla felicità. Ho considerato fondamentale a questo riguardo, la lezione di Nicholas Georgescu-Roegen che propone di conseguirla non solo producendo valore con minori quote di energia e di materia, ma anche investendo prioritariamente in beni relazionali.

Da tempo, nel marketing, si accetta che in qualsiasi business, non solo nel settore dei servizi, siano importanti componenti e processi affettivi, culturali, comunicativi, simbolici. È ormai scontato, per gli osservatori sufficientemente attenti, che la dematerializzazione dell’economia ha spostato la crucialità del concetto di valore su leve prevalentemente intangibili. E da contesti in cui, pare, si è già andati "oltre il servizio", ci giungono dati quantitativi su come l’evoluzione delle forme del valore siano in grado di incrementare i tassi di occupazione ed il prodotto interno lordo di una nuova economia. Non è tanto quella del Web, di Internet e dell’e-commerce. È l’economia delle esperienze.

Sono ora disponibili proposte teoriche che si spingono a misurare, anche contabilmente, non solo la condivisione di informazione, intelletto e sapere, i principali fattori dell’economia della conoscenza, ma anche valori come l’esperienza personale, le emozioni, perfino la spiritualità, la saggezza, le trasformazioni individuali. Come se le finalità razionali micro e macroeconomiche della soddisfazione dei bisogni e dei desideri di benessere fossero riqualificate come complessiva domanda di maggiore felicità della vita.

Un secondo vantaggio è dato dall’incontro della semiotica con il marketing. Ne scaturisce la possibilità di leggere la vita quotidiana come ipertesto semiotico, operazione che consente una prima legittimazione dell’estetica del terziario come paradigma evolutivo. Corollario: questa operazione concettuale ci permette di reincarnare il consumatore nel cittadino o, meglio, nella persona, vero soggetto dell’economia comunque intesa. Ed è proprio la semiotica, già protagonista di altre felici integrazioni con il marketing (design, marca, moda, pubblicità, strategie d’immagine, urbanistica, vendita visuale), il principale operatore della mia proposta di integrazione fra estetica e terziario.

Per scrivere questo libro, mi sono anche impegnato, come cittadino-consumatore, nell’osservazione partecipante. Da sempre, per vizio professionale, mi comporto da cliente esigente e, quando necessario, insoddisfatto. Per verificare, puntualmente, l’enorme distanza fra le buone intenzioni della cultura della qualità, compresa l’utopia dell’eccellenza, e la colpevole banalità dei comportamenti che quotidianamente la smentiscono, particolarmente nel-l’erogazione dei servizi. È nella quotidianità che si consumano fatali disattenzioni e rozze arroganze nei confronti del cliente. Che si possono ascrivere, ormai, ad una consolidata cultura del disservizio. Dannosi boomerang per le aziende.

Così, ho intensificato le mie ricognizioni, ulteriormente motivato dal dovere documentativo. Ho fatto file negli uffici riformati delle Poste Italiane, ho chiesto informazioni a tutti i tipi di sportelli, monitorando i comportamenti degli addetti, ho chiamato i più vari call centers. Ho strumentalizzato alle ragioni dell’estetica sanitaria anche l’esperienza di un intervento chirurgico in day surgery, valutando le competenze relazionali dell’équipe. Ho litigato con il mio dentista che si ostinava a definirmi suo paziente e non cliente. Ho cercato e trovato in deliziosi, piccoli hotel di montagna i modelli naturali di un’ospitalità alberghiera che può spiazzare i più sofisticati canoni del marketing dei servizi turistici. Tutte esperienze che compongono un metodo empirico, induttivo, indispensabile alla sistematizzazione teorica dell’estetica del terziario.

L’ipotesi di lavoro comprende anche la convinzione che la vera cartina di tornasole della qualità, comunque intesa, sia la microfisica dei comportamenti. La catena del valore deve agganciarsi al livello infinitesimale delle esigenze del cliente. Cosa possibile solo trasformando il suo ruolo di prosumer (produttore-consumatore del servizio di cui fruisce) già attivo per definizione, in coinvolgimento emotivo. Questo è valore totale o, se si vuole, qualità totale. Ma anche fatto totale, dove l’aggettivo connota il concetto di servizio di quella completezza che non esito a definire di spessore antropologico. E qui, come si vedrà, è d’obbligo il riferimento a Marcel Mauss.

Mi sembra doveroso e necessario consigliare un approccio alla lettura che non basta definire critico. Per spiegarmi meglio, mi servo di alcuni concetti chiave della semiotica testuale, primo fra tutti, quello di cooperazione interpretativa. A differenza del testo letterario, qui non ci si può permettere di "fare finta di capire". Anche la saggistica è un racconto. Certo, l’argomentazione può essere contingente, strumentale e scarsamente creativa. Ma chi ha mai detto che solo i testi letterari richiedano la collaborazione con l’autore? Anche il manager e lo studente sono lectores in fabula, con diritti e doveri che ne conseguono. Ed anche questo libro è un’opera aperta, "una macchina pigra che chiede al lettore di fare una parte del suo lavoro".

Fondamentali raccomandazioni semiotiche mi hanno fatto pensare ai lettori modello di questo testo. Ai lettori di primo livello, anzitutto, quelli che, secondo Umberto Eco, leggono un libro "per sapere cosa vi si dice, che cosa accade e come va a finire". Come andrà a finire, Estetica del terziario non lo dice, ma il lettore di secondo livello se lo chiederà sicuramente. A lui si possono promettere future ricerche sulle principali estetiche settoriali. Un’onesta presunzione di utilità, non so quanto apprezzabile, mi spinge, comunque, a dare ad entrambi alcune raccomandazioni, prima fra tutte, quella di aggiungere al testo dei "capitoli fantasma". Non è solo un invito a completare le mie argomentazioni con il non detto o ad agganciarle al già detto. Più semplicemente, bisogna aggiungere quello che succede nel frattempo. Per tenere l’opera sempre aperta, in modo che gli interessati possano continuare il lavoro di perfezionamento teorico del paradigma estetico.

Nel libro, non vi sono note a piè di pagina. Ai pur preziosi supporti intertestuali ho sostituito l’eventuale, lieve prolissità di indicazioni aggiuntive. Sono di due tipi: semplicemente esplicative, di servizio, quelle che riguardano la terminologia specifica o i principali riferimenti bibliografici. Più argomentative quelle che si riferiscono a particolari casi di business. Circa le prime, l’intenzione è stata quella di fare cosa utile ai lettori meno adusi al linguaggio del marketing, particolarmente di quello dei servizi. Operazione ovviamente incompleta, considerata la scelta arbitraria dei termini da spiegare con maggior dettaglio. Maggiori prudenza e pudore ho avuto, invece, per le seconde, dando per scontata una certa competenza settoriale del lettore di secondo livello. Va da sé, che mi scuso con lui, se le interpretasse come presunzione di insegnare lo judò ai giapponesi.

In realtà, tutti, autori, traduttori, editori, lettori, dobbiamo confrontarci con una nuova situazione metacomunicativa che, a mio avviso, costringerà anche i semiologi ad aggiornare le loro conoscenze sulla cooperazione interpretativa e le stesse teorie del testo. Mi pare che anche la saggistica specializzata si stia orientando con sempre maggior decisone all’interazione con il singolo lettore, grazie a quei formidabili mediatori di relazione che sono i siti Internet degli autori (o di qualsiasi altro soggetto citato) o, più semplicemente, come nel mio caso, la posta elettronica.

Chi volesse mettersi in contatto con me può farlo utilizzando questi indirizzi: mailto:filiberto.tartaglia@fastwebnet.it

mailto:ttf@unife.it

Il piano dell’opera

Il libro è diviso in due parti. La prima, cinque capitoli, rivisita il terziario e il marketing dei servizi per lasciarsene alle spalle i tradizionali concetti. La seconda parte, in otto capitoli, propone e sviluppa il paradigma estetico. Ne ricostruisce anche il silente percorso di segnale teorico debole, sia in ambito sociologico che di marketing. E lo consegna, dopo il suo rafforzamento semiologico, all’incontro con la macro e la microeconomia.

Il primo capitolo è un’interrogazione sul concetto di terziario, di cui propongo subito una definizione allargata. Per esplicitare meglio l’ipotesi di lavoro, non basta richiamarne i concetti chiave. È necessaria anche la riflessione critica sull’attuale statuto dell’economia dei servizi e sulle sue attuali caratteristiche, per fissarne lo stato dell’arte, particolarmente a proposito di ruoli e competenze dei suoi operatori e all’emergere di nuove professionalità. Premessa utile anche per l’individuazione di ulteriori segnali, forti e deboli, di nuove tendenze. Operazione necessaria, doverosamente preliminare ad una contestualizzazione sociologica e anche tecnica e tecnologica del concetto di servizio. L’operazione successiva è quella di riconcettualizzare il terziario all’interno del paradigma della complessità sociale, compresa la sua estetica, cioè il valore di visibilità. Anche la dimensione del ludico concorre a pieno titolo, e non da oggi, a definire le nuove forme del valore economico. Una panoramica sull’immediato futuro tecnologico fa da premessa alla riflessione sul nuovo modo di creazione del valore nell’economia delle reti, dizione che si addice particolarmente al settore dei servizi.

Il secondo capitolo dichiara esplicitamente l’intenzione di prendere le distanze da concetti che ritengo ormai obsoleti e che impedirebbero di aggiornare le considerazioni sul valore del valore. Qui, l’antropologia, la sociologia e la semiotica incontrano il marketing, per arricchire e ridefinire il significato di servizio e per capire come si crea, oggi, il valore che è in grado di proporre. È quello trasversale e totale dell’offering, concetto che ci permette di definire meglio ciò che tradizionalmente chiamiamo proposta di valore per il cliente. E che vale sia per il servizio che per il prodotto. Attraverso incontri con analisti di scenario, padri del marketing, sociologi e grazie a letture e riletture delle loro argomentazioni, si potrà dare, senza rimpianti, un consapevole addio al "vecchio" marketing dei servizi.

Necessario anche il vaglio critico delle suggestioni di autori che, in nome dell’economia delle esperienze, annunciano, forse con maggiore determinazione della mia, il superamento del servizio. È il contenuto del terzo capitolo, che riporta anche altre proposte che intendono andare oltre il concetto tradizionale di terziario.

Il quarto capitolo contiene il transito concettuale dalla qualità del terziario alla felicità della vita. È il primo passo di un cammino ambizioso che vuole consegnare all’estetica il concetto di servizio da cui si erano precedentemente prese le distanze. Il traguardo è alla fine della seconda parte del libro, ma già adesso si cominciano a cercare, senza alcuna garanzia di certezza, nuovi contesti e nuovi attori per fissare l’idea di un terziario che vada oltre gli orizzonti del suo specifico marketing. Ciò comporta la riconsiderazione del concetto di soddisfazione, non solo del cliente esterno, ma anche di quello interno. Per quest’ultimo è importante registrare l’attivismo degli "ingegneri della felicità" che esasperano le potenzialità innovative del classico modello delle Human Relations. La sintesi sociologica del capitolo vede la sostituzione del parametro della qualità della vita, anche di quella organizzativa, con quello esistenziale ed emozionale della felicità della vita.

Nel quinto capitolo, mi chiedo, sostanzialmente, se ci siano già i presupposti affinché l’Italia possa evolvere, assieme al resto dell’occidente terziarizzato, indipendentemente dal riferimento ai paradigmi evolutivi del marketing, dalle vecchie logiche di erogazione e fruizione dei servizi. Ricerche e rapporti internazionali, ma soprattutto sentimenti di sfiducia sembrano fornire risposte fortemente dubitative. Risposte che non riguardano solo il terziario, ma l’inte-ro Sistema-Paese. Insinuo con determinazione l’ipotesi che l’adozione di una logica glocale possa essere utile per rispondere alla sfida della globalizzazione. Concludo il capitolo e la prima parte del libro con l’elogio al benchmarking, pratica di metodologie e prassi che riqualifico come glocali. Dovrebbe essere, oggi, il dovere di marketing prioritario di qualsiasi azienda e di tutti i decisori.

La seconda parte, a cominciare dal sesto capitolo, espone fondamenti e fondamentali del paradigma dell’estetica del terziario, intesa come evoluzione (quasi) logica del marketing dei servizi. Spiegare con chiarezza cosa intendo per estetica del terziario, comporta anche una doverosa, preliminare ricognizione concettuale sull’estetica come filosofia, come campo di conoscenze sulla bellezza e sul benessere, sulle sensazioni e il gusto personali, sulle risorse artistiche e culturali. Per ribadire che è proprio la bellezza la prima pietra di tutta la mia costruzione teorica. I fondamenti dell’estetica del terziario attingono all’estetica della vita quotidiana. Determinante, qui, l’apporto interdisciplinare di semiotica e sociologia.

A questo punto, è già utile e doverosa una pausa di riflessione. Per avvisare il lettore che mi rendo perfettamente conto del rischio di proporre nuove definizioni a proposito di vecchi problemi. Operazione che, a suo tempo, fu rimproverata anche alla semiologia. A questo riguardo, mi torna in mente la brillante difesa di Umberto Eco. Si può leggere in La struttura assente, il testo che introduce alla ricerca semiologica. Era il 1968 ed Eco se la prendeva con un "arguto" pamphlet che bollava l’approccio semiologico come artificio burocratico. Mi colpì l’eleganza stilistica con cui esprimeva un malcelato risentimento:

…è un poco come se Tolomeo avesse contestato a Galileo di star studiando esattamente lo stesso Sole e la stessa Terra dell’astronomia classica, salvo la piccola e burocratica variazione di voler considerare la Terra in rapporto al Sole, anziché il Sole in rapporto alla Terra. Ora, può darsi che l'approccio semiologico non attui una gran rivoluzione, ma la rivoluzione vuole essere modestamente copernicana (Eco, 1968, pag. 8).

Ancor più modestamente, ritengo che riconcettualizzare il marketing dei servizi secondo il paradigma estetico non sia da considerare una rivoluzione, neppure settoriale. Lo ripeto, è una semplice evoluzione. Ma, la mia proposta ha la dichiarata pretesa d’innovare radicalmente il modo d’erogare servizi, sia pubblici che privati, nonché di fare formazione e consulenza nel terziario. A condizione che si sia disposti veramente ad andare oltre il servizio. Allargando la prospettiva mentale. L’orizzonte non può più essere la soddisfazione del cliente, ma il coinvolgimento estetico delle persone. Solo così è plausibile ragionare su quel nuovo bisogno collettivo, già definito estetica di massa. Ritengo che la sensibilizzazione alla teoria dell’estetica del terziario e il trasferimento di conoscenze operative possano permettere a chi lavora nei servizi, particolarmente nei servizi alla persona, di fidelizzare meglio i clienti, trovarne di nuovi e guadagnare di più. L’estetica del terziario, insomma, può essere la forma più aggiornata della creazione di valore. Anche nel settore industriale, naturalmente. Con ciò intendo dire che micro e macroeconomia possono essere ripensate in chiave di biosostenibilità. Anzi, di bioeconomia.

Mi è stato indispensabile, infatti, recuperare, nel nono capitolo, le teorie di Nicholas Georgescu-Roegen, da lui esposte sistematicamente, per la prima volta, il 3 dicembre 1970, all’Università dell’Alabama. Come vedremo, l’ipo-tesi di un’economia come evoluzione della biologia, soggetta, pertanto, ai principi della legge di entropia, contribuisce a rendere più plausibile il paradigma dell’estetica del terziario. Che vuole essere discorso più aggiornato, ampio e radicale sulla qualità. Anche la "qualità merceologica" è energia. E qualsiasi processo di produzione peggiora sempre, in virtù del secondo principio della termodinamica, la futura disponibilità di energia, cioè la possibilità di produrre altre merci. Indipendentemente dalle previsioni di Georgescu-Roegen a proposito di "limiti della biosfera", conviene credere, per pensare "un’altra economia", che sia proprio la legge di entropia l’autentico principio di scarsità. Così come è necessario al marketing occuparsi anche di beni naturali e di beni relazionali, esterni alla catena del consumo tradizionalmente inteso. Ritengo che siano i più adatti ad approssimare quella felicità della vita, che anche per lo studioso rumeno, è il fine dell’economia. Macro e microeconomia, riorientate secondo il paradigma di Georgescu-Roegen, conducono più facilmente, come tenterò di dimostrare, all’estetica come forma più compiuta del valore economico.

Nel decimo capitolo conosciamo il nuovo soggetto di un’economia bioeticamente riconfigurata. Non è più rappresentato dall’astrazione dell’homo œconomicus. È il soggetto reale della quotidianità, il cittadino-consumatore, parente evoluto di quello di Francoforte e di quello ecologico, del consumatore-imprenditore e di quello che gli americani hanno definito consumatore centauro, del consumatore etico e solidale. Per identificarlo, è utile riconoscerlo nell’archetipo relazionale della reciprocità, particolarmente del dono. È l’homo bioeconomicus il protagonista principale dell’estetica della vita quotidiana e, dunque, anche dell’estetica del terziario. Alla sua domanda sempre più consapevole e complessa le aziende possono rispondere con nuove estetiche di business, se sapranno adottare nuove strategie ambientali, culturali, sociali. Risvegliando, magari, con l’aiuto della creatività imprenditoriale e manageriale, anche le risorse dormienti. Che sono moltissime, in ogni settore ed in qualsiasi territorio.

Nell’undicesimo capitolo, l’estetica del terziario incontra il marketing territoriale con l’intenzione dichiarata di piegarlo alle ragioni di quello glocale. Passaggio necessario per predisporlo alla sua integrazione nel paradigma estetico. È così possibile presentare, finalmente, i due strumenti operativi che consentono di tradurre in mission e strategie il modello evolutivo del marketing dei servizi, applicabile a qualsiasi offering, non solo di terziario. Il Progetto Estetico Territoriale è un documento scritto che riconfigura gli obiettivi territoriali secondo l’opzione fondante che vede nell’estetica la forma più compiuta del valore economico che un’area geografica può creare ed offrire.

Correlato alla priorità di un nuovo progetto territoriale è il Piano Estetico Aziendale, che consente agli imprenditori di fissare le linee guida di qualsiasi business secondo la medesima opzione. Il dodicesimo capitolo, dopo averne esposto il concetto e lo schema, riporta esempi di strategie aziendali che potrebbero essere pensate ed attuate in un consapevole orientamento all’estetica del terziario. L’uso del condizionale è d’obbligo in quanto, al di là di possibili letture di case history empiricamente definibili, a posteriori, come esempi riconducibili al mio paradigma, non sono ancora disponibili esempi di sue concrete applicazioni.

Il tredicesimo e ultimo capitolo riconsegna al lettore un marketing ritrovato nei fondamenti della bellezza, del benessere e della felicità della vita. Pronto per far transitare i vari tipi di marketing dedicato in specifiche estetiche settoriali. Sarà il campo delle mie indagini future. È già possibile, però, introdurre alle due principali: l’estetica della Pubblica Amministrazione e l’estetica sanitaria. Valgono le stesse considerazioni riferite ai progetti e ai piani estetici. È già possibile, oggi, reperirne, all’estero e in Italia, numerosi esempi, da studiare in una logica di benchmarking. Per riportare in realtà glocali linee guida per edificare strutture, praticare comportamenti, erogare e vivere esperienze in modo coerente ai fondamenti e ai fondamentali dell’estetica del terziario.

L’estetica, in ultima analisi, è l’involucro concettuale di un’ecologia, della mente, dell’ambiente e del consumo, che può orientare cittadini, aziende e consumatori al nuovo modello della creazione di ricchezza. Che, alla luce degli apporti estetici, è implicitamente etico. Perché possiamo comprendere nello stesso universo della nostra intelligenza e della nostra sensibilità sia l’etica che l’estetica.

In attesa di ricognizioni efficaci, il Manifesto del fondamentalismo estetico, che chiude il libro, sintetizza le linee guida per possibili percorsi di ricerca.

1. Fine del terziario?

Con l’ultimo secolo dello scorso millennio sono tramontate molte certezze, molte idee, molte ideologie. Nel 1992, Francis Fukuyama, analista di politica estera sovietica presso il Dipartimento di Stato americano, aveva proclamato, nientemeno, che la fine della storia. Approdata, dopo un percorso "coerente e direzionale", al terminal definitivo della liberaldemocrazia. Fukuyama si è attirato dotte, devastanti ironie. Ma, lo si può assolvere come una delle prime vittime di un certo disorientamento filosofico provocato dalla globalizzazione.

Al contrario dell’ingenuo nippoamericano, Jeremy Rifkin, economista, sociologo e futurologo, proclamava, nel 1995, l’inizio di una nuova fase della storia. Quella del post-mercato. A suo dire, centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, non avrebbero avuto più alcuna possibilità di trovare occupazione: fine del lavoro, titolo del suo omonimo best-seller. Le sue tesi, aggiornate nel 2000 in L’era dell’accesso, libro che preannuncia la fine della proprietà privata, sono state accolte con maggior rispetto. Entrambi gli autori si possono ascrivere alla categoria degli apocalittici, primo termine dell’efficace opposizione distintiva proposta, nel lontano 1964, da un giovane Umberto Eco. Fra cotanto senno, un pacato studioso tedesco di scenari economici, Gerd Gerken, pronunciava il requiem per il marketing (Addio al marketing, 1990).

Bisogna ammettere che l’iperbole è un meccanismo retorico decisamente efficace, almeno per chi azzarda profezie. Del resto, l’esagerazione si addice anche agli enunciati scientifici di una società in cui tutto sembra andare oltre il limite. L’iperbole è adatta a significare anche la velocità del cambiamento o, meglio, la sua discontinuità. Interruzione dello svolgersi degli eventi che è anche, vocabolario alla mano, assenza di sicurezza. Fine delle certezze. Fino all’iperbolica, postmoderna affermazione che l’unica rimasta è l’incertezza. Tesi propria anche del pensiero della complessità, grande sintesi filosofica degli anni ’80.

Più modestamente, mi permetto di alludere, anche se in prudente forma dubitativa, alla fine del terziario. Termine che, storicamente, ha avuto più fortuna nelle scienze aziendalistiche che in economia. A cominciare da quella classica che ne ha svalutato, fin dall’inizio, il concetto, considerandolo subordinato e residuale rispetto al settore della produzione manifatturiera industriale. Poiché quest’ultimo, perlomeno in occidente, gli è invece subordinato da quasi cinquant’anni, conviene rivalutarlo. Superandolo, negandolo dialetticamente. Operazione più contenuta delle autorevoli iperboli sulla storia e sul lavoro, ma legittimata, forse, da un orientamento di ricerca, il mio, che parte da Toffler per approdare, anche attraverso Rifkin, all’economia delle esperienze. Supporto concettuale del mio paradigma estetico, che propongo come modello teorico per interpretare i nuovi modi della creazione del valore in quel settore del terziario che, una volta, chiamavo marketing dei servizi. Il terziario è morto, viva il terziario!

 

1. L’ipotesi di lavoro

Propongo un paradigma evolutivo per il marketing dei servizi. Per aggiornare le due grandi sintesi concettuali, quella fondante di Philip Kotler, 1975, e quella più recente di Richard Normann, 1984, da lui "ridisegnata" nel 2001. Ma, anche per superare proposte teoriche (Pine e Gilmore, 1999) che pretendono di andare, come risposta agli inediti scenari della new economy, "oltre il servizio".

Il paradigma è quello estetico. Il mio obiettivo teorico: riconcettualizzare il marketing dei servizi in termini di estetica del terziario. L’auspicabile scopo operativo: la diffusione dei suoi principi, particolarmente nelle piccole e medie imprese. Ma, anche nella Pubblica Amministrazione e nella Sanità. Tutte le istituzioni burocratiche potrebbero avvalersi del nuovo paradigma per completare i progetti di trasformazione verso una postmodernità, inevitabilmente digitale, che, soprattutto in quelle zone d’ombra dove mai sono giunte visibilità e trasparenza, consentirebbe di superare a piè pari lo strutturale disordine di una goffa modernità.

Un’immodesta, plausibile utopia: che l’estetica del terziario diventi modello e progetto di business. Superando il paradigma della Total Quality. Utopia che sconfina in una necessaria, quasi innocente presunzione: che se ne parli anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Condizione indispensabile, in verità, per sensibilizzare i consumatori all’estetica del consumo, ma soprattutto i cittadini all’estetica dei comportamenti. Come a dire, a un nuovo stile di vita. Ecologico, consapevolmente orientato alla Qualità Sociale. Terziario trasfigurato, insomma, allargato a dismisura, in cui far convergere la domanda estetica sempre più diffusa, di massa. Per rendere più tollerabile la nostra quotidianità.

L’estetica del terziario prende le distanze dal marketing dei servizi ricapitalizzando sensibilità, conoscenze e competenze ormai metabolizzate. Si propone come sintesi di quei valori intangibili che cominciano ad essere riportati a bilancio economico. Nelle aziende e nelle istituzioni di servizio, la qualità estetica potrebbe, in futuro, essere anche certificata, come già si fa per quella ambientale.

 

1.1. Metodo, metafora, modello

Il metodo che propongo per l’applicazione concreta ed immediata del nuovo paradigma è quello della mobilitazione estetica permanente, all’insegna del fondamentalismo estetico. Doppia metafora iperbolica, certo, provocazione emotiva, ma anche modello di partecipazione sociale. Lo ritengo, anzi, l’uni-co paradigma ragionevolmente in grado di spostare idee, parole, cose e comportamenti dall’esteticamente residuale all’esteticamente fondamentale. Confronto esasperato, incontro-scontro fra estetica ed economia, per riclassificare le priorità fra bellezza, benessere, utilità, valore. Il punto di partenza deve essere la biosostenibilità, l’orizzonte può essere la felicità della vita.

Alcuni esempi di priorità riconfigurate: considerare la città residuale rispetto al verde, un’intrusa nel verde. E il degrado urbanistico delle periferie come calamità estetica. Oppure, l’automobile, anche quella "ecologica", come oggetto semplicemente estraneo a qualsiasi centro storico. O la fila, agli sportelli, alle casse, ai caselli dell’autostrada, come un’anacronistica sopravvivenza culturale di un’obsoleta organizzazione burocratica. E la qualità dei comportamenti come emergenza relazionale. Stabilito il nuovo ordine di valori, si può ripensare la progettualità sociale. Ma, le risorse necessarie a produrre il cambiamento devono essere, assolutamente, risorse naturali. L’ambiente, il riconoscimento dell’Altro da Sé, il dialogo, sono al tempo stesso il modello di base e le risorse naturali del paradigma estetico.

A dire il vero, questo orientamento è già implicito nelle filosofie gestionali della qualità. Ed anche nella domanda di servizi, che sempre più percepisce e valuta l’erogazione in base ad aspettative comunque riferite ad elementi ambientali, comportamentali, comunicazionali. Si tratta di esplicitarlo e radicalizzarlo, per farne plus teorico differenziale, modello comportamentale e di business.

Non si può, infine, prescindere dall’indicare una leva essenziale per operare in termini di estetica del terziario. È il benchmarking. L’uso intelligente e sistematico di questo strumento dell’economia della conoscenza consente formidabili vantaggi di creatività e velocità. Il mondo è pieno di casi estetici da studiare, per possibili adattamenti ai progetti settoriali di miglioramento cui si accenna in questo libro. È giusto tessere un preliminare, doveroso elogio al benchmarking.

2. Il terziario, oggi

In un vecchio vocabolario della lingua italiana (l’edizione 1971 del Devoto - Oli), alla voce "terziario" trovo, dopo "appartenente ad un ordine religioso" e "che occupa il posto corrispondente al tre", questa definizione: "la produzione dei servizi diversi, necessari talvolta in tutto il corso dello sviluppo economico, talvolta solo in alcune fasi di esso". Nello Zanichelli in cd-rom, del 2002, un più conciso: "detto del settore o dell’attività che produce o fornisce servizi". Più utile la forma flessa del lemma. Così, trovo che terziarizzare significa: "trasformare una realtà economica, aprendola al terziario, orientarsi verso il settore terziario". "Terziarizzazione" è, invece, "il processo socioeconomico per il quale, nell’ambito della popolazione attiva, prevalgono i lavoratori dei servizi rispetto a quelli occupati nell’industria o nell’agricoltura". Ma anche: "trasferimento di funzioni e servizi interni all’azienda ad un fornitore esterno". Viene indicato come termine sinonimo "outsourcing".

Nell’Italia degli anni 2000, il motore dello sviluppo è, naturalmente, il terziario. I servizi, pubblici e privati, per le famiglie e per le imprese, generano sempre più ricchezza (68,8% del Pil) ed occupazione (63% del totale). Importiamo più servizi di quanti ne esportiamo. Il saldo negativo è di tre miliardi di euro. Vale subito la pena di ricordare che il 70% dell’economia sommersa si annida proprio nel terziario. Importante a sapersi, non fosse altro perché tale situazione è un limite oggettivo alla possibile diffusione, più che dell’estetica del terziario, del basilare marketing dei servizi. Il terziario italiano, comunque, è generalmente giudicato inefficiente e inefficace. Il mancato ammodernamento è dovuto soprattutto a burocrazia, mancanza di flessibilità e conseguente scarsa competitività, lavoro sommerso, criminalità economica.

 

2.1. Nuove forme del lavoro

Ancora più importante è osservare che, particolarmente nel terziario, si sta sviluppando la nuova forma-lavoro. È uno scenario di indeterminatezza in cui si muovono, ormai, molti lavoratori individuali. Dodici milioni di persone, imprenditori, consulenti, collaboratori continuativi e non continuativi, lavoratori interinali. Conviene subito omogeneizzarli in una definizione più aggiornata: manager di se stessi, indipendentemente dai ruoli svolti. Condividono nuovi contenuti di professionalità, consapevolezza, cultura, creatività. Si dichiarano aperti all’innovazione. Sono sempre meno disposti a qualsiasi contratto di appartenenza e fedeltà. Praticano un’etica del tornaconto individuale. Chiedono formazione "a rete" e sono disposti ad investire in autoformazione. Sensibili ai contenuti "autoespressivi" del lavoro, insomma. Non solo i giovani, non solo al Nord. Nella nuova economia delle reti, queste persone, dal ruolo sempre più indistinto fra lavoro dipendente e lavoro autonomo, sembrano sufficientemente consapevoli di vecchi e nuovi rischi e inedite opportunità. Compresa quella di liberare il proprio tempo personale, non più organizzato da altri. Oppure, sperimentare il lavoro come esperienza temporanea, discrezionale, come accesso e non come "proprietà", di un posto fisso.

Su questo scenario ha fatto irruzione, nel febbraio del 2003, la legge di riforma del mercato del lavoro. Dovrebbe, fra l’altro, abolire l’ambigua formula della collaborazione coordinata continuativa, sostituendola con i "contratti a progetto". Flessibilità e velocità promesse anche dal "lavoro a chiamata telefonica", nonché dalla Borsa telematica delle assunzioni. Se quest’ultima funzionasse davvero, si avrebbe uno dei più concreti risultati della digitalizzazione del terziario: l’incontro in rete di domanda e offerta di lavoro.

In realtà, anche il terziario sembra partecipare del fenomeno, messo in luce nel 2006 dall’Associazione Nuovi Lavori. Nel mercato del lavoro, a quella data, solo il 9,4% dei contratti risultava regolato dalla legge Biagi. Fine della flessibilità e del precariato? Di certo, nelle aziende di produzione, la prima non è più una leva gestionale strategica. Per gli imprenditori sono tornati importanti la motivazione ed il rapporto continuativo di fiducia. Potrebbe essere una nuova stagione per la gestione delle risorse umane: fidelizzazione del cliente interno.

In ogni caso, già si affollano connotazioni sinonime, da tenere sotto controllo. Anche e soprattutto il terziario può essere contestualizzato in una plausibilissima "società delle opportunità". La formazione ne è la chiave di volta. Quella permanente, quella per imparare ad imparare. Perché, come si continua a ripetere, il sapere è la materia prima dell’era della conoscenza.

I sociologi sono impegnati, da tempo, a definire il nuovo statuto del lavoro autonomo nello scenario postfordista. Sergio Bologna, curatore del volume Il lavoro autonomo di seconda generazione, focalizzando l’analisi sui contenuti delle prestazioni e sulle relazioni sociali che fondano le nuove professionalità indipendenti, si riferisce a dieci variabili di una vera e propria "economia politica del lavoro autonomo". Sono: contenuto, percezione dello spazio, percezione del tempo, identità professionale, forma della retribuzione, risorse necessarie all’ingresso, risorse necessarie al mantenimento, mercato, organizzazione e rappresentanza degli interessi, cittadinanza.

Pierpaolo Donati, da parte sua, parla di "mutazione genetica del lavoro". Sbagliano - dice - Jeremy Rifkin e Viviane Forrester a proclamarne la fine. La sua tesi: il lavoro, ormai, non è più un fatto economico, com’era tipico della società industriale. È un’attività prevalentemente sociale, finalizzata a produrre relazioni. Basti pensare ai servizi alla persona. O alla valenza strategica di relazioni di qualità nel settore turistico-alberghiero e nella Sanità. Ma, ovviamente, tutto il terziario si caratterizza sempre più come attività di scambio sociale. Fino ad accomunare nei processi di creazione del valore le parti, fornitore e cliente, che nell’economia manifatturiera erano nettamente antagoniste. In realtà, tutto il marketing è ormai relazionale, legittimato da postulati macroeconomici che rimandano, come vedremo, alla fondamentale importanza dei beni relazionali.

 

2.2. Delocalizzazione

Anche i servizi si globalizzano. E si delocalizzano. Call Center, agenzie di consulenza, di intermediazioni finanziarie, software house operano sempre più dal terzo mondo, esattamente come succede per la produzione manifatturiera. Si può dire, anzi che i paesi poveri hanno cominciato a… esportare servizi. Anche loro sono entrati, magari per procura, nell’economia della conoscenza. L’India è il partner privilegiato per l’outsourcing statunitense. Per la Dell, ad esempio, lavorano migliaia di assistenti telefonici post-vendita. Per non parlare delle banche, con i loro servizi avanzati. Dai call center alle più sofisticate attività di back-office, la progressione è stata veloce e impressionante. Non solo grazie al vantaggio della condivisione della lingua inglese, ma anche perché i giovani indiani sono depositari di un aggiornato sapere scientifico e tecnologico. E i neolaureati di tutto il subcontinente asiatico hanno salari d’in-gresso nel terziario dei servizi globalizzati che sono quadruplicati nel giro di sette anni. Ovvio che Bill Gates abbia scelto proprio New Delhi per implementare, nel 2006, il centro di innovazione per il software low-cost (investimento di 1,7 milioni di dollari). Più vicino a noi, dal Magreb, operatori marocchini rispondono a clienti spagnoli e call center "tedeschi" sono allocati in vari paesi dell’Est europeo.

 

 

3. Creatività

Per poter proporre il valore estetico quale forma più aggiornata e completa del valore economico è necessario comprendere nel nuovo paradigma anche quegli operatori di terziario portatori di un valore aggiunto che coincide con il loro stile di vita. Sono i creatives, gente che "viene pagata per quello che pensa" (e per produrre dei risultati). Negli Stati Uniti, costituiscono già il 30% della forza lavoro. Architetti, artisti, consulenti di marketing, esperti di finanza, giornalisti, ideatori di software, musicisti, scrittori. Stipendi medi di 50.000 dollari l’anno, contro i 28.000 della working class e i 22.000 della service class (significativo, come vedremo, quest’ultimo dato). Il loro nomadismo può incontrare e modificare il destino di altri attori, quelli territoriali: città, aree metropolitane, regioni. Entità che, secondo Richard Normann, hanno tutto l’interesse ad attirarli. Per diventare più competitive, con un "mana-gement strategico di coalizione".

Un terziario innovativo non può che essere creativo. Abbellire, ammodernare, migliorare, restaurare, restituire, rispettare, salvare l’ambiente e la città sono attività creative. Obiettivi perseguibili con la concretezza della fantasia. Ossìmoro caro anche a Domenico De Masi. Perché i creativi "producono idee, dunque, beni, dunque ricchezza". Che l’economia sia sempre stata strettamente legata alla produzione di idee non è certo una novità. La creatività, forse più per l’Italia che per il Giappone, è stata la leva determinante per fare del nostro Paese, scarsamente dotato di materie prime come l’operosa nazione asiatica, uno dei paesi più industrializzati del mondo. Non solo perché "è riuscita a produrre e vendere beni immateriali", ma perché ha sempre potuto coltivare un primato di stile capitalizzabile come valore aggiunto anche nella manifattura industriale. Condivisibile, comunque, l’opinione di De Masi sulla necessità prioritaria e strategica di come far funzionare al meglio questa dote. Nella sua idea di organizzazione del lavoro, è altrettanto necessario intervenire creativamente (ed esteticamente, aggiungo) negli ambienti dove si svolgono le attività produttive e di servizio, anche rendendo più flessibile il tempo dedicato. Per superare definitivamente l’obsoleta, disfunzionale idea fordista del tempo e dello spazio. Bisogna smitizzare, di conseguenza, il lavoro stesso. Per De Masi, come è noto, deve assomigliare al gioco e al tempo libero o, meglio, all’ozio creativo. Ho utilizzato il corsivo per riconoscere nelle opinioni di De Masi alcune delle idee guida di questo libro. Fra di esse, la convinzione che, nel terziario, la produzione di idee sia l’attività per eccellenza: creattività.

 

3.1. Le tre T

Nuovi scenari, nuove forme del lavoro, nuove opportunità concorrono, dunque, a rendere urgente la necessità di riconcettualizzare il terziario e l’economia dei servizi. Per fare dell’estetica del terziario un concreto modello di business, è implicita l’opzione privilegiata per la creatività come produzione di idee. Per produrle ci vogliono intelligenza, originalità, fantasia. Ma anche le tre T di Richard Florida, docente di sviluppo economico regionale a Pittsburgh: tecnologia, talento e tolleranza. Sempre i creativi, dunque, come nuovi, determinanti attori economici. Il loro stile di vita complessivo è la traduzione quotidiana dei nuovi valori esistenziali, quelli che raccomandano di destrutturare il tempo. Confusione creativa in cui apprendimento, divertimento, lavoro sono gestiti senza alcun riferimento a fantasmi tayloristici e a schemi fordisti. Privilegio attuale dei lavoratori della conoscenza. In attesa che altre categorie professionali, ma anche esecutive, si liberino delle forme obsolete di organizzazione del lavoro.

Per un terziario creativo, orientato al ludico, aggettivo di cui propongo, con disincanto e determinazione, un recupero economico, anche l’organiz-zazione stessa del lavoro deve essere creativa. Terziario aperto alla capitalizzazione del valore simbolico, componente essenziale del valore aggiunto estetico. Terziario in cui piccolissime, piccole e medie imprese possano operare in una logica autenticamente ecologica. Dove quell’eco, come dice il vocabolario, è il tema linguistico di una costellazione di significati che rimandano all’ambiente e alla casa. Cioè ai modelli naturali dell’estetica del terziario.

 

4. Una questione complessa

Figlio del welfare state, il marketing dei servizi, tessuto connettivo del terziario, deve essere adeguatamente contestualizzato. In ambito sociologico, anzitutto. Già il marketing generale, quello del primo Kotler, rivendica particolare attenzione da parte non solo della sociologia, ma anche di altre scienze umane. Si può dire che ne è discorso particolare, applicato. Non certo al consumo o, peggio, al consumismo, come qualcuno si attarda ancora a pensare. Ma, alla complessità di quel fenomeno denominato scambio. Per un inquadramento epistemologico del marketing dei servizi, operazione preliminare al suo superamento concettuale, possiamo partire proprio dal concetto di complessità. Premessa a una breve, ma indispensabile, riflessione antropologica e semiologica sullo scambio e la sua altrettanta necessaria ridefinizione e contestualizzazione nell’attuale scenario della globalizzazione.

Quando sia nata la complessità sociale, lo si può leggere in quell’impor-tantissimo, agile pamphlet in cui Jean François Lyotard, ha definito e descritto la condizione postmoderna. È uno studio condotto nell’ambito della collaborazione fra Università e governo del Quebec, che ne ha autorizzato la pubblicazione, in Francia, nel lontano 1979. Due anni dopo, la traduzione in italiano. Si tratta di un rapporto sullo statuto del sapere, messo in crisi dalla… crisi delle narrazioni.

Anche il sapere scientifico, infatti, è una narrazione, che si trasmette attraverso discorsi. Proprio come i miti, le favole, il gossip. O come la pubblicità, forma particolarmente invadente di racconto sociale. A partire dagli anni ’60, la tecnologia e, in particolare, l’informatizzazione della società hanno cominciato a incidere sul sapere:

è ragionevole pensare che la moltiplicazione di queste macchine per il trattamento delle informazioni investe ed investirà la circolazione delle conoscenze, così com’è avvenuto con lo sviluppo dei mezzi di circolazione delle persone, prima (trasporti), e di quelli dei suoni e delle immagini, poi (media) (Lyotard, 1981, 11).

Aveva visto giusto. Su questa premessa, Lyotard ha preannunciato il futuro del sapere come merce prodotta per essere venduta. Il nuovo mercato, mercato della conoscenza, è conseguenza dello sviluppo (e dell’ipersviluppo) dei media. Il sapere commercializzato, postmoderno, fattore di produzione, è diverso dalla precedente "sapienza." Ancora una citazione di notevole chiaroveggenza:

Nella sua forma di merce — informazione indispensabile alla potenza produttiva, il sapere è già e sarà sempre più una delle maggiori poste, se non la più importante, della competizione mondiale per il potere. Come gli Stati-nazione si sono battuti per dominare dei territori, e in seguito per controllare l’accesso e lo sfruttamento delle materie prime e della mano d’opera a buon mercato, è ipotizzabile che, in futuro, essi si batteranno per dominare l’informazione. Così viene ad aprirsi un nuovo campo alle strategie industriali e commerciali ed alle strategie militari e politiche (1981, pag. 14).

Lyotard anticipa anche quell’ideologia della trasparenza che, in effetti, ai nostri giorni, ha già indebolito il privilegio istituzionale della trasmissione del sapere e delle informazioni. Paradossalmente, anche lo stato è già diventato "un utente come gli altri".

 

4.1. Paradossi

Penso che qualsiasi sensato analista della complessità non possa che proporre il ragionamento per paradossi. È il costo cognitivo della complessità stessa. Ma anche una formidabile opportunità per aggiornare il nostro modo di pensare e di agire. Il vocabolario dice che è paradossale, contro l’opinione, un’argomentazione "formulata in apparente contraddizione con l’esperienza comune o con i principi elementari della logica, ma che sottoposta a rigoroso esame critico, si dimostra valida".

L’importante, però, è evidenziarli i paradossi, ed essere capaci di stupirsene. Il primo compito è efficacemente assolto, oltre che da Lyotard, da studiosi come Alvin Toffler e Jeremy Rifkin, ma anche da Domenico De Masi. Un paradosso con cui fare subito i conti è quello della falsa abbondanza. Riguarda principalmente l’accesso all’informazione e la disponibilità di conoscenza. Il luogo emblematico è Internet, dove non si trova tutto, ma di tutto. Oppure, quello della razionalità organizzativa, giustamente indicata come razionalità limitata, più efficacemente esprimibile nell’ossìmoro della razionalità irrazionale. Che connota, ad esempio, la pubblica amministrazione e molti sistemi sanitari nazionali. Non solo quelli italiani.

Una considerazione linguistica. È senz’altro un paradosso semantico quello che riguarda gli avverbi, umili parti invariabili del discorso. Che fissano, però, spazio, tempo e modo dei più autorevoli verbi. Insomma, c’è più verità nell’avverbio che nelle migliori intenzioni di un verbo. Nel nostro caso, si tratta di applicare realmente i modelli, di fare e far fare effettivamente quello che propone il nuovo paradigma dell’estetica del terziario. Perché quelli della Qualità Totale e della Customer Satisfaction, validissimi come proposte di valore, potrebbero essere transitati troppo presto nel campo delle mode e delle ideologie. Soffermandosi troppo poco nelle azioni autenticamente strategiche.

 

4.2. Complessità, estetica, etica

Per quanto riguarda l’Italia, ci siamo accorti della complessità sociale, almeno a livello teorico, nella prima metà degli anni ’80. La sfida della complessità era il titolo di un convegno svoltosi a Milano, nel 1984. Relatori, italiani e stranieri, una ventina fra filosofi, epistemologi e scienziati, si incontrarono per discutere di caduta delle certezze e per prendere atto della fine delle secolari presunzioni di completezza ed esaustività della conoscenza. Irrompeva il paradigma dell’incertezza, già indicato da Lyotard. Quel dibattito, raccolto successivamente in un libro pubblicato nel 1985, alimenta ancora, dopo tanto tempo, il dissidio teorico. E non ha certo esaurito il suo valore di documento e stimolo per i ricercatori e gli operatori sociali e neppure per i consulenti e i formatori aziendali. Anche questi ultimi hanno bisogno di un

… modello che esprima contemporaneamente unità, molteplicità, totalità, organizzazione e complessità. L’ipotesi proposta dalle scienze della complessità, ad esempio, è quella di un processo evolutivo unitario che costruisce, come insieme, i sistemi con una progressione graduale, che parte dal campo della fisica e interessa via via i campi della chimica, della biologia e delle scienze sociali. Tale processo evolutivo unitario è basato sul fatto che tutti i sistemi emergono entro un flusso di energia e sono fondamentalmente aperti, cioè in continua interazione con l’esterno.

La citazione è di Ivano Spano, un sociologo che ha sempre ancorato le sue ricerche su qualità totale, qualità del servizio nel privato e nella Pubblica Amministrazione, gestione della risorsa umana, al pensiero della complessità. Anche l’organizzazione aziendale, ovviamente, è una realtà complessa. È sistema, totalità, globalità, complementarità, in grado di modificare potenzialità e qualità delle persone che vi fanno parte e di ricomporle in equilibri omeostatici. Paradosso concettuale, ci costringe a pensare "in maniera complessa, le nozioni di tutto, di parti, di uno, di diverso". Organizzazione della disorganizzazione, falsa tautologia. Ma, soprattutto, sistema che si autorganizza. Comunicazione e leadership autorevole, motivante, partecipante producono quella particolare forma di autorganizzazione che è il consenso. Che, se assume la forma di solidarietà organizzativa, può aprire più efficacemente alla possibilità di una cultura aziendale eticamente ed esteticamente forte. Anche i bisogni interni all’organizzazione hanno una loro dimensione estetica, cui conviene assegnare priorità. Possiamo dire, anzi che l’estetica organizzativa è il modello visibile dell’etica aziendale.

 

4.3. Complessità e marketing dei servizi

Le suggestioni della complessità sono state produttive anche nell’ambito del marketing. Sicuramente, più in quello dei servizi che dei prodotti. Que-st’ultimo ha potuto indugiare all’ombra di paradigmi più tradizionali, senza rischiare particolari danni teorici. In ogni caso, anche il marketing dei prodotti può trarre vantaggi concettuali dal pensiero della complessità. Fra i maggiori, quasi immediati: lo spostamento delle crucialità, nella catena del valore, dai fattori tangibili a quelli intangibili. Le tradizionali caratteristiche costitutive del servizio, infatti, intangibilità, eterogeneità degli standard, non trasferibilità della proprietà, inapplicabilità del concetto di stoccaggio, contestualità di erogazione e consumo, sembrano invocare spontaneamente metodologie e pratiche di tipo sistemico. Che rimangono necessarie, nonostante l’invito di Enzo Rullani (2005) a superare ambiguità e sovrapposizioni semantiche, di eredità fordista, fra beni e servizi.

È proprio l’estetica dei fenomeni complessi che può favorire il superamento della logica tradizionale del servizio, per aprire al nuovo paradigma dell’estetica del terziario. Se anche in ambito di business la complessità diventa modello, vi è la necessità, anzitutto, di superare le tradizionali definizioni degli attori che operano negli scenari del mondo del lavoro. Oltre le omologazioni sociologiche dei rapporti di produzione, è plausibile ridefinire i soggetti in base alla loro reale contrattualità nei rapporti di comunicazione. Meglio ancora, si potrebbe azzardarne la connotazione per "classi semiotiche". Per indicare con minore ingenuità il reale significato di "nuova economia", in cui i ruoli tradizionali di produttori e consumatori sfumano in quelli apparentemente più generici di fornitori e clienti. Fornitori di accessi e non solo di beni, erogatori di esperienze e non solo di servizi. Ai consumatori, ma anche alle persone, ai cittadini che vogliono fruire quotidianamente di bellezza e benessere, basi della qualità ambientale e sociale, cioè della felicità della vita.

Nel consumo, la comunicazione e l’immagine veicolano già la rappresentazione di oggetti semiotici resi iconici dalla moda e dalla pubblicità. Ma, conviene ripeterlo, l’estetica del terziario deve fondarsi su una più concreta estetica del quotidiano. Solo così il soggetto potrebbe recuperare spazi autentici e personali dalla cultura di massa. Piegando a suo vantaggio alcuni paradossi della complessità sociale.

 

5. Della visibilità

In tempi di postmodernità, postcapitalismo, nuova economia, l’emancipa-zione estetica di massa, che una volta si esauriva prevalentemente nel consumo, con l’estetizzazione delle merci, si è estesa anche alla comunicazione o, meglio, alla connessione, nuovo imperativo sociale. Bisogna essere in rete. Questo, almeno, l’auspicio di vecchi (i produttori di computer) e nuovi (i fornitori di software) operatori della new economy. Internet come sistema neurale, come digitalizzazione della noosfera. Addio McLuhan e Theillard de Chardin. Così parlò Negroponte.

In realtà, è l’immagine visiva a connetterci, a globalizzare anche il nostro immaginario. Iconologia, che ha ormai soppiantato perfino l’ideologia. Con il risultato di un progressivo impoverimento cognitivo, sostengono in molti (il filosofo francese Paul Virilio dice che la conoscenza stessa è, ormai, di tipo voyeuristico). Ma, conviene differire la riflessione critica sulla visibilità a favore di una sua preliminare contestualizzazione. Ce lo consente la lettura incrociata di due autori che ne parlano a diverso titolo. Così il primo, Fulvio Carmagnola, filosofo, ma anche formatore e consulente:

Il nostro punto di partenza è l’estetica, perché la società postindustriale si presenta come dominio del visibile. Definiamo la visibilità come una forma di estetica diffusa, un’estetica del quotidiano basata sulla continua stimolazione delle percezioni e dei gusti del fruitore, una forma di educazione ai messaggi contenenti inviti alla scelta di gusto massificata. La dimensione estetica è diventata elemento discriminante del giudizio sia in sede scientifica che nelle scelte dei consumatori e nelle politiche dell’industria (1989, pag. 23).

Questo è, invece, Dario Barassi, manager e consulente, ma anche filosofo:

Visibilità è produzione di valore sociale: la personalità sociale dell’impresa. La strategia della visibilità ha per obiettivo quello di accrescere il valore sociale sia all’esterno che all’interno; si estrinseca su due livelli: l’immagine imitazione e la rappresentazione (1988, pag. 71).

Poiché, stavolta, il corsivo non è mio, è giusto chiarire, per un utilizzo corretto e efficace della citazione, che cosa intende dire Barassi. In nome della visibilità — sostiene - è necessario che servizio e azienda abbiano una coerente condivisione di identità. Su questa premessa, l’immagine imitazione deve essere "svelata". Solo così si veicola più efficacemente la company image. Anche la rappresentazione è amplificazione dell’immagine, immagine aggiunta. Per allegoria, per simbologia, soprattutto per metafora. È la premessa al concetto di service idea, modello per creare valore nelle imprese di terziario, capitalizzando strategicamente la loro capacità di produrre visibilità sociale. Risultato di un management delle risorse simboliche. Concetti formulati nel 1988, ripresi piuttosto riduttivamente, oggi, a proposito di bilanci dell’in-tangibilità.

 

5.1. Apparenza, ambiguità, simulazione

Tornando al discorso critico sulla visibilità, ci rendiamo conto che predomina più che mai, e non solo negli ambienti di business, quell'estetica delle apparenze che Carmagnola chiama "ambiguità del visibile". Su questa ambiguità, altro paradosso costitutivo della società postindustriale, può ancorarsi, con tutti i rischi del caso, anche il mio approccio estetico alle problematiche del servizio. Adesione pericolosa, dal punto di vista filosofico, rischio epistemologico consapevole, invece, per mettere meglio a fuoco l’orizzonte del terziario. C’è, effettivamente, il pericolo che l’iconologia produca una drammatica e forse irreversibile estetica dei simulacri, un’ottundente banalizzazione della realtà. È l’inquietante orizzonte della simulazione, paventato da Jean Baudrillard: "… il grande evento di questo periodo, il grande trauma, è questa agonia dei referenti forti, l’agonia del reale e del razionale, che introduce un’idea della simulazione… "(1980, pag. 227).

Negli anni ’70, il filosofo francese (e non era il solo fra gli intellettuali europei) si dimostrava autenticamente angosciato dalle nuove possibilità della telematica e, in particolare, dal doppio senso di circolazione dei messaggi, reso possibile dalla digitalizzazione dell’analogico. Condivideva l’opinione di Simon Nora, per il quale questa rivoluzione era seconda solo all’invenzione della scrittura. E prevedeva lo sconvolgimento dello statuto del sapere. Cultura, trasmissione delle esperienze, memoria, storia avrebbero subito una mutazione inedita. Ne sarebbe derivata una società disincarnata, anzi, senz’anima. Non più relazioni sociali, ma sequenze informative. Messaggi contraddittori che avrebbero eliso e neutralizzato il senso di discorsi contrapposti in disinvolti ossìmori, come nel caso del dossier televisivo sui danni del fumo, seguito dalla pubblicità delle sigarette. Con l’ulteriore paradosso della verità del simulacro. Nel senso che quest’ultimo non nasconde la verità, bensì il fatto che non c’è verità. Il simulacro della postmodernità come copia di un originale perduto. Immagini senza referente, pura apparenza. Pervasività visiva. Iconologia.

 

5.2. Simulazione digitale

Le "profezie" di Baudrillard si sono avverate. Oggi, le nostre percezioni sono sempre più mediate dalla simulazione digitale. La stessa sensibilità estetica soggettiva è diventata un semplice aspetto del comportamento di consumo. Idee, messaggi, oggetti e processi si confondono nel flusso ininterrotto di quella comunicazione estetica che certo marketing ha ormai strutturato come bisogno. Ennesimo paradosso, secondo Carmagnola:

Il soggetto dei bisogni che il marxismo definiva strutturalmente esterno alla società presente, è diventato, anche nella dimensione estetica, la principale risorsa che permette la sopravvivenza della società dei consumi e dei mercati — come già era evidente nelle teorie sottoconsumistiche della crisi economica di stampo keynesiano. Questa società complessa oggi insegue in ogni momento, nevroticamente, l’innovazione nei gusti, nelle percezioni e negli stili, come aspetto sovrastrutturale delle strategie di innovazione industriali (1989, pag. 40).

Nonostante gli avvertimenti di Baudrillard e Carmagnola, ribadisco di accettare il rischio dell’ambiguità del visibile. Perché mi ostino a pensare che la visibilità, oltre che obbligarci a nuove interpretazioni del reale, può comunque fornire valore aggiunto a un’economia sempre più complessa e dematerializzata. Non solo. Può essere proprio il concetto di visibilità la chiave per recuperare quell’estetica del quotidiano che ritengo indispensabile per prendere le distanze dagli attuali paradigmi del marketing dei servizi, centrati sul consumatore anziché sulla persona, sul cliente anziché sul cittadino (nell’accezione di appartenente ad una comunità, titolare di diritti e doveri).

 

5.3. Patologie delle visibilità

Qualsiasi simulazione può considerarsi patologia della visibilità. Ma, la più eclatante e pervasiva è la spettacolarizzazione. Nel gioco ineluttabilmente postmoderno e un po’ perverso della riduzione del reale alla sua immagine simbolica, sono coinvolti sia il consumatore che il produttore. Quest’ultimo, nonostante il suo potere manipolativo, non può sottrarsi al ruolo di maschera "che recita sul set spettacolare". Spettacolarità come vera e propria entropia del senso, come ipervisibilità che confonde, nella simulazione, attività lavorative e ludiche, oggetti ed immagini. In queste condizioni, è come se la percezione visiva prendesse sempre più le distanze da quella tattile. Come se anche le fruizioni estetiche dipendessero sempre più dalla mediazione televisiva o del computer. Come se la rappresentazione continuasse inesorabilmente a cedere quote di realtà alla simulazione. La spettacolarizzazione, degenerazione patologica della visibilità o perversione mediatica, è il rischio maggiore dell’estetica della comunicazione.

Ma che cos’è la spettacolarizzazione? Non solo eccesso, ma, secondo Guy Debord, forma strutturale di tutti i vissuti sociali:

Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione (1992, pag. 53).

Evidente parafrasi marxiana, è il primo dei 221 aforismi che compongono l’originaria edizione francese de La Société du Spectacle dell’ironico fondatore dell’Internazionale Situazionista. Il riferimento a questo geniale "dottore in nulla", come amava autodefinirsi, può introdurre in maniera efficace la questione del ludico, altro fondamentale capitolo della complessità sociale. Aggiornato dai Commentari sulla società dello spettacolo e da prefazioni recenti, il testo merita di essere riletto almeno per questo superbo esempio di profezia che si è autoavverata. Unica profezia marxiana, secondo alcuni. Perché lo spettacolo di cui parla Debord è quello della merce. E il lavoro necessario per produrla, da attivo è diventato passivo. Guarda, controlla il farsi della produzione automatizzata, sempre più immateriale, sempre più spettacolare. Così, l’irrealtà della merce, nella sua prevalente forma di valore di scambio, incontra l’ipersviluppo dei media.

Lo spettacolo integrato, convergenza delle precedenti modalità, quella concentrata, che era propria dei paesi ad economia pianificata e quella occidentale, di tipo "diffuso", è ormai pervasivo. Coincide con la società dei consumi. E, indubbiamente, un linguaggio datato: il lavoratore alienato diventa consumatore alienato. Ma, la denuncia rimane di sorprendente attualità per il fatto che, oggi, si consumano più spettacoli che merci. E la forma attuale dell’alienazione consumistica, del lavoro non retribuito di consumatore, come si diceva una volta, è ormai codificata e legittimata dal costume televisivo. Non solo. Gli indici di ascolto trasformano i telespettatori in dati, da vendere agli inserzionisti pubblicitari.

 

5.4. Icone dell’iconologia

Ma, l’icona più impressionante da consegnare alla storia per testimoniare il nuovo potere dell’iconologia sulla politica e sull’ideologia resterà, a mio parere, lo spot pubblicitario in cui Gorbaciov, l’ex leader della ex seconda superpotenza planetaria, fece da testimonial alla pizza Hat. Spettacolarità commerciale, trasfigurazione transpolitica che, da noi, ha avuto come protagonista Giulio Andreotti, nella pubblicità dei telefonini.

Ma, sono disponibili altre testimonianze di perversa reversibilità del politico nello spettacolare. In Argentina, una rete televisiva privata ha mandato in onda una trasmissione intitolata Il candidato del popolo. Format tipo il Grande Fratello. Fra i sedici finalisti superstiti di una selezione fra ottocento persone di tutti i ceti, il pubblico ha democraticamente scelto un vincitore. Cui è stato assegnato… un partito politico! Proprio così. Si è presentato come leader di una strana coalizione ludica, alle elezioni del 2003.

Anche il canale via cavo Fx, della News Corporation di New York, ha avuto la stessa idea. American Candidate è il gioco a eliminazione che ha scelto un candidato per le elezioni presidenziali americane del 2004. La formula ha replicato, in un banale benchmarking interno, quella utilizzata da tempo per scoprire talenti musicali (il programma si chiama American Idol). Parodia del sistema elettorale o approdo finale della spettacolarizzazione della politica? In un paese che ha avuto come presidente un attore di Hollywood, lo show è stato annunciato come test di democrazia. Anche l’uomo della strada, si sa, negli Stati Uniti, può diventare presidente. Così, il vincitore, lanciato da una vera e propria convention concomitante a quella istituzionale, il 4 luglio 2004 ha… sfidato i candidati democratico e repubblicano. Oltre Debord.

 

6. Del ludico

L’impegno dichiarato della società dello spettacolo, con buona pace di Debord, è naturalmente, quello di farci divertire. Ma, ci impone l’intrattenimento come imperativo. L’opinione di Tom Peters: "Non è esagerato dire che tutti, oggi come oggi, stanno entrando nell’industria del divertimento" (1991, pag. 104). Bisogna consumare giochi. La versione televisiva del nuovo comandamento, giochi più spettacolo, è quella che, tra l’altro, riesce a mantenere il più elevato livello di efficacia dei messaggi pubblicitari. Di certo, il ludico è un "colossale affare economico", oltre che una simulazione della fantasia del gioco.

La citazione da Peters recupera mie antiche adesioni alla sociologia critica, non necessariamente marxiana. Utile antidoto alle suggestioni della positivizzazione del ludico, proposto come modello di vita e di lavoro. Proposta ambigua e intrigante, sempre più consapevole di plausibili legittimazioni antropologiche e semiologiche. Divertirsi significa, etimologicamente, "spostarsi", "cambiare direzione". Spostarsi dalla quotidianità sul piano dell’evasione fantastica. Fino all’alienazione, dicono, fra gli altri, Baudrillard e Debord. Fino alla disperazione, azzarda il controcanto italiano del più esagerato Alberto Abruzzese. Ma, neppure l’americano Neil Postman scherzava, quando, affermava, in Divertirsi da morire: "Ci sono due modi per spegnere lo spirito di una civiltà. Nel primo — quello orwelliano — la cultura diventa una prigione. Nel secondo — quello huxleiano — diventa una farsa… Quando un intero popolo si trasforma in spettatore e ogni affare pubblico in vaudeville, allora la nazione è in pericolo" (2002, pag. 47).

Ermanno Bencivegna, che ha scritto un più moderato Giocare per forza, insiste nella denuncia di un pericoloso ottundimento mentale, di una massiccia infantilizzazione collettiva. Di certo, l’offerta di entertainment non ha nulla a che vedere con il gioco creativo, con la fantasia, con la festa. Piuttosto, ricicla qualsiasi aspetto della storia e della cronaca nel meccanismo omogeneizzante e demenziale dell’eterno presente del quiz. Visto e udito in un programma televisivo: il presentatore propone la scelta fra tre risposte a una domanda su un famoso caso giudiziario del secondo dopoguerra. La vittima era stata accoltellata, colpita da un proiettile o strangolata? Il concorrente, emozionato, azzarda la terza ipotesi. Trionfo di applausi e musica, sincera e affettuosa partecipazione del conduttore. Ha vinto! La vittima è proprio stata strangolata. E si passa alla domanda successiva, musica leggera. A proposito di quiz: una ricerca del 2001 ha evidenziato che il 70% degli italiani ritiene che quelli dei programmi televisivi siano addirittura un buon sistema di apprendimento. Ma, la vera libidine sembra essere la partecipazione dal vivo, per il suo valore aggiunto di visibilità e notorietà.

Nella società dello spettacolo, si può dire che un’estetica pervasiva si proponga come valore-guida della nostra quotidianità. Con effetti tutt’altro che liberatori. Non incontriamo la bellezza come appagamento dello spirito, come contemplazione. Sperimentiamo, piuttosto, la generalizzazione di una simulazione che ci presenta sempre più l’apparenza come realtà. Inganno da cui ci si può liberare, accettando l’incerto statuto del reale, per ricercare individualmente conoscenza, causa, verità. Anche il tempo libero, naturalmente, è fagocitato dalla dimensione ludica. Tempo privato, discrezionale, ma organizzato dagli altri, dagli operatori specializzati. Che, paradossalmente, gestendolo in nostra vece, ce ne concedono l’accesso nelle forme preconfezionate di libertà organizzata, socializzazione forzata, programmazione totale, "personalizzazione" assoluta.

6.1. Feste

Johan Huizinga, autore di Homo Ludens, afferma l’assoluta priorità del ludico rispetto all’economico. Il che comporta il pesante corollario di una possibile anteriorità del desiderio sul bisogno, del premio sul guadagno, delle attività improduttive sull’economia del rendimento. Come a dire che, anziché alla sociologia critica è concettualmente più vantaggioso ancorare all’antropologia qualsiasi discorso sulla produzione e sul consumo. Comprendendo anche la riflessione sulla festa, nel suo rapporto con l’economia. Provocatoria, al riguardo, la considerazione del sociologo Jean Duvignaud:

a dire il vero è la storia intera dell’uomo che bisognerebbe scrivere di nuovo, mettendo tra parentesi l’ideologia del rendimento, il funzionalismo dell’utilità o la ricerca del profitto, i cui principi sono stati ispirati dalla mentalità commerciale al tempo di Franklin e Adam Smith. Tutta una storia in cui si darebbe al fascino delle cose inutili o invisibili il posto che richiede e che merita (1984, pag. 57)

In effetti, sia la sociologia classica, quella di Durkheim, ma anche il pensiero più radicale dei vari Bataille, Callois, Le Roy Ladurie si autolimitano entro l’orizzonte teorico della funzionalità. Mentre la festa non serve a niente. Servono, eccome, le feste organizzate, quelle che è più giusto chiamare festival. Inseparabili dall’economia, quella del capitalismo culturale, della visibilità e della spettacolarità, si riproducono periodicamente in una ciclicità nien-t’affatto naturale, ma commerciale. La festa è (era) una produzione sociale spontanea, correlata all’organizzazione del tempo, di cui ne caratterizza la ritmicità. Fondata sul sacro, è stata una forma dominante di organizzazione della vita quotidiana fin quasi all’inizio del XVIII secolo. Addirittura, fino al quindicesimo secolo, era festivo un giorno su tre! Poi, le feste hanno dovuto progressivamente arrendersi alla Chiesa, al Re e, successivamente, al Lavoro. Il cattolicesimo ne ha limitato il numero, la riforma protestante ha riconvertito il loro tempo all’impegno operoso, i nobili le hanno espropriate per farne teatro e cerimonia (trasformando il popolo da protagonista a spettatore). Ma, è stata la rivoluzione industriale a ridimensionarla per sempre. La sua trasformazione a festival, a oggetto di consumo, è storia recente. Storicamente inedito, invece, è il suo attuale statuto. Nella nuova era del capitalismo culturale, la festa marca il passaggio dalla produzione industriale a quella di eventi. Sempre festa espropriata, mercificata. Ne è convinto Rifkin: "…Mentre l’era industriale è stata caratterizzata dalla mercificazione del lavoro, l’era dell’accesso si distingue per la mercificazione del divertimento, ovvero per la commercializzazione di risorse culturali — quali arti, feste, sagre…" (2000, pag. 220).

Rifkin teme che nell’economia delle esperienze possa venire mercificata tutta la nostra vita. Di certo, inquieta anche me osservare che l’essenza di tale economia, se non addirittura della new economy, o della stessa era del-l’accesso, è il fatto che abbiamo cominciato a pagare quello che una volta era gratuito. Inquietudine che si ridimensiona, se penso all’affermazione dell’eco-nomista Tibor Scitovsky secondo il quale la principale reazione dell’uomo all’aumento della sua ricchezza sembra essere una maggiore frequenza di festeggiamenti. Enunciato che mi incoraggia ad una visione non manichea del ludico e della festa. Fino al punto di spingermi ad approfondire il significato ultimo della ricchezza. Che, per il momento, anticipo in quello di mezzo per procurarsi qualcos’altro.

 

6.2. Merce e spettacolo

Esiste anche un’altra forma del ludico che si è sempre affiancata alla merce, come attribuzione di valore. Non è lo spettacolo della merce, ma lo spettacolo per la merce. Dall’antichità a Carosello, qualsiasi accorto mercante ha valorizzato ulteriormente, con la parola, con il colore, la musica, il movimento, la sua merce. Forme arcaiche che ritroviamo tutte condensate nello spot televisivo, modello universale mediatico dello spettacolo per la merce. In questo caso, non si tratta di giocare per forza, ma di liberare la forza del ludico, per produrre valore comunicazionale aggiunto.

Dato il suo statuto originario di meccanismo retorico utile allo scambio, la pubblicità partecipa della complessità del linguaggio e quindi della cultura e della società. È molto difficile sottrarre qualsiasi discussione sull’argomento alla logica manichea che ancora oggi tende a demonizzare o ad esaltare esageratamente il suo ruolo. C’è chi privilegia l’aspetto sociologico, chi è interessato ad integrarla nelle teorie economiche del consumo, chi getta un ponte fra iconologia ed estetica, chi la studia dal punto di vista linguistico. Magari per denunciarne, a quest’ultimo proposito, pesanti responsabilità: deforma grammatica e sintassi, è anarchia verbale perché distrugge l’aura poetica, dissacra la lingua. Di sicuro, la parola pubblicitaria è sperimentazione linguistica e agisce anche nel testo stampato, dinamicizzandolo.

La sociologia critica, particolarmente quella francese, vede la pubblicità come metafora di tutti i simulacri, responsabile di una piatta omologazione culturale. Non manca chi l’ha sempre considerata una delle prime forme di globalizzazione. Le viene anche riconosciuta una generica e trasversale funzione di modernizzazione. Addirittura, la possibilità di veicolare altri contenuti utili, di essere una sorta di esperanto della cultura. E le viene rimproverata la frequente assunzione non autorizzata di compiti etici. Molti fra coloro che si occupano di questioni etiche ci ricordano che la pubblicità non esprime una visione del mondo, perché le può esprimere tutte. Che non dice bugie perché il suo compito non è quello di dire la verità. Che svuota i simboli e ne conserva solo le immagini: iconologia.

Fra mitologia dei bisogni ed estetica della merce, la pubblicità resta sempre elemento forte dell’attuale rappresentazione non solo del consumo, ma anche della cultura e della comunicazione. Ha una vocazione materialistica, economicistica, pragmatica, che convive con quella culturale. È affermativa, positivizzante, fatta anche per il piacere del comunicare, anche "piacere del testo". Ricorrente la questione del rapporto fra creazione artistica, tecniche espressive, letteratura stessa e creatività pubblicitaria. Complicata dall’evi-denza che, ormai, la pubblicità ha conquistato una propria autonomia estetica e comunicativa. In ogni caso, la sua contiguità con l’arte è mediata dal sistema delle comunicazioni di massa. Ragionevoli conclusioni possono essere ricondotte al giudizio che, pur essendo la pubblicità un genere senza costrizioni formali, può, al massimo, imitare l’arte. Lasciandole l’esclusiva della sublime inutilità. La pubblicità, comunque, è senz’altro un acceleratore espressivo così come è un moltiplicatore economico. Ma, proprio a causa della sua auto

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