A proposito di " Ma che colpa abbiamo noi " di Carlo Verdone Gianni Guasto
Per fare un film "sulla" psicoanalisi ci vorrebbe un autore maggiormente propenso a frequentare la tragedia piuttosto che la commedia o la farsa: Carlo Verdone, che non è né Ingmar Bergman, né il Woody Allen di "Interiors", aveva certamente in animo di fare altro, e vi è riuscito da quel bravissimo caratterista che è, anche cimentandosi con una prova registica molto impegnativa e filmicamente riuscita. Con "Ma che colpa abbiamo noi", l'atteso film che esce in questi giorni nelle sale, l'Autore aveva certamente in animo di affrontare il tema del malessere del vivere, nella sua versione più aggiornata e high-tech, confrontandolo con la dimensione gruppale e con le tentazioni che provengono dal girone infernale dell'offerta pervasiva di psicoterapia che un mercato caotico e incomprensibile ai più, tenta di mettere a disposizione, mescolando stracci e seta, diavolo e acqua santa, offerte professionalmente corrette, e improvvisazioni che paiono partorite direttamente dalla collusione tra sedicenti psicoterapeuti e il desiderio masochistico dei pazienti. "Ma che colpa abbiamo noi" è un film che racconta l'impossibilità di elaborare un lutto, che è quello di una madre venuta meno, non soltanto perché ciò corrisponde al normale dipanarsi dell'esistenza, ma anche perché nessun modello genitoriale è stato assimilato da coloro che soffrono di una cronica depressione che impedisce il passaggio all'autonomia. Questo film potrà certamente essere ricordato per la magistrale scena della morte in diretta (cioè, all'interno della seduta) di una decrepita e mummificata psicoanalista, il cui silenzio, anziché implicare ascolto e contenimento delle risonanze emotive del gruppo, è irreparabile e disperante assenza. Anche la postura dell'analista annuncia la sua morte imminente come logica conseguenza della sua assenza in vita: irritualmente lontana, è seduta al di fuori del cerchio del gruppo, addirittura riparata dietro una professorale e asettica scrivania. Durante la terapia, l'assenza materna era stata inconsapevolmente fantasticata, sentita come una minaccia impellente alla quale non si poteva pensare per non incorrere nella tragica verifica di realtà: una madre che non c'è perché incapace di fornire pensiero, nome, parole per raccontare l'irrappresentabile. Vengono in mente le parole di Montale, quando augura al destinatario di una poesia dedicata, di incappare "nel fantasma che ti salva": qui il fantasma può essere soltanto la tragica sottolineatura di un amore e di un'attenzione mancati, e l'incontro con esso riconduce ad una drammatica povertà che non mostra possibilità di riparazione. Verdone qui evita di addentrarsi nel complesso problema di una psicoanalisi in grado di tener fede al proprio impegno, per tratteggiare un poco confortante affresco di psicoterapie malamente disposte a porsi in ascolto e ad assumersi la responsabilità del sostegno alla transizione verso una condizione di vita relazionale adulta. Scompaginato dalla perdita dell'ottantenne dottoressa Lojacono, il gruppo decide di rimanere unito, nella ricerca di un nuovo contenitore, di un nuovo terapeuta per proseguire il lavoro interrotto. La ricerca porterà i pazienti a confrontarsi con le offerte inquietanti di un grottesco e inquietante supermercato delle psicoterapie (la targa di uno dei professionisti interpellati annuncia persino "parcheggio gratuito"), per decidere di proseguire da soli, attraverso l'inutilmente collaudato e fallimentare strumento dell'"autogestione", un'improbabile tentativo di autoterapia in gruppo che perde anche i pochi contorni, quel po' di base sicura (di "setting" per dirla in termini tecnici) che pure esistevano prima: la costanza dell'ora e del luogo in cui incontrarsi, la disposizione spaziale, lo scandirsi del tempo dell'analisi, affidati alla presenza dell'analista senza che ciascuno se ne dovesse far carico in proprio: l'equivalente di un bambino piccolo che fosse costretto ad organizzare da solo i propri tempi di pasto e sonno. Il gruppo quindi cessa di esistere come gruppo terapeutico, per continuare a vivere in stato di parziale fusione che consente di sopportare la maledizione che sembra perseguitare ciascuno dei partecipanti: a nessuno è stato possibile assumere su di sé la funzione genitoriale, nessuno sa essere il genitore di sé stesso, il rapporto di ognuno con i figli "reali" è fallimentare, gli sporadici tentativi di condurre anche soltanto burocraticamente il gruppo naufragano dolorosamente. Il film sembra suggerire un'idea parzialmente vera e parzialmente banale: soltanto provando a fare da sé si riesce ad assumere la direzione della propria vita, ma per qualcuno questo compito è impossibile, per molti di essi soltanto la ripetizione degli stanchi rituali ossessivi consentiranno di tenere faticosamente a bada il dolore, per qualcun altro continuerà il ricorso compulsivo alle abbuffate notturne, e uno di loro deciderà di rinunciare alla vita stessa. E' un peccato che ancora una volta sia stato eluso il problema di un rapporto psicoterapeutico capace di sostenere e di salvare, attraverso il lascito, dall'analista all'analizzato, di un'eredità di competenze emotive che possano essere poi assunte e vissute in piena autonomia. E' un peccato, perché questa possibilità esiste. | Usando il link riportato sotto puoi entrare in contatto con l'autore del testo ed invargli le tue osservazioni graditissime ed attese - la rete e' uno strumento interattivo ed autoadattativo i vostri feedback ci sono indispensabili per capire come migliorare la rivista e per rispondere sempre al meglio alle vostre esigenze culturali ed informative |