| SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA - MILANO GUARDIA SECONDA CLINICA PSICODINAMICA NEL LAVORO ISTITUZIONALE DISCUSSIONE
Prof. FRENI: Forse in questo caso che ci ha presentato, emerge per la prima volta in modo abbastanza chiaro l'uso di alcune "tecniche" di elezione lacaniana, emerge per esempio abbastanza limpidamente l'uso del tempo variabile in seduta.Per esempio è chiara la tendenza a non interpretare i detti della paziente. Non interpreta, sospende. "Ci vediamo fra due giorni...". Lo fa anche molto bene, certamente, ma mi piacerebbe approfondire un po' questo aspetto, perché comunque io ho delle perprlessità, pur essendo interessato ad alcuni aspetti della destrutturazione dell'intervento, in particolare all'uso del tempo variabile nell'Istituzione, ma..." Dott. VIGANO': Bene, allora possiamo partire da questo aspetto. In effetti io ho aperto oggi dicendo che non esiste una teoria della tecnica, e in effetti in questo caso... Freni: Ti ha smentito... Vigano': Non direi, anzi lo conferma, perché una questione tecnica è emersa dalla costruzione del caso, quindi non come teoria universale non credo che si possa dire che la terapista ha seguito un modello teorico.. Freni: Non credo che il problema emerga tanto dalla costruzione, quanto un effetto di onestà della presentazione. Forse è la prima volta che si avverte l'ostensione della clinica come più vicina a quanto realmente è avvenuto. Io ho l'orecchio molto esercitato dalle registrazioni di casi, e quindi credo di poter dire quando una sequenza riportata si avvicina a quanto realmente può essere accaduto nell'interazione... dott.ssa Barracco: Posso dire che uno dei motivi per cui ho scelto di portare questo caso, che da un certo punto di vista è atipico rispetto ad altre presentazioni cui ho assistito, nel senso della complessità dell'intervento, la presenza di diversi operatori, diverse Istituzioni, tempi estremamente lunghi di trattamento... Freni: No, non mi sembra un caso che esce dalla serie... si avverte sullo sfondo la dinamica istituzionale; l'invio della Psichiatra, le interferenze del convivente... Barracco: Sì, tuttavia c'è anche una certa limpidità una trasparenza che caratterizza il dipanarsi del discorso, che a mio avviso è dato sia da una sorta di peculiarità della paziente, questo suo rapporto molto particolare con la lingua Italiana, che non è la sua, ma che tuttavia lei padroneggia benissimo pur mantenendo una sorta di radicale estraneità, e sia da un certo modo di utilizzo, direi, delle risorse che l'istituzione mette in gioco. Pur essendo una paziente che presenta un disturbo grave, si riesce con una certa facilità a entrare nel dispositivo psicoterapeutico, eliminando, per così dire, il "rumore di fondo", dell'Istituzione, e creando una relazione terapeutica abbastanza stabile, almeno nell'identificazione dei ruoli e degli strumenti. Freni: Sincerità per sincerità, vorrei provare ad essere più sincero anch'io: io mi sto convincendo che forse l'approccio del tempo variabile nell'istituzione forse può essere la soluzione migliore, però mi rimane non sufficientemente chiaro che cosa accade del controtransfert. O lo eliminiamo, cioè diciamo che non c'è il controtransfert, ma questo ti dico subito che farei molta fatica ad accettarlo... Viganò: Beh, dato che tu citavi un po' scherzosamente il Îverbo lacaniano', di cui noi saremmo i depositari, ti dirò che Lacan dice che il controtransfert non esiste÷ Freni: Infatti, so che Lacan dice questo, ma io non sarei d'accordo... Viganò: No no, invece credo che saresti d'accordo....Bisogna vedere in che senso... Freni: Vorrei però mantenere lo spirito del seminario, perché se no può sembrare una provocazione da parte mia. Io credo che soprattutto nell'ambito delle terapie istituzionali forse anche nell'ottica manageriale un tempo variabile potrebbe funzionare anche meglio di un tempo fisso, forse passato a non concludere nulla, mentre il tempo variabile permetterebbe un uso forse più razionale e più flessibile delle risorse. Però o arriviamo a concludere che la faccenda del controtransfert è un'invenzione, che infondo non è così importante, se invece decidiamo che il controtransfert è importante, ed ha un ruolo decisivo nel momento in cui si prende la decisione di interrompere la seduta, allora in quel momento dobbiamo renderci conto che forse agiamo un po' alla cieca, se diamo rilevanza all'elemento inconscio. Il controtransfert per definizione è inconscio, noi ne possiamo sapere qualcosa solo a condizione di essere capaci di fare un discorso di rielaborazione autoanalitico di sottolineatura di stimoli che emergono dal di fuori del setting. E se io finita una seduta o in un particolare contesto di vita associo uno stimolo ad una paziente, può darsi che questo sia una spia controtransferale. Io credo che questa è una realtà con la quale io credo si debba riuscire a confrontarci, perché è solo a questa condizione che io potrei accettare di misurarmi con il tempo variabile, perché in assenza di questo, allora preferisco istituire una parità, tra paziente e terapeuta rispetto a coordinate spazio-temporali, in cui siamo immersi entrambi alla pari, e allora le variazioni sì che possono dipendere da determinanti diverse, ma siamo all'interno di un patto, alla pari. Dott.ssa Silvia Pozzi (dalla sala): mi domando se non stiamo confondendo due piani rispetto al concetto di "controtransfert". Il controtransfert come discorso analitico, discorso dell'inconscio, in cui penso possa avere senso il discorso di Lacan "non esiste controtransfert", cioè c'è solo un transfert, e invece la dimensione etico-clinica, del Controtransfert, che racchiude tutte le preoccupazioni etiche quali la prudenza, il non far soffrire inutilmente il paziente, la regola dell'astinenza, nel suo significato più ampio... Freni: Io veramente sono uno che, ti dico sinceramente, a tutte queste cianfrusaglie qui sono molto critico, tutto questo buonismo...Io credo che l'incontro clinico col paziente è un incontro sempre drammatico, pieno di tensione, in questa storia che ci è stata riportata tutto questo si sente, e io sono convinto che non possa che essere così, anzi deve essere così. La questione è, comunque la si chiami, è quella di immaginare un analista comunque immerso in questa dimensione tragica, che lo voglia o no è condannato per tutta la vita in una dimensione di paziente, paziente di sé stesso, o dell'analisi che gli può fare il paziente, e se lui è immerso in questa dimensione, se l'è sposata, allora diventa ridicola la scansione temporale rigida, oppure se diciamo che il transfert ha senso nel qui e ora dell'incontro in quel contesto spazio-temporale e mentale che noi chiamiamo setting, che è il laboratorio dove verifichiamo e lavoriamo in presenza del cointeressato, allora qui torna nuovamente difficile dare la mia adesione a questa questione del tempo variabile... Viganò: Credo possa essere utile partire da quest'ultima cosa che dicevi, per cercare di dare almeno un primo inquadramento del problema e delle citazioni che sono state fatte, che altrimenti rischiano di sembrare solo delle boutades un po' paradossali, rispetto a Lacan. Quando dicevi, o concepiamo l'analisi in una dimensione tragica, per cui l'analista è sempre dentro a questa situazione tragica, oppure poniamo il setting come protettivo, difensivo, ecc. Certamente, se la questione è posta così, è evidente che la scelta lacaniana è del primo tipo, prendere o lasciare, considerarla buona o cattiva, siamo nel libero mercato delle idee, delle opinioni e degli scambi possibili. Però vorrei dire alcune cose per mitigare questa scelta che è appunto tragica, essere sempre nel lavoro analizzante, che ovviamente è pensabile solo in un senso strettamente utopico, o meglio etico, come diceva Pozzi, ci si potrebbe domandare perché, chi ce la fa fare una simile fatica, rischiando poi inevitabilmente il comico che spesso si accompagna a questa intenzione nei lacaniani o lacanisti che spesso non sono all'altezza del maestro. Comunque Lacan può parlare del transfert come uno, e si tratta di trovare le scansioni analizzanti a partire dal giocare una posta più alta, quello che chiama "desiderio dell'analista", propone che ci sia una posizione desiderante dell'analista - quella posizione analizzante dell'analista che tu evocavi, desiderio che gli deriva dall'aver attraversato la dimensione del proprio desiderio, fino al punto di aver fatto l'esperienza di poter desiderare al di là dell'illusione che l'inconscio fornisce di oggetti via via spostati, e solo in nome di questo si autorizza a mettersi nella posizione dell'analista. Chi si mettesse nella posizione dell'analista al di fuori di questo orizzonte, commetterebbe reato, dal punto di vista lacaniano. Reato etico, però è importante come procedura, per validare questa posizione. Che cos'è questo desiderio dell'analista? Lacan, nel settimo seminario, dice che è un desiderio molto più forte di tutti gli altri desideri controtransferali - la voglia di abbracciare il paziente, la voglia di dargli una sberla, la voglia di disfarsene, ecc. - perché è essere in una posizione analizzante di questi moti pulsionali inconsci che la presenza dell'analista produce. Freni: E' una visione un po' mistica... Di Giovanni: Lacan parla dell'analista come di un santo, in un'accezione particolare, naturalmente, ma la mistica c'entra di sicuro... Viganò: E' un puntare in alto, non in basso, so che per te non ha una connotazione negativa la parola mistica, e quindi va bene, ma vorrei aggiungere una seconda cosa, e cioè che questa posizione desiderante è pensabile solo se esiste un apparato simbolico e teorico tale da permettere poi di analizzare questo campo mistico, o di santità, altrimenti si sarebbe senza criteri, Lacan dice che il criterio è fornito dalla struttura stessa del Transfert. Il Transfert si articola al di là del sentimento, dell'incontro con l'analista come affetto, quello per cui il paziente nella vulgata si innamora dell'analista, non è solo il sentimento infantile, edipico, trasposto sulla persona dell'analista, cioè quello che Freud chiama l'errore di persona. Lacan utilizza la struttura del transfert anche e soprattutto nella sua dimensione simbolica e linguistica di rapporto del soggetto con la dimensione dell'Altro, col linguaggio stesso. In questo senso il transfert è uno, perché il linguaggio è uno, nella seduta, se lo si separa un po' dai sentimenti provati dal paziente o dall'analista, il transfert è la struttura logica di quell'innamoramento dell'inconscio, di quel parlare dell'inconscio, in cui lo svolgersi del discorso analitico si trova immerso, e si trova immerso in una dimensione comunque dispari, mai pari. Nel senso che è il desiderio dell'analista che funziona da operatore, da produttore del terzo in cui il transfert consiste e che produce interpretazioni. E' proprio perché c'è disparità che c'è interpretazione, atto analitico. Se fosse un campo solo intersoggettivo, speculare, saremmo in una situazione tipo Ferenczi, di due soggetti che si amano, si odiano, si dicono le loro cose, in una intersoggettività di due lettini che si alternano. L'unica possibilità di pensare all'atto analitico è quella di pensarlo come un intervento all'interno di un discorso che viene svolto dal paziente; è il pz. che parla, e l'analista sta zitto. La presenza dell'analista stimola il discorso del paziente, gli interventi alla Lacan non sono mai delle frasi dette al paziente, sono caso mai delle scansioni, delle sottolineature e dei tagli nel discorso - unico - dell'analisi. Detto questo, forse, la questione del tempo logico e non cronologico forse diventa meno sorprendente, c'è anzi da chiedersi cosa potrebbe voler dire introdurre un discorso al di fuori di questa logica, cioè un tempo fisso e non significante. Se c'è un discorso in cui la posizione analitica è quella di scandirlo, perché introdurre l'orologio? In questa logica c'è da chiedere ragione del tempo fisso, non del tempo variabile. Il tempo variabile è un intervento possibile su un discorso unico che il transfert induce. Il tempo fisso, anche storicamente, è il tentativo di introdurre una misura di prudenza, che Freud ha escogitato, un po' ossessivamente, per stabilire una contrattualità, anche se poi Freud stesso ha fatto analisi al di fuori di qualsiasi parametro, tutte le analisi importanti Freud le ha fatte mettendo da parte l'orologio, con sedute diverse nello stesso giorno, ecc. Questo, non per dire che Freud era trasgressivo, ma per dire che il transfert richiede una prudenza, per non rischiare che la cosa si metta in una dimensione di paranoia incontrollata e di interpretazione invasiva. Ma in termini logici, se questa prudenza viene trovata all'interno di atri parametri di garanzia, come il lavoro che l'analista fa su di sé, l'apparato teorico di cui si sente sicuro, perché togliere la possibilità e l'efficacia che effettivamente in questo caso è documentata, in quei due passaggi, la possibilità di scandire un significante, di lasciare il tempo dell'elaborazione al fra le due sedute, e quindi a un'efficacia maggiore rispetto ad una comunicazione che apparirebbe solo cognitiva, e poi, stare lì altri dieci minuti ad aspettare che scada il tempo, credo che dal punto di vista dell'efficacia rischierebbe solo di indebolirla. (dalla sala) E' al limite del suggestivo÷ Freni: Spieghi meglio cosa intende. (dalla sala): Se lascio una metacognizione e saluto un mio paziente è chiaro che do' una carica e una forza che è imprevedibile da parte di chi viene congedato. Viganò: Rispetto alla suggestione si apre una biforcazione, che può essere verificata in base al testo. C'è qui la documentazione, si tratta di vedere se è stata un'interpretazione a livello del discorso del paziente, efficace, o è stato un tentativo di imporre l'analista come oggetto di desiderio ipnotico. Qui già dalla seduta successiva lo si vede. O uno o l'altro. Se è suggestione lo si può valutare. Quello che è più difficile da valutare è se il paziente può sopportare questo aspetto di frustrazione (che un'impossibilità possa essere vissuta come impotenza) mi sembra lei dicesse: tu mi congedi, e io non posso più dire niente, sì, posso venire a dirtelo la volta dopo, però posso anche suicidarmi nel frattempo... Anna Barracco: Volevo aggiungere qualcosa su questo punto specifico, dell'interpretazione e dei rischi ad essa connessa. Freud, in "analisi terminabile e interminabile", chiude un paragrafo con la bella immagine "Il leone salta una volta sola", a proposito dell'interpretazione. Io credo che in quell'espressione ci sia tutta la difficoltà, il rischio, e nello stesso tempo l'imprevedibilità di questa scelta, che però è resa prevedibile e possibile proprio dal tempismo perfetto che solo il lungo allenamento, la concentrazine, la tensione nell'atto, possono garantire. E tuttavia, si può sbagliare, si sbaglia. Nella questione che Lei poneva, inoltre, della possibilità di suggestionare, ipnotizzare, pilotare il paziente, e cioè in definitiva perdere di vista la sua questione per piegarla ai desideri o ai fantasmi dell'analista, o, cosa che forse è la stessa cosa o forse è peggio, di piegarlo ad una teoria e ad una tecnica. Lacan, in un testo intitolato "La direzione della cura", parla molto della questione del potere, di chi ha il potere e di come deve essere problematizzato e calcolato il problema del potere all'interno di una relazione terapeutica. E' un po' il problema che metteva in luce, mi sembra, il prof. Freni quando si interrogava sulla simmetria o meno della struttura del setting. Lacan dice che "il potere è e deve essere saldamente nelle mani dell'analista, a condizione, però, di non usarlo mai". Questo, che cosa significa? Vediamo il caso della paziente, e teniamo sempre presente la questione del "Leone che salta una volta sola". Io non ero certa che quella fosse l'interpretazione giusta, anzi, meglio, potevo essere convinta che la costruzione teorica fosse giusta (= identificazione allo zio,ecc.), ma non potevo essere certa che il tempo fosse quello giusto. C'è una dimensione di scommessa, e guardate che non è affatto vero, secondo me, che di fronte ad un'interpretazione e ad un invito ad uscire, il paziente non possa fare nulla. In molti casi, al contrario, il paziente si sottrae, ha una crisi d'ansia, oppure protesta, oppure, molto frequentemente, ti disconferma ("Come? Non capisco..." oppure "Intende dire che...ma no, ha sbagliato completamente..." ), protesta ("Non me ne vado! Figuriamoci se pago una seduta di cui ho fruito solo per metà..., ecc.). Se ci pensate bene, questa idea della certezza della riuscita e della posizione onnipotente del terapeuta è un po' un'identificazione con la posizione del Paziente, che, in effetti, suppone un potere nel terapeuta, è lui che glie lo conferisce, nel momento stesso in cui lo elegge nella posizione di colui che sa, di colui che può spiegare, che può curare, ecc. Da questo punto di vista, nel dipanarsi di una cura, questo "potere vuoto", dell'analista, è una funzione che dovrebbe andare da 100 a zero, da un massimo a un minimo, fino ad un totale svuotamento di questa supposizione di potere e di sapere, da parte del paziente. In questo senso posso riallacciare qui anche alcune considerazioni sul controtransfert. Certo che il controtransfert esiste, credo che non sia neanche corretto dire che per Lacan non esiste il controtransfert. Semplicemente, Lacan organizza diversamente i concetti, e credo che quello che qui si chiama controtransfert è la dimensione immaginaria del transfert. Cioè, appunto, gli affetti, le controidentificazioni, la dimensione reale entro cui le due persone - l'analista e il paziente - sono immerse. In questo senso il controtransfert, o transfert immaginario, è un indice dell'opacità della cura, è dell'ordine della resistenza, della difficoltà, di ciò che fa ostacolo alla cura. E' all'interno di questa dimensione immaginaria che si incontra, appunto, il reale, nel senso della dimensione pulsionale, cui faceva riferimento il prof. Freni, a proposito di quegli studi sulle "spie" controtransferali. In questo caso che ho riportato, per esempio, è evidente che tutta la terza parte della cura, che man mano si è centrata sul transfert, sulla relazione terapeutica nell'hic et nunc, è abbordabile anche a partire dalla dimensione immaginaria (io che la facevo entrare sempre più tardi, che tendevo a non accorgermi di lei, che rispondevo al telefono senza troppi problemi, perché lei tanto se ne stava buona buona...l'affastellamento istituzionale era per me buona scusa per colludere con la sua posizione di bambina esclusa, e io, evidentemente, con questi atteggiamenti esprimevo la mia paura per l'approfondirsi del discorso, l'emergere delle questioni legate alla femminilità, i moti aggressivi rispetto al mio modo di fare la terapeuta..." ecc.). Inoltre, e con questo concludo, è evidente che, seppure la questione dell'orologio mi trova perfettamente d'accordo col dott. Viganò, non dimentichiamoci che la dimensione dell'incontro, l'appuntamento, è un momento che annoda i tre registri, simbolico, immaginario e reale, e infatti è sempre interrogabile e interpretabile ( c'è chi viene in seduta in ritardo, chi in anticipo, ogni variazione o ogni incidente è interrogabile di volta in volta e certamente entra a pieno titolo nella dinamica della cura, sia che i movimenti siano dell'analista che del paziente). Freni: Quindi l'orologio come fattore regolatore lo mettiamo all'inizio, all'appuntamento... Viganò: certo, l'appuntamento è fondamentale... Freni: Però forse stiamo parlando del controtransfert forse con accezioni un po' diverse, io non credo che poi i dieci minuti dopo debbano essere necessariamente passati a girarsi i pollici, credo che possa avere un suo valore essere restare insieme a condividere profondamente quei momenti. Questo ha un suo valore scientifico, e anche etico. Al di là di quello che ha detto Lacan...che forse potremmo anche cercare di andare oltre... Viganò: Sicuramente... Freni: Mi sembra che è veramente la prima volta che emerge così chiaramente una questione tecnica, c'è anche la questione del pagamento, come viene regolato... Viganò: Forse, però vorrei che per questa volta lasciassimo da parte le questioni tecniche, e passassimo al caso... Freni: Sì, è giusto, diamo la parola alla sala. Silvia Pozzi: Avrei una perplessità sulla diagnosi dell'asse II. Viganò: Cioè, non metteresti nulla sull'asse II, non ticonvince il Borderline... Silvia Pozzi: Non sono troppo sicura del Disturbo Borderline Barracco: Ti dico quello che ho trovato, e legge i criteri diagnostici (almeno 5 dei seguenti elementi, che vengono tutti soddisfatti). C'è anche forse il sesto elemento, cioè la paura d'abbandono... Freni: Si si, mi sembra che ci stia pienamente, e aggiungerei un'altra cosa, che nell'era pre DSM, quando si parlava di borderline un elemento che veniva valutato era questa propensione verso il notturno, questo ricercare i night club, questa vita notturna, come se la propensione per la vita notturna potesse servire a mascherare le difficoltà a stare nelle coordinate sociali, mentre nella dimensione notturna certe soglie naturalmente, si alzano, con l'alcool le droghe, tutto sembra più facile... questo comunque ora non c'è più nel DSM. Viganò: questi elementi che hai letto sono tutti criteri che soddisfano la diagnosi di Borderline Barracco: Sì, poi c'è scritto che comunque questa diagnosi di Borderline può essere posta in quei soggetti che presentano diversi criteri di altri disturbi di personalità, come il disturbo istrionico, narcisistico, o da evitamento, senza però arrivare a soddisfarne pienamente nessuno. In questo senso penso che sia significativa l'obiezione della dott.ssa Pozzi, perchè a mio avviso questa categoria borderline è talmente inclusiva da diventare poco utile in termini descrittivi, è più una definizione generica di "gravità". Freni: Ci sono altri due elementi che dal punto di vista psicodinamico possono essere inseriti, la questione della difficoltà di simbolizzazione, che è un elemento specifico del borderline, aree specifiche di micro-deficit, che in genere rendono poco indicato il trattamento analitico, perché le interpretazioni potrebbero non essere capite, essere vissute come persecutorie...un atro punto poi è la particolarità della triangolazione edipica, che effettivamente è molto borderline... Viganò: Su questo punto vorrei fare una domanda che riguarda la scansione principale della cura. Mi colpiscono le due versioni che da' dell'Edipo, prima e dopo il viaggio in Jugoslavia. Una prima versione dell'Edipo è quando dice "mia madre mangia, mio padre non mangia", sono + e - rispetto al cibo, rispetto al mangiare. Quindi la sua capacità di situarsi nel desiderio della madre è relativa solo a questa questione del cibo, e lei sceglie di mangiare tanto, ma diversamente dalla madre, la madre non è bulimica e lei sì, si separa dalla madre attraverso la bulimia. Prima versione dell'edipo attraverso l'alimentazione. Poi torna dalla jugoslavia e porta l'importantissima questione del desiderio della madre che voleva che il padre andasse in Germania, lui per viltà non c'è andato, si è depresso, ha cominciato a bere, ed è lì che ora lei si rappresenta, tra la madre e il padre. Lei può quindi collocarsi in una storia edipica, in un desiderio familiare molto più costruito. Questa iscrizione nell'Edipo, nell'Altro, è fondamentale per fare la propria domanda d'amore. E questo lo si vede clamorosamente, per es. all'inizio "io non lo amo, non lo amo" questo tizio con cui vive. E non è che non ama lui, non essendo iscritta nel luogo dell'Altro non può amare nessuno, non è abilitata a questa singolare esperienza che è domandare a qualcuno "mi ami?". Torna dalla Jugoslavia, e lì qualcosa è cambiato proprio a livello della domanda - a parte che ha anche qualche rapporto sessuale - ritorna "abbonata" al luogo dell'Altro, e con la possibilità di fare una sua domanda rispetto all'amore, all'avere figli, alla posizione sessuale femminile, ecc. Non è che lo approfondisca molto nella cura, però nelle patologie anoressico-bulimiche è il problema fondamentale, come passare dall'abbandonico, quindi fuori dal campo dell'Altro (io per l'Altro non ci sono), l'Altro mi ha abbandonato da sempre, e quindi solo provocazioni, agiti, aggressioni, passare invece ad un simbolico articolato, che permetta di fare una domanda. Ora se tu puoi dire qualcosa su come leggi questo mutamento, che cosa lo ha prodotto, perchè chiaramente non è il viaggio in sé, di viaggi ne ha fatti tanti.... Barracco: Il viaggio in quel momento, credo abbia funzionato da elemento scatenante. C'era stata una prima scansione, la fase di rettificazione, cioè quella prima parte in cui io distruggo le sue certezze sui cibi, la dietologa, ecc., in quel momento lei fa tutto un inventario di cibi, e si scatena, al fondo dell'inventario sul piacere, quindi il cibo come enigma sul piacere più che come questione da regolare con la bilancia e la dieta, lì, lei ha una crisi d'angoscia, Emerge tutta l'aggressività, tutta l'oralità della sua posizione, e io credo che con il viaggio in Jugoslavia lei cerchi di tappare, di mettere a tacere questa angoscia, ritentando per l'ennesima volta il ricongiungimento con il mito familiare, il padre, il grande amore da ritrovare in Jugoslavia naturalmente è ancora lui. Cerca questo ricongiungimento proprio nel momento in cui l'incrinatura di questi ideali era ormai inevitabile. Quando va lì, e scopre che non c'è più possibilità, che ricade nella bulimia, e quando torna si interroga su questi suoi movimenti, e questo credo che sia legato a quelo che succedeva in analisi. Cioè questo viaggio era stato il suo ultimo, disperato tentativo di sfuggire all'analisi, attraverso l'agito. Però già si erano messi in moto elementi di ambivalenza, prima c'era solo questa idealizzazione difensiva, mia madre poverina, è malata, è stata per morire, ecc., ma poi accanto a questo emergeva "mia madre non è mai stata sincera, odio tutto quello che riconosco di lei..." quindi un'incrinatura di questo ideale. E con la ricaduta pesante nel sintomo bulimico, che lei non può più nascondere a sé stessa, comincia ad interrogarsi sulla meccanicità, sulla sovradeterminazione di questi suoi movimenti, movimenti che poi lei riesce a realizzare solo rispetto a questo va e vieni dalla jugoslavia, perchè per il resto è ancora tutto un progettare a vuoto, un "vorrei...", in questa prima fase. Penso inoltre che la prima versione dell'edipo è ancora molto mediata dal desiderio della madre, questa madre che è malata di cuore, che stava per morire, la gravidanza con l'angoscia che lei non sarebbe sopravvissuta, e anche la colpa, in questa fase, è molto concretamente rappresentata in questa macchia, in questo marchio nel corpo, dell'ordine del genetico, e invece dopo, dopo questa prima svolta, lei si accorge che questo movimento non le appartiene, è una pura ripetizione. (dalla sala): A suo avviso, che cosa c'è dietro a tutto questo andare e venire della paziente, dietro queste resistenze...a che cosa sta dicendo "no" questa paziente? Come se questa paziente volesse appropriarsi di lei... Barracco: Mah, mi ha colpito che nell'ultima telefonata la pz. ci ha tenuto a sottolineare, più di una volta, che sicuramente una seduta, almeno una, la farò, come se... Freni: ma anch'io penso che la farà... Barracco: uno dei motivi secondo me è che lei ha fatto un po' una fuga nella guarigione, questa pacificazione del sintomo, adesso lei è un po' identificata al desiderio del suo convivente, che è poi quello che ha fatto la domanda di cura: diciamo che per lui questi risultati bastano e avanzano, perché se si sgancia un altro po'... Viganò: La prima parte della cura l'ha fatta lui, mentre ora una nuova fase dovrebbe aprirsi con un'altra domanda, questa volta della pz. Freni: Io penso che un punto di svolta possa vedersi in questo punto, dove mi sembra di poter reperire la fantasia di aver divorato la madre, e che pezzi del proprio corpo sono stati inglobati in quanto estratti dal corpo materno, e la colpa relativa a questo è andare in Jugoslavia a verificare questa fantasia, perché consente di cominciare una separazione di pezzi del corpo suo da pezzi del corpo materno, quindi questo punto dove dice "odio tutto quello che riconosco di lei sul mio corpo", sia molto interessante, perché potrebbe avere a che fare con questa domanda, come se il terrore della paziente possa essere quello di poter fare alla terapeuta un'operazione del genere". Barracco: Certamente la dimensione orale, nella sua qualità aggressiva, in questo caso è centrale. In questo senso sono d'accordo che tutte le difficoltà di mantenere un minimo di regolarità, tutti i miei tentativi di avvicinare le sedute, di stringere un po' il discorso, fallivano io credo per questa grande difficoltà a trovare una distanza, un po' quello che ho provato a dire descrivendo il tratto materno che si reperisce nell'oggetto d'amore, che lo si può amare solo se nello stesso tempo lo si odia, ci minaccia, ci distrugge. Di Giovanni: Mi colpisce in questo caso la tendenza a ricercare questi allontanamenti e avvicinamenti nel reale, in questo senso penso che la domanda sul punto di svolta possa essere riformulata dicendo che una volta incontrato il desiderio dell'analista, e ristabilito un'abbonamento al campo dell'Altro, la paziente, tornando in Jugoslavia, per la prima volta coglie questo scarto, appunto fra la dimensione simbolica e la dimensione immaginaria, della realtà, fra una triangolazione edipica e una ricerca del padre in senso simbolico, e questo andare e venire, nella realtà, con le mani piene di regali, questo mettere proprio in atto, rappresentare il padre donatore. Barracco: Secondo me quest'apertura è avvenuta proprio in quella seduta in cui la paziente, dopo la mia interpretazione sul cibo/piacere, su cui la Dietista non può dirle nulla, comincia a fare quello strano inventario, in un modo anche un po' maniacale, dei cibi che le piacciono. E' stata una seduta, fra l'altro molto angosciosa anche per me. Ancora non ero certa della struttura soggettiva, e tutti questi strani vocaboli, a metà fra lo slavo e l'italiano, mi sembravano quasi uno scivolamento nel neologismo, una sorta di piccolo deragliamento della tenuta significante. E poi, questo improvviso scatenarsi dell'angoscia sulla questione dei suoi desideri di aggressività. Io naturalmente non ho potuto riportare tutto, ma qui è emerso anche tutta una serie di ossessioni, di fantasie aggressive infantili che aveva nei riguardi della sorella, delle coetanee. Io credo che questo emergere della pulsione allo stato puro, l'angoscia, il successivo tentativo di negarla con l'ennesima ripetizione, fallita, abbia poi aperto il campo a quella che kleinianamente potremmo definire la "fase depressiva", cioè la paziente comincia ad elaborare, a spogliarsi lentamente delle sue identificazioni, e ad entrare nella logica significante. Viganò: Afferma che è la prima volta che dice a qualcun altro queste cose... Barracco: Sì, e aggiunge che non le ha mai dette a nessuno per la paura che la parola, il solo fatto di mettere in parola queste fantasie aggressive, ne faciliti la realizzazione. In questo senso c'è veramente un punto molto critico... Freni: Questo passo credo che sarebbe molto interessante per un kleiniano... Viganò: lo è anche per noi... Freni: nel senso che appare davvero un attacco al seno... Viganò: Sì, c'è questo elenco formidabile di cose, nelle serate di preparazione del caso dicevo che ricorda il catalogo delle donne nel don Giovanni, è fatto di cose banali, ma qui l'oggetto si presentifica in tutta la sua voracità, e si produce l'angoscia, ma qui si aggiunge anche qualcosa dell'ordine del simbolico, perchè per il fatto di essere stato detto, di entrare nel simbolico, diventa minaccioso e scatena l'angoscia. Barracco: la paura di mettere in parola è più legato, però alle fantasie aggressive... Freni: Qui c'è un punto drammatico, e forse qui entra la questione del controtransfert in senso terapeutico, in cui la terapeuta può dire "no, non hai mangiato nessuno...", e il terapeuta anziché dare accoglienza, la congeda, è un congedo che può essere considerato cinico. Barracco: Con quell'intervento io ho cercato di sottrarmi, effettivamente, perché mi è sembrato che l'appello della paziente fosse dell'ordine del bisogno, dell'accudimento, che spesso è il modo con cui i pazienti cercano di sottrarsi al lavoro significante. Ho valutato che l'episodio era sufficientemente significativo per tentare il non accoglimento, e ho sperato che la paziente "reggesse", sempre nell'ottica del "leone che salta una volta sola", era la prima volta in cui la rettificazione sulla sua posizione rispetto al cibo sembrava aver prodotto un'apertura, e non ho voluto rischiare di giocarmela, per la paura di un cedimento della paziente... Freni: Invece in un'ottica kleiniana, avremmo potuto comunque verbalizzare questo, dicendo "lei ora teme che io sia distrutta dalla sua ansia, vuole mettermi alla prova... Credo che dovremo rifletterci molto su questa questione... Barracco: Comunque in effetti c'è un legame fra l'oggetto orale e la questione aggressiva, il sangue viene subito associato, emerge al termine di questo elenco, un po' come una dissolvenza incrociata, come il famoso passo di Dante, del Conte Ugolino "Poscia più che l'onor poté il digiuno", dove, al di là di ogni diatriba interpretativa, quello che è incontrovertibile è che dal racconto patetico degli affetti, si passa nuovamente alla scena aggressiva e sadica, la scena che è paradigma dell'oralità, io penso, della dimensione speculare, in cui il Conte Ugolino addenta il cranio del suo acerrimo nemico. Anche in quella seduta, secondo me, c'è questo passaggio metonimico, lì c'è proprio il nucleo della struttura del sintomo, dell'oralità di questa paziente. Viganò: Ringrazio tutti, e vi ricordo il prossimo incontro, il 26 marzo. [ TORNA ALL'INDICE DEL SEMINARIO ]
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