| SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA - MILANO GUARDIA SECONDA CLINICA PSICODINAMICA NEL LAVORO ISTITUZIONALE DISCUSSIONE SUL CASO
RIVOLTA: La scelta di questo caso non è casuale in quanto è significativa in parte dell'organizzazione psichiatrica attuale e in parte ci permette di riflettere in un certo modo sul tema dei questo seminario dal titolo "Dove va la salute mentale". VIGANÒ: A questo proposito devo confessare che noi abbiamo un po' "frustrato" il collega chiedendogli di togliere una serie di considerazioni del tipo di quelle che ha accennato adesso in conclusione non perché non vogliamo che le dica, ma vorremmo farle emergere dalla discussione. Certamente sembra un po' un destino che i casi che presentiamo qui siano sempre così, come dire, "problematici" o, per certi aspetti, concludenti sull'insufficienza, la "difettosità" della struttura curante. Noi vorremmo evitare però di (anche per questo abbiamo trattenuto il collega almeno in una prima istanza) di precipitarci sulle evidenti manchevolezze dell'équipe curante nell'arco di questa storia che dura esattamente 10 anni dal febbraio 1990 al maggio 2000. Alcune considerazioni sulla linea psicopatologica del caso, non tanto sul trattamento. Nelle ultime battute del "discorso informale" con il nuovo medico (il dr Rivolta) emergono con una forma certamente ormai un po' meno incisiva, ma esattamente, i temi del febbraio 1990 cioè del primo impatto con la psichiatrizzazione. I viaggi all'estero per imparare le lingue, l'operatrice turistica, l'interruzione dell'università. Non c'è più il tema religioso del buddismo, ma c'è da chiedersi "che cosa" in questi 10 anni questo soggetto abbia elaborato per poter strutturare una supplenza (quella che il nostro cognitivismo spontaneo chiama critica o esame di realta') un po' più realistica della sua progettualità umana e sociale. Questo era il problema allora, e rimane il problema oggi, con l'aggiunta di un "derealismo", la distanza dalla realtà è nettamente aumentata. Questi 10 anni non hanno, in un'ottica psicodinamica, aiutato il soggetto ad elaborare qualcosa in termini realistici della propria posizione soggettiva. Il godimento per il soggetto si e' fissato sugli atti compulsivi e, ancor di piu', sul potere che questi le conferiscono anche senza compierli (enunciato ed enunciazione sono venuti a coincidere). I temi permangono, la cornice resta tale da rendere il quadro di un'eventuale elaborazione molto più evanescente. Questa è la prima osservazione. C'è poi da chiedersi se questo è un puro portato della psicopatologia: un soggetto che si allontana così clamorosamente dalla realtà è semplicemente la prova della diagnosi di una personalità schizoide? Quindi dobbiamo prenderlo come un dato puramente psicopatologico o possiamo fare qualche osservazione sulla dinamica interna a questo decennio? Io farei altre due osservazioni sulla dinamica di questo decennio che possano da una parte mostrare come forse la diagnosi, che a questo punto si impone, poteva essere anticipata con il vantaggio di potere agganciarsi al transfert. Quindi, seconda questione, quale era il punto transferale di una possibile elaborazione in questi anni. Due osservazioni importanti. La prima osservazione sulla diagnosi anticipata. Mi sembra che sia da valutare questo elemento rispetto alla diagnosi: come mai in tutti questi anni sia stata data un'importanza diagnostica decisiva a quella che appare più come una formazione reattiva difensiva, cioè i rituali che chiamerei non "ossessivi" nel senso della nevrosi ossessiva, ma anancastici-compulsivi. Non mi sembra che in nessun momento appaia che il tratto ossessivo sia in relazione a una difesa dall'angoscia di castrazione, sembra piuttosto una ritualità finalizzata (lo dice la paziente stessa) a svuotare il male, la maledizione interna, potendola esteriorizzare. Noi potremmo tradurre questo con "fissare simbolicamente" un'angoscia primaria, quindi un nucleo potenziale di scatenamento psicotico. Tutta questa sintomatologia anancastica è stata presa per "la malattia" e non come "la difesa dalla malattia" con il risultato di potenziarla al massimo. Il soggetto stesso è indotto epistemologicamente a "modellizzare" l'idea del proprio male come "centrata" sul rituale anancastico. Anziché "poter elaborare la maledizione su questo male interno" e le sue articolazioni possibili se non causali, ha incentivato la protezione dalla maledizione rimasta intoccata nella sua inattingibilità, almeno nelle relazioni terapeutiche transferali. Il transfert così si è ridotto e questa linea psicodinamica di valorizzare la difesa anancastica, di non toccare l'angoscia psicotica che promuove la difesa, ha portato il soggetto ad identificarsi con questo sintomo e il tranfert ad andare giustamente sull'istituzione e non su delle relazioni affettive. Infatti il transfert adeguato all'anancasmo÷ e' quello sulle mura del reparto al quale il soggetto è attaccato. C'è un legame transferale rispetto alla protezione "logistica" dell'ospedale. Inoltre non è stato dato peso a una dichiarazione fondamentale del 1994: "non credo che possiate fare nulla per aiutarmi" cioè l'elaborazione del male non è possibile metterla in gioco almeno con gli psichiatri, per aiutarla a livello della "male-dizione" dalla quale avrebbe potuto salvarla solo suo padre. Era un'indicazione, solo un transfert paterno avrebbe potuto portarla a dire-bene l'angoscia psicotica, con tutto quanto di delirante poteva comportare questo tipo di elaborazione. Invece si e' optato per spostare il transfert sulle mura difensive. Sarebbe piu' preciso che questa fu la via "normale", burocratica, in assenza di chi si potesse prendere il rischio di attuare un'opzione piu' originale. La scelta dell'apparato delle cure rispetto al transfert della paziente ha valorizzato le misure difensive a scapito dell'elaborazione psicodinamica. A che livello la paziente ha potuto sviluppare comunque una dinamica affettiva, non potendola legare alla medicalità, alla terapeuticità?. L'ha sviluppata trasversalmente con gli altri degenti ed eventualmente forse con il personale, infermieri etc÷ dove ha riportato la dinamica fondamentale sua e della sua famiglia, che io sintetizzerei con la ripetitivita' che nella sua storia caratterizza il ricorrere del tema "separazione". I primi quattro ricoveri sono legati ad episodi separativi. La causa della maledizione è riportata dalla stessa paziente alla separazione dei genitori e quindi la riparazione della maledizione e' vista come legata al ritorno del padre. Questo nella costruzione della teoria soggettiva di Ada.
Il primo ricovero è in relazione alla separazione dal cosiddetto fidanzato. Quindi separazioni reali e non sopportate, a cui la paziente reagisce con passaggi all'atto. Il ricovero avvenuto tre anni dopo è in relazione alla separazione dalla sorella che esce da casa per sposarsi. Quindi proprio un altro abbandono. Direi che il tema dell'impossibilità di separarsi culmina con il terzo episodio psichiatrico quando l'ambito familiare non è più sufficiente per questa operazione di svuotamento del male (gli insulti ricevuti devono essere scaricati sui familiari), allora prende la madre a testimone, esce dalla cerchia familiare e va dall'ex-fidanzato e dai vicini a citofonare tutto il suo male, i suoi insulti, con vicino la madre che la garantisca socialmente come per dire "faccio questo perché è una mia misura terapeutica, io devo svuotarmi, ho bisogno di voi, vi dico tutte le maledizioni, mia madre garantisce che è una cosa dovuta alla mia malattia" poi se ne torna a casa. È molto bella questa uscita dal "confine familiare" quindi questa messa nel sociale della sua dinamica. È a questo punto che nasce l'affidamento della sua cura al luogo ospedale, al reparto di psichiatria. Anche qui un tentativo di separazione dalla famiglia per poter giocare nel sociale la lotta contro la maledizione non viene valorizzato e questo porta alla recrudescenza della necessità di autolesionismo: deve bruciare due volte se stessa per purificarsi dal male. A partire da questo momento inizia il dramma, a questo punto più psichiatrico che non del soggetto, il dramma della cronicità. Il soggetto è stabilizzato in questa modalità di affidamento alla struttura protettiva del reparto e l'équipe comincia a stare male e a dire "Non si può cambiare niente, non c'è più niente da fare". L'ipotesi della comunità è brutalmente rifiutata dalla paziente; insomma il manico del coltello del potere è passato al paziente. Il paziente ha un potere ricattatorio invincibile perché ha queste pulsioni che sono in grado di spaventare chiunque e mettere nell'impotenza elaborativa chiunque perché non si può rischiare o i servizi non sono in grado di rischiare un passaggio all'atto nel momento attuale. Questa è la "vittoria di Pirro" della psicopatologia di questi 10 anni. La paziente è guarita nel senso che ha acquisito potere sociale, ma a scapito di una de-soggettivazione, sua e dell'équipe terapeutica. (una specializzanda, Dr Cusin): La prima perplessità che ho è di ordine terapeutico perché, se è stata formulata in passato una diagnosi di DOC, perché non è seguita una terapia farmacologia e comportamentale specifica per il DOC? La seconda è che io vedo nella permanenza attuale in reparto della paziente un enorme vantaggio secondario. La mia impressione è che lei soggiorni allegramente o quasi , si faccia portare in giro a vedere la comunità e poi rifiuta, intrecci relazioni affettive con il compagno di una codegente, ma tutto sommato non le venga imposto nessuna regola, nessuna richiesta, in uno stato di infantilismo perenne che noi stiamo qui a guardare: "se vuoi qualcosa, dacci un segno" però "chiedi le terapie tu, non imponiamo niente, non ci sono regole, non c'è un setting, non c'è niente". Lei÷ va avanti÷ Ecco, queste sono le mie due problematiche che mi chiedo come vengano affrontate e perché si è arrivati a questo punto. FRENI: Io dagli specializzandi mi aspetterei qualcosa di più forte perché li avevo avvertiti che sarebbe finita così. VIGANÒ: Ma queste due domande sono forti e precise! FRENI: Io voglio dire questo: io non sono sicuro che si tratti di un disturbo ossessivo-compulsivo. Come abbiamo visto anche la volta scorsa, ormai sono numerosi i casi in cui assistiamo a questo rapporto tra sistemi e rituali difensivi di tipo ossessivo sia all'ingresso che all'uscita di una condizione psicotica, e questa è una cosa ben documentata in letteratura che vi ho sempre raccomandato di studiare. Certamente qui la situazione è aggravata dal fatto che nella prima diagnosi (che forse fa intuire che è una diagnosi un po' di comodo) "reazione depressiva" era associata a una terapia neurolettica, quindi vuol dire che lo psichiatra già intuiva o comunque pensava di trovarsi di fronte a una condizione psicotica. Il problema è che non c'è stata una serie di passi terapeutici e diagnostici coerenti con questa prima impressione e credo che lei abbia ragione a dire che è un po' come se l'onnipotenza della paziente; e poi (una cosa che è stata tolta nella relazione e che forse valeva la pena di dire) la complicazione della famiglia e del padre in particolare con i suoi intrecci burocratico-amministrativi aveva creato questa sorta di soggezione nel team curante per cui in pratica, è vero, questa paziente onnipotentemente determina gli altri spaventandoli soprattutto con questa pesante minaccia di suicidio addirittura incendiandosi che è una modalità suicidiaria molto grave, molto impressionante. E penso che questo è un destino molto comune a decine e decine di casi che abbiamo visto anche presentati da voi. Per esempio il caso presentato da lui, qualora lui l'avesse lasciato come pensava di fare, fra 10 anni forse sarebbe stato un caso simile, speriamo che l'abbia ripreso. RIVOLTA: Per quanto riguarda la scelta della terapia, io non ho fatto nient'altro che rilevare quello che ho letto sulle cartelle cliniche, allora non lavoravo dove sto lavorando adesso. Però volevo fare una considerazione più generale. Io credo che sicuramente i farmaci sono molto importanti, ma di fronte a un caso del genere ritengo che÷ anche dare del Serenase o non darlo, pensare di dare o di non dare farmaci non è che cambia molto. Occorrerebbe pensare al caso e alla sua storia in una prospettiva complessa dove sono importanti sia la farmacologia, ma soprattutto la psicoterapia, l'intervento sul gruppo familiare e, rispondo poi anche alla seconda domanda, io sono profondamente convinto che casi del genere è assurdo che possano restare a lungo in un reparto psichiatrico. Lo diceva già Arieti in un suo libro anni fa, libro (Manuale di Psichiatria) che adesso è dimenticato, ma secondo me è molto più interessante leggere che cos'è la sindrome borderline sull'Arieti che sul DSM-IV, lo diceva già lui: che in reparto è meglio non mandarle queste persone perché la psichiatria non può essere ridotta a una semplice degenza che non solo non risolve i problemi, ma in molti casi li annulla, non ce li fa capire perché questa persona aveva bisogno di ben altro che ridurre, come diceva il Dr Vigano, i sintomi compulsivi. "Altre cose" che sicuramente non puoi dargliele sopprimendo il sintomo con il farmaco che sì, ha uno scopo sociale sicuramente, però credo che l'intervento debba avvenire su piani diversi. Questo non vuol dire non dare farmaci, ma inserirli in un intervento molto più complesso. Può essere difficile all'inizio agire in termini più elaborati perchè non si conosce il paziente. La diagnosi stessa non è proprio così facile: Il DSM IV ci impone una diagnosi descrittiva come una macchina forografica, invece la diagnosi in psichiatria è diacronica, può variare nel tempo, non possiamo usare metodiche diagnostiche come avviene in altre branche della medicina. La mia risposta è che questa paziente, secondo me, non deve stare in reparto. VIGANÒ: Allora dato che ci sono alcuni che chiedono÷ "deve restare fuori dal reparto" dobbiamo dire come si fa, qual è la forza che la può tenere fuori, perché nessuno l'ha spinta dentro al reparto questa paziente; semplicemente non si sono trovati i modi per creare, lei diceva, un setting terapeutico differente. Quindi spero che adesso gli interventi che si preannunciano parlino un po' di questo. (uno specializzando, Dr Audisio): Io mi chiamo Audisio, sono uno specializzando anch'io in psichiatria. Mi colpiva durante la lettura del caso quando a un certo punto si dice che la paziente "non ha potuto continuare le relazioni terapeutiche", si è sempre posta in una posizione di impossibilità a continuare una relazione; infatti mentre lei parlava e leggeva questa cosa non riuscivo a capire chi la curava. Io ho portato un caso un po' di tempo fa e mi hanno fatto notare che sembrava che tutti facessero qualche cosa, in realtà facevano solo rumore e mi chiedevo, volevo sapere da lei se c'è stato un referente, se ci sono stati dei referenti, proprio in quest'ottica nel senso di privilegiare comunque una relazione. (Dr Castaldi): Sono Giovanni Castaldi. Io volevo solo chiederti questo: qual è il progetto terapeutico rispetto a questa paziente perché la costruzione che ha fatto Vigano a livello psicodinamico è molto precisa: noi abbiamo un bel pacchetto confezionato però non si evince assolutamente qual è il progetto. L'unica cosa certa in questi 10 anni è che questa paziente ha trovato un luogo che è l'SPDC, la psichiatria vuole mandarla via e lei ha trovato un luogo in cui, in qualche modo, ha trovato una certa stabilità. Se puoi dire qualcosa rispetto proprio alla prospettiva terapeutica e se effettivamente questa paziente in qualche modo è in cura con l'intera équipe, con questa collettività molto evanescente oppure se c'è qualcuno che si prende una responsabilità riguardo a questo caso e funzioni in qualche modo come referente con tutta anche la negatività transferale di questo prendersi in carico la paziente a livello dell'individualità. (Dr Cozzi): Io volevo intervenire su un punto: il fatto di avergli dato il Serenase, si poteva anche non darglielo, non sarebbe cambiato niente. Forse sì, posso anche condividerla dal punto di vista del paziente, però dal punto di vista di chi l'ha prescritto qualcosa cambiava, perché il fatto di dare quel farmaco invece che dare solo gli antidepressivi probabilmente c'era un'intuizione della gravità della situazione o comunque di una diagnosi differente rispetto a quella con cui veniva dimessa. Credo che questo aspetto sia stato poco ripreso tant'è che poi la diagnosi successiva "borderline" diventa un po' un modo di sottrarsi alla diagnosi. È vero che il DSM IV ci chiede di fare la diagnosi in termini descrittivi, però è anche vero che tutto sommato può essere un primo passo rispetto spesso, almeno a quel che vedo io, ad una sorta di assenza di diagnosi per cui mi sembra a volte che anche far la diagnosi di "borderline" sia come un modo per sottrarsi. E÷ Credo che in gran parte il tutto sia partito da lì, del destino di questa paziente perché mi sembra che quella prescrizione del serenase sia stata fatta più per contenerla socialmente. Allora è andato tutto nella direzione del contenimento. Vede÷ lei prima diceva: si poteva fare un intervento con la famiglia, si poteva fare questo, si poteva fare quello÷ è vero.. se facciamo una diagnosi di psicosi dobbiamo rivolgerci verso "l'altro sociale", però questa paziente il primo "altro sociale" che ha incontrato è stata l'équipe curante, tutto sommato, nel momento della crisi. Allora l'aver ridotto all'impotenza l'équipe che la curava ha portato poi ad impedire altri interventi possibili perché anche lì, lei parlava della famiglia, però di fatto questa famiglia un po' se la prende, un po' non se la prende, non si capisce bene com'è collocata ma perché davvero, a mio parere, la prima collocazione che è mancata è quella del "primo altro" che se l'era presa in cura, che era quella dell'équipe curante. E credo che un problema che è un po' diffuso in tutti gli ambiti istituzionali, soprattutto quando c'è una degenza a tempo pieno. Anche perché÷ giustamente, rifiuta di andare in una comunità, cioè che cosa cambierebbe per lei tra l'andare in una comunità e rimanere lì? Perché in una comunità? Allora rimane lì. Oppure, anche la proposta di andare in un CRT tutto sommato si inserisce sempre in una sorta di separazione quasi che il muro che è stato elevato per contenerla socialmente venga mantenuto. Allora÷ torno alla diagnosi iniziale: secondo me, quell'intervento volto al contenimento ha marcato proprio col segno della paura rispetto al paziente tutto quello che è stato il percorso successivo. Il singolare è che, nonostante i mutamenti che credo siano intervenuti nella composizione dell'équipe, perché in tutte le strutture pubbliche c'è un po' un via vai sia di psichiatri che di infermieri e tutto÷ questa paura si sia mantenuta. Ecco, quasi che, quel punto, non fosse più stato più possibile riprenderlo. (uno specializzando, Dr Cerveri): Io sono Cerveri, sono uno specializzando. Volevo fare due brevissime domande. La prima a proposito di quello che ha detto la mia collega, la dottoressa Cusin. L'impressione che ho avuto io dalla terapia, al di là se servisse o meno il serenase, che non ci fosse un'ipotesi dietro, cioè a un certo punto÷ non so se ho capito male io o se era espressa così, ma mi sembrava che a un certo punto ci fosse in terapia il Disipal senza nessun neurolettico÷ Però mi sembrava alla fine che non ci fosse un'ipotesi su che cosa fare con questi farmaci, ma che fossero dati in qualche modo così÷ a tentativi. E il secondo aspetto che mi ha colpito molto è il concetto del suicidio. In fondo la paziente mi sembra che sia rimasta un anno intero o più in reparto perché terrorizzava tutti con l'idea del suicidio. Spessissimo ho sentito parlare male degli oncologi perché trattano male il tema della morte. Noi psichiatri dovremmo in qualche modo, prima di parlare male così degli oncologi, dovremmo sapere noi che cos'è la morte cioè imparare a convivere con questa idea della morte, quindi non farci magari bloccare. A un certo punto quello che ho pensato: la paziente tenta di darsi fuoco, le si tolgono gli accendini÷ e poi cosa si fa? Le si legano le mani? E poi la si congela? La si tiene in reparto per sempre in modo da evitare che lei si uccida? Forse dobbiamo pensare all'ipotesi che il suicidio possa diventare un evento possibile, non possiamo fare niente÷ che quindi dobbiamo accettare l'ipotesi della morte di questa paziente. È un po' provocatorio, però mi sembra importante. VIGANÒ: Non siamo in un luogo di spettacolo, ma io applaudirei a quest'ultima cosa che ha detto il collega÷ è veramente fondamentale dal punto di vista dell'etica e della clinica perché è alla base÷ e, già che ho la parola, sottolineo solo una questione rispetto alla terapia÷ lei giustamente ci ha dato una chiave etica, lei parlava di setting terapeutico. La terapia non è tanto solo "serenase sì serenase no", ci sono anche i nuovi neurolettici, magari andavano anche meglio. Il problema è come sono stati usati, cioè quello che diceva Cozzi. Fin che la paziente era lì, bisognava contenerla. Uscita dal reparto, lei per tre anni il serenase non sapeva neanche che esistesse÷ cioè non si è instaurato nessun tipo di transfert su questa terapia. È stata una terapia addirittura che non si è nemmeno tentato di fare in modo tale che la paziente la assumesse transferalmente perché quel buonismo che porta a fare una diagnosi non psicotica e poi gli si dà il serenasse da continuare a casa, è assolutamente destinata strutturalmente a non essere eseguita. Da quando in qua io ti dico "tu non sei malato, però continua a fare questa cura precauzionalmente"? Quello torna a casa, tutti sanno che non è malato nel senso della psicosi, cioè di quella cosa che spaventa, che bisogna curare anche da parte dei parenti etc÷ È un doppio messaggio questa diagnosi con questa terapia. Su questo punto non si è costruito un transfert positivo durante il ricovero né da parte della paziente né da parte dei familiari. Quindi sono d'accordo che lì c'è un po' in nuce il destino della terapia futura e÷ progetti, referenti etc÷ poi sono da vedersi come applicazioni di questo atteggiamento criticabile (e per questo mi sono inserito) secondo me innanzitutto da un punto di vista etico. Un'équipe, un referente, un clinico che fa una dimissione di questo genere fa un atto÷ "quasi delinquenziale", diciamo così, perché se ne misuriamo poi le conseguenze a distanza, non fa un atto di pietà umana verso il soggetto per non spaventarlo÷ e ancora qui il riferimento all'oncologia viene bene: come dimettere uno che ha un tumore dicendo: "ah, ha una febbriciattola÷ però prendi gli antiblastici, ma comunque non è niente di grave" cioè÷ chi facesse una roba del genere, va in galera÷ perché non fa la diagnosi corretta, perché impedisce al soggetto di curarsi di una malattia grave, solo che con la psicosi non va in galera nessuno, perché sono meno facili le prove "oggettive" del comportamento clinico "inadeguato". Questo buonismo è un modo di riprendere in una maniera secondo me scorretta l'antipsichiatria, l'opera di Basaglia etc, etc÷ Basaglia non diceva mica di fare queste robe qua! Di dire agli ammalati che non hanno niente, torna a casa con questa poi vaga indicazione di neurolettico! Diceva che bisognava costruire un tessuto transferale e sociale per seguire questa persona anche con lo psicofarmaco÷ Mi sono inserito su questo particolare÷ però do' la parola a Rivolta che ha delle altre cose da dire. RIVOLTA: Volevo semplicemente dire che non è l'unico caso di una nuova patologia psichiatrica. Io credo che ci troviamo di fronte a una situazione che la psichiatria tradizionale non ha ancora ben compreso, capito e anche dato delle indicazioni in termini farmacologici e anche progettuali. Penso che ci troviamo di fronte al "vuoto". Più che alla produttività sintomatologica, a vissuti autistici, nuovi mondi, stranezze particolari, ci troviamo di fronte al "vuoto"÷ e i sintomi sono delle armi di ricatto che la paziente mette in atto÷ Quando io le parlavo, l'ho rassicurata dicendole, proprio in uno degli ultimi colloqui, che non avevo l'intenzione di mandarla al CRT, di interferire su quello che lei stava facendo cioè la sua attività principale, quella di restare in reparto÷ e lei è uscita dicendo: "Sì, sì÷ perché lei mi dice questo, io mi suicido". Io capisco che è difficile che se uno non ha mai lavorato in un reparto conosca certe cose, ma quando sei a lavorare in un reparto di psichiatria le cose più importanti sono di tipo legale più che il paziente. Se la paziente esprime desideri suicidiari, anche se questa espressione può anche non essere seguita da un agito, comunque non si può far finta di niente, occorre mettere in atto i meccanismi protettivi possibili. Per quanto riguarda il progetto, in effetti "un progetto" non esiste perché "il progetto" lo fa lei. Allora mi domando come si può uscire da questo circolo vizioso? A quale altro tipo di progetto pensare, sicuramente non è certamente il reparto, probabilmente, secondo me, lo è una struttura residenziale, stando così le cose come sono organizzate. VIGANÒ: Non è "quale altro progetto?" è "quale legame del paziente con un progetto, qualunque?". Le domande riguardavano la forza attrattiva e la capacità di formulare i progetti, non che questo non andava bene e se ne dovesse fare un altro. RIVOLTA: Che cosa vuol dire però "Progetto?" Vuol dire "cambiamento?", vuol dire "prospettare autonomia, lavoro?" La paziente è già seguita da un operatore, lei una volta alla settimana va a parlare con un medico. L'operatore che la sta seguendo ha proposto l'inserimento comunitario vista l'impossibilità di creare qualsiasi aspetto relazione. VIGANÒ: È questa impossibilità di creare qualsiasi relazione che noi stiamo mettendo in discussione, che non vogliamo dare per scontata perché il transfert non è risolto dal fatto che le dici: "venga una volta alla settimana" e lei non viene. Il transfert si instaura se si dà una risposta adeguata quando lei dice: "Sono divisa in due": questi due devono trovare una risposta che a lei dia soddisfazione. Se il medico fa finta di niente e fa una diagnosi di reazione depressiva, la reazione si è esaurita e la manda a casa con il serenase, il transfert non si stabilisce perché lei non è "motivata" ad andare agli appuntamenti settimanali che pure le sono stati così prescritti. Però metterei un attimo in sospeso adesso questa questione del progetto e del transfert perché c'erano quegli interventi sull'aspetto medico-legale della minaccia di suicidio che mi interessa sentire. (uno specializzando): Registrazione non udibile. (una specializzanda): Io sono assolutamente con la mia collega. Prima di tutto un tantino offesa: "per chi non sta in reparto è difficile capire l'ideazione suicidarla", allora÷ la maggior parte di noi fa guardie, pronto soccorso, notti, reparto e ambulatorio etc etc÷ a dosaggi abbastanza congrui... per cui il problema è che io non posso sinceramente ricoverare tutti quelli che mi dicono "ho un'ideazione suicidarla, mi taglio le vene, mi butto" perché molto spesso è proprio "funzionale" la minaccia di suicidio; questo÷ un punto. Un'altra cosa è che sicuramente è dimostrato che un intervento farmacologico ha un certo tipo di effetto fosse anche uno sintomatico, d'accordo÷ gli faccio passare il sintomo, gli dò la possibilità di fare qualcos'altro, cioè di provare a vedere un livello diverso. Due: gli imposto una terpia o gli impongo una terapia, se la paziente rifiuta in qualche modo la terapia vuol dire che lei ha la necessità del sintomo, ma questo è tutto un altro discorso, cioè non lo subisce più, ma lo sfrutta per ottenere un vantaggio, quindi questo mi cambia completamente la prospettiva. Sono due approcci diversi che però passano attraverso un intervento farmacologico sensato, mirato, a dosaggio pieno, con un certa ipotesi in testa cioè÷ ho l'ipotesi che sia psicotica, le dò un neurolettico a dosaggio serio, in tempo congruo e vedo la differenza÷ ho l'ipotesi che sia ossessiva, antidepressivo adeguato ad alto dosaggio, eventualmente in vena, però con una certa previsione÷ in questo senso il progetto terapeutico va fatto, cioè io pigio un pulsante e mi aspetto un risultato. Se il risultato è diverso, ho sbagliato ipotesi÷ però se non c'è questo÷ almeno ha me hanno insegnato che prima si fa l'ipotesi e poi si verifica, se non funziona così non faccio più il medico. (Dr.ssa Giovanna Di Giovanni): (iniziale registrazione non udibile)÷ molto interessante fatta dal Dr Vigano, è venuta fuori dal caso, si è passati al problema degli psichiatri e dell'équipe psichiatrica÷ spostato dalla paziente, il problema, adesso, è stato detto, e credo che sia vero, è degli psichiatri, della psichiatria, di dove va la salute mentale÷ tanto è vero che la paziente ha trovato una sua stabilizzazione. Si dà il caso che quella non vada bene agli psichiatri, al nostro sistema di salute mentale. Quindi c'è una sorta di "gap" fra queste due cose. A me ha colpito anche un'altra questione: chiamare "ricatto" quello che dice la paziente. Mi stupisce un po' perché, certo, un aspetto di ricatto ci può essere sempre nelle affermazioni non solo dei pazienti, ma di tutti gli esseri umani, però evidentemente la paziente ha trovato lì la sua stabilizzazione se in un altro modo minaccia o vuole tentare il suicidio e arrivo qui al punto che mi ha molto colpito: la questione della morte. La questione della morte non è facile ed è accuratamente evitata da tutti i medici, tanto più dagli psichiatri, forse è una delle motivazioni fondamentali per cui si fa il medico, dicono. In ogni caso a me nella psichiatria ha sempre colpito il fatto che si parla molto del suicidio e della morte fisica, ma si minimizza anche noi il fatto che, in fondo, la psicosi non è una gran vita e una sorta di morte, a mio parere, esiste nella psicosi. Che poi vogliamo convincerci che si può vivere benissimo nelle strutture residenziali o fuori, può essere condiviso oppure no. Personalmente non lo condivido. E personalmente credo che sia molto difficile trovare una vita vivibile per tutti i diversi, ma a cominciare dagli psicotici. E qui arrivo al punto. Si è parlato di équipe psichiatrica. Io credo che una solitudine come quella implicata dall'idea della morte, che sia la morte fisica o la morte psichica, da soli non si possa gestire. Capisco benissimo che si faccia una diagnosi di disturbo ossessivo e si dia l'Haldol o, di nascosto, qualsiasi altra cosa perché da soli non si regge. Non lo si regge neanche nell'infanzia quando si vedono i bambini psicotici perché ci sono e non si sa come dirlo, e come farlo accettare ai genitori. Allora io credo che questa solitudine della morte, da accettarsi sul medico, implichi che vada condivisa. A me ha colpito che si è parlato di équipe, ma in verità io non ho avuto la minima idea dell'équipe al di là dei cambiamenti, giusti, necessari e burocratici, ma un'équipe qualsiasi, fatta da due persone che condividano questa paura, questa costruzione per esempio, per arrivare, e qui finisco, alla famosa maledizione. Maledizione di cui la paziente stessa indica il padre come unico possibile punto di intervento, anzi agente di intervento, come ha detto giustamente Viganò. Benissimo, il padre sarà una persona potente, il padre non si potrà toccare, ma chi si è posto il problema? Doveva porselo solo il medico che faceva diagnosi di nascosto di psicosi e apparentemente di ossessività oppure l'ha divisa con qualcuno? Ci sono questioni insomma che non si possono affrontare da soli, è questo che voglio dire. Allora, o si accetta questo e ci si accorge umilmente che la cosa più difficile della psichiatria è la condivisione delle questioni di fondo oppure alla fin fine fare una diagnosi o un'altra, sì, si potrà anche sbagliare e farne di nascosto, ma non è lì il nocciolo della difficoltà, io credo, è nella condivisione di queste questioni di fondo che vanno giustamente dalla questione della morte psichica prima che fisica, e di che cosa farne nella vita di questi aspetti di morte e come mai non si sia potuto condividerli a nessun livello in questo caso, secondo me. Tant'è vero che anche tu hai parlato da solo, ora, mi sembra, se non ho capito male. (uno specializzando): Registrazione udibile in modo frammentario. ÷a me interessava ancora l'aspetto medico-legale che ha sollevato nella sua replica÷Qui, a un piano di distanza, abbiamo avuto una paziente che per otto mesi è rimasta ricoverata nella stessa identica situazione÷ io credo che, da un parte, in pronto soccorso si va incontro a un'omissione di soccorso se si lascia andar via un paziente che minaccia il suicidio. Con una persona invece che è rimasta ricoverata per lungo tempo in reparto, se si propone un progetto valido che vuol dire una comunità, che vuol dire andare a fare delle visite domiciliari con una certa regolarità÷ Poi ad un certo punto dobbiamo confrontarci con i nostri limiti, nostri e delle strutture, nel senso che non possiamo accudirla in modo totale perché abbiamo paura che si suicidi.. mi sembra che alla fine siamo noi paralizzati, ma anche lei÷ FRENI: A me pare che si stiano sollevando dei problemi molto complessi che aggravano un po' la gravità del caso. In realtà casi come questi ne abbiamo visti tantissimi, esistono in tutti i servizi, diventano emblematici di uno scacco dell'équipe e hanno dei risvolti molto complessi dove poi il fantasma medico-legale diventa paralizzante per tutti, perché esiste, è una realtà, è grave, cioè la psichiatria è chiamata istituzionalmente ad agire più per scopi di contenimento e di difesa. Stiamo bene attenti: ancora, malgrado la legge 180, il ruolo della psichiatria sostanzialmente è quello di contenere e proteggere la società dalla pazzia, non dimentichiamolo. Quindi, finchè non ci sarà un'evoluzione nella mentalità, nella società, nella legislazione, abbiamo avuto un esempio qualche mese fa quando è venuto il pubblico ministero a dirci che "tu, medico, nell'esercizio della tua funzione pubblica, allorché vieni a sapere di un soggetto che ha subito un trauma sessuale, sei obbligato a denunciare÷ quando noi sappiamo che nei disturbi dissociativi, nei disturbi borderline, l'eziologia traumatica da abuso sessuale è altamente incidente÷ e allora qui si crea veramente un'incongruenza grave: come fai tu ad andare a denunciare il paziente che in una situazione di fiducia ti viene a dire queste cose? Quindi siamo nella follia della società questa volta. Premesso questo, la metafora della morte in oncologia, in psichiatria, è molto efficace e fa sempre impressione, però noi ci occupiamo di morti psichiche. È il suicidio la morte della psichiatria. Però confinare il suicidio soltanto nell'ambito della psichiatria secondo me è riduttivo perché è una problematica più antropologica. In questo senso è vero che il paziente che minaccia il suicidio crea una situazione grave, di forte impasse in un gruppo perché scatena appunto la preoccupazione, la responsabilità e credo che le risposte, spesso anche delinquenziali che si mettono in atto hanno lo scopo di difendersi da questo. Si crea veramente una situazione collusiva grave che ha lo scopo di difendersi da una condizione ritenuta ad alto rischio espositivo. Se io dimetto un paziente che poi si suicida sul serio e incappo in un padre paranoico come questo, anche se qui non esce fuori la figura del padre, questo può dare il via ad un'azione giudiziaria anche con successo, mettendo veramente in grossi guai un'intera équipe, poi magari una o due persone a cui viene rovinata la vita. Quindi esistono queste preoccupazioni. Io personalmente non me la sento di rimproverare quei colleghi che a scopo cautelativo, come spesso è successo anche quassù, finiscono col tenere i pazienti anche tre anni, in un'epoca in cui si dice che dopo una settimana, quindici giorni al massimo, bisogna cacciarli via. Ecco, quindi sono questioni molto complesse che toccano anche la concezione sociale e giuridica della malattia, toccano la questione della responsabilità, rispetto a cui l'etica è un fatto dell'individuo, a mio avviso. Noi qui stiamo ipotizzando un terapeuta eroico che sfida e, dall'alto della sua concezione tragica dell'etica, dice: "dimettiamo.. facciamo÷ ma è solo nella misura in cui ha deciso di mettersi÷ e noi stessi abbiamo cercato un po' di invitarlo a rintuzzare i suoi "comizi politici antipsichiatrici", ma anche oggi gli è scappata, insomma, perché? Perché uno ha la sensazione che gli altri non capiscono niente, che gli altri sono dei codardi, che gli altri non si assumono le responsabilità.. beh, è successo anche a me un centinaio di volte. Il problema è: come si fa a condividere in un gruppo la responsabilità? Un gruppo che dice: bene, allora noi siamo d'accordo che ci assumiamo il rischio che questa si suicidi e diamo luogo a questo programma terapeutico, e lo sosteniamo fino in fondo, uniti e compatti anche di fronte al giudice. Ma dove stanno queste persone così? Ecco÷ la parola al relatore. RIVOLTA: Innanzitutto mi fa piacere che è venuto fuori un dibattito abbastanza vivace e argomentato. Sicuramente il caso non è un caso semplice. In fondo mi sono un attimino "tirato la zappa sopra i piedi" presentando un caso difficile. Altri casi invece sono più lineari, più facili, più abbordabili sia dal punto di vista farmacologico che della degenza ospedaliera. Però ho scelto di proposito questa caso perché ritengo che le strutture psichiatriche attuali dovrebbero tener conto che sono in aumento casi del genere che si presentano più che come una struttura di malattia, come disturbi di personalità o comunque con sintomatologie che possiamo ritrovare in qualsiasi disturbo psichiatrico, come è descritto nel DSM IV. Per quanto riguarda i farmaci non è che io ho potuto star qui a scrivere tutto. La prima volta che ho presentato il caso, nella riunione preliminare, erano un paio di pagine in più, le ho ridotte, avevo dettagliato anche in modo un po' più approfondito sia la scelta dei farmaci che prende tuttora sia il dosaggio dei farmaci. Io però rimango convinto che tenere in reparto persone così non è terapeutico, per me van benissimo i farmaci, ma dati nell'ambiente giusto. Un farmaco agisce anche i relazione a quello che è la circostanza ambientale in cui vive il soggetto, qualsiasi farmaco, tanto più gli psicofarmaci. A mio parere occorre cambiare la struttura ospedaliera con una struttura riabilitativa. Attualmente sono obbligato a somministrare il farmaco perché lei produce ogni tanto dei sintomi, chiede lei stessa i farmaci. Quando rientrava dalla visita al CRT , chiedeva una fiala di En perchè evidentemente poi non è così in equilibrio neppure lei, a volte anche lei va in crisi. Forse ho detto delle cose che possono anche essere fonte di discussione÷ giustamente÷ però concludo dicendo che questa persona ha bisogno di andare in una struttura che ha tempi, modalità e soprattutto dà la possibilità di vivere lo spazio fisico e il rapporto con gli altri in modo diverso da quello che è il reparto. FRENI: Chiedo scusa se approfitto ancora, su questa specifica questione del farmaco io mi ricordo che c'era una stranezza, per cui quando la paziente era ricoverata nell'SPDC riceveva una farmacoterapia non particolarmente contenitiva, quando venne mandata per un certo periodo al CRT ricevette l'Haldol decanoato÷ RIVOLTA: No, non è mai stata al CRT FRENI: Però, la cosa che vale sempre, che ci fa tornare al discorso del progetto terapeutico, che÷" farmaco sì, farmaco no", di nuovo si pone la questione della diagnosi, si pone la questione dell'obbiettivo per cui decido di dare un farmaco piuttosto che un altro e così via÷ e quindi decidere dentro o fuori, senza un preciso progetto a mio avviso non è che cambia moltissimo. (uno specializzando): Registrazione non udibile. Ricordo comunque che l'intervento era piuttosto polemico nei confronti degli psichiatri che non possiedono un linguaggio comune, condiviso, e che non sanno poi utilizzare al meglio gli psicofarmaci. FRENI: Ma, caro giovane collega, io ti voglio ricordare che tu stai parlando male di psichiatri che danno i farmaci che tu e molti di noi qui stiamo ritenendo impropria stamattina e quindi, "dove va la salute mentale" ripropone il problema delle performances, della preparazione degli operatori, della loro formazione, della loro capacità tecnica, operativa, la loro capacità di capire i discorsi dei pazienti. Torniamo sempre lì. E questo è giusto o non è giusto? È giusto che si faccia una scuola di specializzazione perché si spera che voi, futuri psichiatri, sarete più bravi di quelli delle generazioni precedenti, però dobbiamo abituarci, quando facciamo questi interventi, a farli in una maniera molto precisa e oggettiva, come ha cercato di fare la Cusin e altri. Quindi, come non hanno fatto i colleghi della volta scorsa, che dovevano portare la letteratura, e non l'ho vista ancora, e la voglio vedere÷! Allora sì che possiamo fare un discorso creativo, e non ideologico o politico. Certo, questa paziente ha una sofferenza, ma non è venuto fuori di che sofferenza noi stiamo parlando: se è una grave psicosi, se è una borderline, se è addirittura una ossessivo-compulsiva, ma mi sembra poco probabile÷ (intervento dalla sala): Registrazione non udibile Ricordo che la domanda poneva il problema di chi è il responsabile del progetto terapeutico e quale terapia farmacologia è somministrata attualmente. RIVOLTA: No, non sono direttamente responsabile. Comunque adesso sta assumendo un antidepressivo (Venlafaxina), bassi dosaggi di neurolettico (Entumin) e benzodiazepine... VIGANÒ: Ci tengo che questo dibattito rimanga sempre centrato sulla costruzione, e quindi su ciò che è avvenuto nella storia e non debba diventare una supervisione e quindi una riunione di équipe di indirizzo, perché non sarebbe il luogo di farlo qui, poi farlo una volta sola su un caso non sarebbe corretto, bisognerebbe poterci ritornare sopra, però è stata interessante anche questa intervista. La prossima volta io inviterei quello che Freni ha chiamato "giovane collega" se vuol fare un intervento costruito di 5 minuti, come gli altri, su questa questione del linguaggio comune, sarebbe gradito, grazie. [ TORNA ALL'INDICE DEL SEMINARIO ]
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