LO STATO DELL' ARTE DELLA TECNICA PSICOANALITICA
Marianna Bolko & Alberto Merini (Introduzione)
Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 242-253 Difficoltà
a discutere di tecnica.
Esiste una tecnica classica?
Scrivere di
tecnica è difficile in quanto, chi scrive, inevitabilmente è
portato a teorizzare ciò che fa nella propria stanza d'analisi.
Se questo è utile per confrontare le idee, non lo è altrettanto
per confrontare la pratica.
Le
opere classiche sulla tecnica (...), per quanto eccellenti, forniscono
solo una falsariga, in quanto non descrivono abbastanza particolareggiatamente
cosa fa effettivamente lo psicoanalista quando analizza un paziente cosicché,
ad esempio, analizzare una resistenza può significare una cosa per
un analista e una cosa sorprendentemente diversa per un altro, anche se
ciascuno dei due crede proprio di analizzare una resistenza, secondo i
canoni classici della psicoanalisi (Greenson, 1967, p. 5).
D'altra parte
sembra difficile discutere di tecnica, non solo fra appartenenti a diverse
«scuole» (questo sembra addirittura impossibile) ma
anche all'interno delle singole scuole non è infrequente, quando un collega
presenta un caso, sentir commentare: «Questa non la chiamerei
analisi». Questo tipo di reazione, fra l'altro, è uno dei
maggiori deterrenti che inducono a non presentare i propri casi ai congressi
delle società psicoanalitiche (Schafer, 1983, p. 270).
Inoltre;
l'analisi
didattica (...) lascia generalmente un notevole residuo di reazioni transferali
irrisolte che è alla base della «riluttanza degli psicoanalisti»
a rivelare apertamente ad altri il proprio modo di lavorare» (Greenson, ib.,
p. 7).
Kernberg, nell'ultimo simposio della International
Psychoanalytic Association (IPA),
tenuto a Taunton nel 1984 con la presidenza di Robert S. Wallerstein, su
«I cambiamenti intervenuti negli analisti e nella loro formazione»,
osservava:
Negli
istituti psicoanalitici regna troppo spesso un'atmosfera dottrinaria piuttosto
che un clima di ricerca scientifica. I candidati in formazione (...) tendono
a studiare e citare i propri insegnanti e ad ignorare gli altri approcci
psicoanalitici, anche quelli che si situano nell'ambito del pensiero psicoanalitico
(...). I candidati sono sistematicamente messi nell'impossibilità
di sapere esattamente come i propri insegnanti pratichino la psicoanalisi.
Nei seminari clinici i candidati discutono solo dei propri casi e quindi
di tecniche di trattamento che, con tutta verosimiglianza, non sono le
migliori (...). Se i candidati non possono venire a conoscenza di esempi
di interventi tecnici effettuati da psicoanalisti esperti, sono portati
ad idealizzare sia la tecnica che i membri più anziani del corpo
insegnante (Kernberg, 1984, p. 60).
Potremmo continuare
con le citazioni, ci sembrano peraltro sufficienti da una parte per sottolineare
le difficoltà di un discorso sullo stato dell'arte della tecnica
psicoanalitica - e quindi sui cambiamenti intervenuti in essa - dall'altra
per ringraziare i nostri interlocutori di «aver rivelato il loro
modo di lavorare».
La tecnica
classica per definizione dovrebbe essere quella di Freud così come
è stata esposta negli scritti sulla tecnica 1911/12, 1913/14). Ma,
come osservava Racker nel 1958, «Freud non era un'analista classico,
nel senso che ha correntemente questa espressione» (Racker, 1968, p. 48). Così, è stato osservato (Eissler, 1953; Merini
et al., 1985, ecc.) che nell'analisi dell'Uomo dei topi e in quella
dell'Uomo dei lupi Freud non usava (o non usava sempre) la tecnica
degli Scritti: ricordiamo brevemente come Freud offrisse da mangiare all'Uomo dei topi, gli spedisse cartoline, gli chiedesse insistentemente
le fotografie della fidanzata, gli comunicasse di essersi fatta una buona
idea di lui, gli facesse molte domande, spiegasse la psicoanalisi... .
Per vari motivi
il progetto rientrò e videro la luce i sei seguenti saggi:
la
difficoltà di formulazioni di carattere generale; il fatto che la
tecnica dell'analisi aveva subito nel passato molte trasformazioni, e prevedibilmente
ne avrebbe subite ancora; la inopportunità che potenziali pazienti
leggendo quest'opera si presentassero poi all'analisi muniti di idee preconcette
da confrontare col comportamento del proprio medico; il pericolo che medici
desiderosi di divenire analisti ritenessero sufficiente a tale scopo la
lettura di un massimario di prescrizioni tecniche e non un'autoanalisi.
Freud sostiene la indispensabilità dell'autoanalisi nella relazione
tenuta al Congresso di Norimberga e, nel terzo dei saggi di tecnica qui
presentati, egli ritiene addirittura necessaria un'analisi fatta presso
un altro analista. Ma a distoglierlo dal primitivo progetto debbono comunque
aver agito su Freud anche fattori emotivi più profondi.
Un riflesso di
questi dubbi e perplessità possono essere le affermazioni alquanto
contraddittorie contenute negli Scritti: prescrittive e dogmatiche
talune (nessuna ambizione terapeutica o educativa! freddezza da chirurgo!
vietato avere rapporti sessuali con le pazienti! ecc.), prudenti e problematiche
altre:
Ma è lo
stesso Freud che, in una lettera a Ferenczi, racconta delle proprie perplessità
e di come fossero fondate.
Le
raccomandazioni tecniche che scrissi tanto tempo fa erano d'ordine essenzialmente
negativo. Mi pareva che la cosa più importante fosse sottolineare
quello che non si deve fare e segnalare le tentazioni di scegliere direttive
contrarie all'analisi. Lasciai al tatto tutto ciò che di
positivo si dovrebbe fare (...).
Sembra quindi
che non si possa parlare di tecnica classica riferendosi a Freud. Si può
però ritenere con quest'ultimo che, quelli che dovevano - ambiguamente,
però - essere dei consigli per principianti, delle indicazioni di
massima, siano diventate, forse solo per «analisti docili»,
«le regole», «la tecnica classica».
L'analisi
come processo - scrive Kubie - designa una situazione abbastanza
standardizzata per consentirci di condurre osservazioni raffrontabili su
una stessa persona in momenti diversi, ed anche su persone diverse. Questo
assetto mantiene una relativa costanza di tutte le variabili esterne, rendendo
possibile la ripetizione delle osservazioni un giorno dopo l'altro in un
complesso di circostanze relativamente immutato. Esso riduce al minimo,
anche se non può eliminarli, i cambiamenti introdotti dall'atteggiamento,
mutevole dell'osservatore, cioè l'analista, e anche le deformazioni
introdotte dai processi inconsci dell'analista stesso, trasformandolo nella
misura del possibile in un registratore passivo e inerte delle proprie percezioni preconsce della produzione del paziente.
È da sottolineare
che questa immagine così ascetica della tecnica non corrispondeva,
per quel che ne sappiamo, alla pratica degli analisti. Due soli esempi: l'inchiesta di Glover del 1938 e
l'articolo di Eissler del 1953.
Nell'articolo
Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica, Eissler
introduce il concetto di «modello tecnico di base» rappresentato
dalla «tecnica che si avvale dell'interpretazione come strumento
tecnico esclusivo» (Eissler, 1981, p. 54). Partendo dalla definizione
freudiana di Io normale come «Io che può garantire lealtà
costante al patto analitico» precisa che tale Io - e solo tale Io
- possiede «la capacità di rispondenza a comunicazioni verbali
razionali che non contengono altro che interpretazioni» (ib., p. 63), solo tale Io può pertanto reagire correttamente al modello
tecnico di base. Ma poiché un Io siffatto è solo una costruzione
teorica, «mai incontrato nella pratica clinica» (ib., p. 62) risulta evidente che il «modello tecnico di base»
non è mai utilizzabile o mai utilizzabile da solo. L'analista infatti
fa altre cose (anche altre cose): dà consigli, ordini, rassicurazioni,
introduce cioè degli strumenti terapeutici diversi dall'interpretazione,
che Eissler chiama «parametro di una tecnica» (ib., p. 54).
Il parametro
serve ad uscire da quelle situazioni di impasse non risolvibili con l'interpretazione.
Una volta superato «il punto morto» (ib., p. 54) si
può nuovamente utilizzare il «modello tecnico di base».
Non entriamo nel merito del discorso di Eissler. Ci limitiamo a sottolineare
come da esso emerga l'implicito riconoscimento di una massa di attività
non interpretative nel lavoro degli analisti (di quei tempi) e la preoccupazione
di Eissler di razionalizzare, far rientrare queste attività in quello
che Eissler considera l'ambito analitico, attraverso la correlazione regolamentata
fra parametro e modello tecnico di base.
L'esistenza
e il significato di una tecnica classica appaiono quindi molto problematici.
La descrizione che ne fa Kubie, più che ideale da perseguire, ci
sembra una idealizzazione (o illusione?): la realtà del lavoro analitico
è un'altra.
Dagli Scritti
sulla tecnica nuove conoscenze si sono fatte strada: la teoria strutturale
dello stesso Freud, la psicologia dell'Io di Hartmann, gli studi della
Klein sui primi sviluppi della vita mentale, quelli di Kohut sul narcisismo...
Al lavoro tecnico sugli impulsi dell'Es e sui loro derivati si è
aggiunto quello sulle difese, al transfert il controtransfert, al ricordo
la costruzione, all'intrapsichico l'interpersonale... Tutti questi concetti
ed altri ancora hanno influenzato e influenzano il nostro modo di pensare
e di operare come analisti. Tuttavia, a parte la docilità di cui
parlava Freud e l'ortodossia e il settarismo cui faceva riferimento Greenson,
è chiaro che le modifiche tecniche in psicoanalisi non avvengono
in modo lineare ed indolore.
problemi
clinici come il transfert, il controtransfert, lo storia del loro uso rispetto
alla loro scoperta, l'arco di tensione che ancor oggi è parte integrante
del singolo intervento terapeutico così come della elaborazione
teorica, non sono comprensibili nei soli termini di idee guida in cui il
livello di formalizzazione dei concetti è stato «sporcato»
dagli affetti. La forza propulsiva degli affetti per l'approfondimento
della conoscenza, l'efficacia dell'angoscia che ha condotto all'elaborazione
teorica ed alla comprensione della stessa, le esperienze terapeutiche condotte
nel rischio dell'infezione psichica, sono elementi costitutivi della
fondazione della nostra disciplina.(Galli,
1985, p. 3).
In particolare
ci sembrano ancora attuali ed utili i fattori che Racker (1958, p. 44)
poneva alla base delle divergenze tecniche degli analisti:
1)
La tecnica dipende dalla estensione delle conoscenze psicologiche generali
e specificamente tecniche (Freud, 1910). Questa estensione è diversa
nei diversi periodi della psicoanalisi nel suo insieme ed è diversa
nei singoli analisti.
Note
sul transfert e il controtransfert
Nell'Uomo
dei lupi, Freud, con un'incredibile tenacia («Si tenga presente
che il compito di interpretare questo sogno si protrasse per parecchi anni»,
Freud, 1914, p. 510) ricompone il puzzle della nevrosi infantile fino
alla realistica descrizione della scena primaria:
Dunque
il bambino aveva dormito, nel suo lettino, nella camera dei genitori e
si era svegliato durante il pomeriggio, probabilmente a causa della febbre
che aumentava; e forse proprio alle cinque (...). Concorda con la nostra
ipotesi che si trattasse di un caldo giorno d'estate se supponiamo che
i genitori, semisvestiti, si fossero ritirati in camera per un sonnellino
pomeridiano. Al suo risveglio il bambino assistette a un coitus a tergo
ripetuto tre volte, riuscì a vedere sia l'organo genitale di sua
madre sia il membro del padre (...) (Freud, ib., p. 515).
Nell'Uomo
dei lupi Freud è il terapeuta scienziato che, dall'esterno,
osserva, indaga, collega fatti e situazioni per arrivare a costruire una
storia:
(...)
queste scene infantili non vengono riprodotte nell'analisi sotto forma
di ricordi (...), ma sono il frutto della costruzione analitica (Freud, ib.,
p. 526).
Il transfert
non viene utilizzato da Freud se non come minaccia:
Il
paziente di cui stò per occuparmi si trincerò per parecchio
tempo dietro un atteggiamento di docile indifferenza. Stava a sentire,
capiva, ma restava inattingibile, (...). Il suo orrore di un'esistenza
indipendente era talmente grande da controbilanciare tutte le pene
della malattia. Non c'era che un modo per superarlo. Dovetti attendere
che l'attaccamento alla mia persona fosse diventato abbastanza forte da
equiparare quell'orrore, poi giocai questo fattore contro l'altro. Quando
da indizi inequivocabili mi resi conto che era giunto il momento di farlo,
palesai al paziente la seguente decisione: a una certa data, indipendentemente
dai progressi compiuti, il trattamento avrebbe dovuto concludersi (Freud, ib., pag. 490).
Nell'Uomo dei
topi, invece, Freud utilizza il transfert come strumento terapeutico:
Così
arrivò a convincersi che il suo atteggiamento verso il padre rendeva
necessario quell'apporto supplementare proveniente dall'inconscio soltanto
attraverso la penosa via della traslazione. Ben presto infatti nei sogni,
nelle fantasie diurne e nelle associazioni il paziente cominciò
ad indirizzare a me e ai miei le ingiurie più sudice e volgari
(...) (Freud, 1909, p. 45).
L'Uomo dei
topi e l'Uomo dei lupi esemplificano, a nostro avviso, due modalità
di Freud di intendere l'analisi: nella prima l'analista costruisce un puzzle,
nella seconda l'analista è il manichino sul quale il paziente drappeggia
il transfert, sorta di macchina del tempo, «apporto penoso»,
ma indispensabile perché l'Uomo dei topi si renda conto del proprio
passato. In entrambe le modalità l'analista non c'entra con la storia
del paziente, essa è già scritta: si tratta di decifrarla
o di permettere al paziente di riviverla.
Nella
tradizionale narrazione legata al transfert, si dice come l'analizzando
stia rivivendo o rifacendo esperienza, in modo ripetitivo, del passato
nella relazione attuale con l'analista. Si dice che entro il transfert
ha luogo una regressione alla nevrosi infantile o matrice nevrotica, che
dunque diviene visibile all'analista. Ma è una spiegazione di scarso
valore. In essa la biografia pare qualcosa di statico, un archivio di cose,
lineare, reversibile e letteralmente recuperabile. Dal punto di vista epistemologico
questa storia pone grossi problemi.
Il transfert
pone, ovviamente, innumerevoli problemi tecnici sui quali si discute da
decenni.
Un'altra questione:
il rapporto transfert-controtransfert:
Se
qualcosa di nuovo è avvenuto nella psicoanalisi di questi ultimi
decenni, è da ricercare sul versante del pensiero di coppia. Questo
ci permetterà di liberare la teoria freudiana da un sentore di solipsismo.
Cercheremo di
approfondire meglio il discorso di Green attraverso due autori, Karl Menninger
e Heinrich Racker, che, negli anni 1950, operano rispettivamente negli Stati
Uniti e in Argentina. Menninger afferma:
La
psicoanalisi non è un processo che interessa una sola persona e
che si svolge sotto l'occhio osservatore e con l'aiuto occasionale di una
seconda persona, ma (...) è un rapporto bilaterale di scambio (...).
Non bisogna mai stancarsi di ripetere che in nessuna occasione è
corretto affermare che una certa reazione è della persona «A»
verso la persona «B» (ma che) «A» e «B»
interagiscono reciprocamente (Menninger, 1958, p. 107).
Tuttavia, dopo
queste premesse, nel paragrafo «Scoperta e correzione della controtraslazione»
nei confronti di quest'ultima Menninger assume fondamentalmente la posizione
di Freud: Un'analisi
personale (...) non è mai sufficiente a sradicare tutte le manchevolezze
(...) alcune di queste tendenze rimangono sempre in agguato (...) dobbiamo
supporre che quegli elementi nevrotici persistenti (...) siano già
stati richiamati all'attenzione dell'analista (...) se così non
è, non vi è altra soluzione che un'ulteriore analisi personale
(Menninger, ib., pp. 110-111).
È da notare
peraltro che, in una parte del paragrafo scritta a carattere più
piccolo, Menninger nota di sfuggita che «il controtransfert può
attirare l'attenzione dell'analista su temi e impulsi non verbalizzati
dal paziente» (Menninger, ib., p. 111).;
La
prima distorsione della verità nel mito della situazione analitica è che
l'analisi sia l'interazione tra una persona malata ed una
sana. La verità è che essa è l'interazione tra due
personalità, nell'una e nell'altra delle quali l'Io si trova sotto
la pressione dell'Es, del Super-io e del mondo esterno; ognuna delle due
personalità ha sue proprie dipendenze (...) le sue ansie e le sue
patologiche difese (...) (Racker, 1953, p. 177).
A partire da
queste premesse Racker in una serie di scritti, riuniti in un libro nel
1968, dopo la sua morte, discute ed esemplifica in modo chiaro ed esaustivo l'impiego del controtransfert «come strumento per la comprensione
dei processi mentali del paziente».
l'inconscio
dell'analista capisce quello del paziente. Questo rapporto umano a livello
profondo giunge in superficie in forma di sentimenti che l'analista nota
come la propria reazione al paziente, cioè come il proprio controtransfert
(Heimann, 1950, p. 82).
Freud nel 1912,
aveva già parlato dell'«inconscio del medico capace di ristabilire
(...) questo stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato»
(Freud, 1912 pp. 536-537). Ma per Freud il paziente comunicava tramite
«derivati dell'inconscio» (Freud, ib., p. 536). Come
può avvenire questa comunicazione da inconscio a inconscio? Quali
meccanismi sono messi in gioco in questa trasmissione: meccanismi proiettivi (l'identificazione proiettiva?) o siamo nel campo delle «percezioni
extrasensoriali»?
Abbiamo posto
le due domande seguenti a psicoanalisti di grande esperienza e di varia
nazionalità, membri della Società internazionale di psicoanalisi:
Ciascuno è
stato invitato a scegliere a quale delle due rispondere. È interessante
notare che tutti abbiano preferito la seconda domanda, quella cioè
riguardante la propria esperienza. Pubblichiamo le risposte [vedi i contributi inglesi,
americani, di lingua tedesca, e
italiani],
collocabili tra due poli: Calvesi introduce come modifica della tecnica l'uso
dell'esperienza extrasensoriale, Pollock l'uso del litio.
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