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Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 241-313
(numero speciale del ventesimo anno)

LO STATO DELL' ARTE DELLA TECNICA PSICOANALITICA

a cura di Marianna Bolko e Alberto Merini
(Ringraziamo per la collaborazione i colleghi Paul Parin, Alberta Emiliani e Paolo Migone)
 
Contributi di:
Marianna Bolko & Alberto Merini (Introduzione)

Psicoterapia e Scienze Umane, 1986, XX, 3: 242-253

Difficoltà a discutere di tecnica. Esiste una tecnica classica?

Marianna Bolko* e Alberto Merini** (*Via Garibaldi 3, 40124 Bologna; **Clinica Psichiatrica dell'Università di Bologna)

Scrivere di tecnica è difficile in quanto, chi scrive, inevitabilmente è portato a teorizzare ciò che fa nella propria stanza d'analisi. Se questo è utile per confrontare le idee, non lo è altrettanto per confrontare la pratica.

Le opere classiche sulla tecnica (...), per quanto eccellenti, forniscono solo una falsariga, in quanto non descrivono abbastanza particolareggiatamente cosa fa effettivamente lo psicoanalista quando analizza un paziente cosicché, ad esempio, analizzare una resistenza può significare una cosa per un analista e una cosa sorprendentemente diversa per un altro, anche se ciascuno dei due crede proprio di analizzare una resistenza, secondo i canoni classici della psicoanalisi (Greenson, 1967, p. 5).

D'altra parte sembra difficile discutere di tecnica, non solo fra appartenenti a diverse «scuole» (questo sembra addirittura impossibile) ma

anche all'interno delle singole scuole non è infrequente, quando un collega presenta un caso, sentir commentare: «Questa non la chiamerei analisi». Questo tipo di reazione, fra l'altro, è uno dei maggiori deterrenti che inducono a non presentare i propri casi ai congressi delle società psicoanalitiche (Schafer, 1983, p. 270).

Inoltre;

l'analisi didattica (...) lascia generalmente un notevole residuo di reazioni transferali irrisolte che è alla base della «riluttanza degli psicoanalisti» a rivelare apertamente ad altri il proprio modo di lavorare» (Greenson, ib., p. 7).
Il lavoro dello psicoanalista dipende da molti processi interni intimi per cui, rivelando il proprio modo di analizzare, si ha l'impressione di esporsi nei propri punti vulnerabili (Greenson, ib.).
Il fatto che tanti psicoanalisti siano inibiti nel discutere apertamente il loro modo di operare rende lo psicoanalista particolarmente incline a scivolare nell'una o nell'altra posizione estrema: l'ortodossia o il settarismo (Greenson, ib.)

Kernberg, nell'ultimo simposio della International Psychoanalytic Association (IPA), tenuto a Taunton nel 1984 con la presidenza di Robert S. Wallerstein, su «I cambiamenti intervenuti negli analisti e nella loro formazione», osservava:

Negli istituti psicoanalitici regna troppo spesso un'atmosfera dottrinaria piuttosto che un clima di ricerca scientifica. I candidati in formazione (...) tendono a studiare e citare i propri insegnanti e ad ignorare gli altri approcci psicoanalitici, anche quelli che si situano nell'ambito del pensiero psicoanalitico (...). I candidati sono sistematicamente messi nell'impossibilità di sapere esattamente come i propri insegnanti pratichino la psicoanalisi. Nei seminari clinici i candidati discutono solo dei propri casi e quindi di tecniche di trattamento che, con tutta verosimiglianza, non sono le migliori (...). Se i candidati non possono venire a conoscenza di esempi di interventi tecnici effettuati da psicoanalisti esperti, sono portati ad idealizzare sia la tecnica che i membri più anziani del corpo insegnante (Kernberg, 1984, p. 60). 

Potremmo continuare con le citazioni, ci sembrano peraltro sufficienti da una parte per sottolineare le difficoltà di un discorso sullo stato dell'arte della tecnica psicoanalitica - e quindi sui cambiamenti intervenuti in essa - dall'altra per ringraziare i nostri interlocutori di «aver rivelato il loro modo di lavorare».
Una seconda difficoltà nella quale ci si imbatte riguarda l'esistenza di una tecnica originaria o classica, a partire dalla quale si possano valutare gli eventuali cambiamenti avvenuti in essa.

La tecnica classica per definizione dovrebbe essere quella di Freud così come è stata esposta negli scritti sulla tecnica 1911/12, 1913/14). Ma, come osservava Racker nel 1958, «Freud non era un'analista classico, nel senso che ha correntemente questa espressione» (Racker, 1968, p. 48). Così, è stato osservato (Eissler, 1953; Merini et al., 1985, ecc.) che nell'analisi dell'Uomo dei topi e in quella dell'Uomo dei lupi Freud non usava (o non usava sempre) la tecnica degli Scritti: ricordiamo brevemente come Freud offrisse da mangiare all'Uomo dei topi, gli spedisse cartoline, gli chiedesse insistentemente le fotografie della fidanzata, gli comunicasse di essersi fatta una buona idea di lui, gli facesse molte domande, spiegasse la psicoanalisi... .
Nell'Uomo dei lupi è noto come Freud stabilì la data del termine dell'analisi, promise al paziente la guarigione totale dei problemi intestinali, gli fece gratuitamente la seconda analisi, organizzò una colletta per lui, ecc..
Per quanto riguarda specificamente gli Scritti sulla tecnica, Jones (1953, p. 286 e segg.) riferisce che, dopo il congresso di Salisburgo del 1908, Freud, vedendo ampliarsi il numero di coloro che aspiravano ad esercitare la professione di analista, decise che fosse opportuno pubblicare un'esposizione organica e sistematica della tecnica psicoanalitica: l'opera avrebbe dovuto intitolarsi Allgemeine Technik der Psychoanalyse (Tecnica generale della psicoanalisi).

Per vari motivi il progetto rientrò e videro la luce i sei seguenti saggi:
- L'impiego dell'interpretazione dei sogni nella psicoanalisi;
- Dinamica della traslazione;
- Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico;
- Inizio del trattamento;
- Ricordare, ripetere e rielaborare;
- Osservazioni sull'amore di traslazione.;
Circa i motivi che spinsero Freud a non pubblicare un'opera organica sulla tecnica, nell'avvertenza editoriale delle Opere di Sigmund Freud si ipotizza che questi fossero:

la difficoltà di formulazioni di carattere generale; il fatto che la tecnica dell'analisi aveva subito nel passato molte trasformazioni, e prevedibilmente ne avrebbe subite ancora; la inopportunità che potenziali pazienti leggendo quest'opera si presentassero poi all'analisi muniti di idee preconcette da confrontare col comportamento del proprio medico; il pericolo che medici desiderosi di divenire analisti ritenessero sufficiente a tale scopo la lettura di un massimario di prescrizioni tecniche e non un'autoanalisi. Freud sostiene la indispensabilità dell'autoanalisi nella relazione tenuta al Congresso di Norimberga e, nel terzo dei saggi di tecnica qui presentati, egli ritiene addirittura necessaria un'analisi fatta presso un altro analista. Ma a distoglierlo dal primitivo progetto debbono comunque aver agito su Freud anche fattori emotivi più profondi. 

Un riflesso di questi dubbi e perplessità possono essere le affermazioni alquanto contraddittorie contenute negli Scritti: prescrittive e dogmatiche talune (nessuna ambizione terapeutica o educativa! freddezza da chirurgo! vietato avere rapporti sessuali con le pazienti! ecc.), prudenti e problematiche altre:

... questa tecnica si è rivelata l'unica adatta alla mia individualità e non pretendo di escludere che una personalità medica di tutt'altra natura possa essere spinta a preferire un atteggiamento diverso di fronte al malato e al compito che deve affrontare. (Freud, 1912, p. 532).
... mi sembra opportuno presentare queste regole come consigli e non pretendere che vengano accettati incondizionatamente (...). La straordinaria diversità delle costellazioni psichiche (...) la plasticità di tutti i processi psichici e la quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti sono tutti elementi che si oppongono ad una standardizzazione della tecnica (...) (Freud, 1912, pagg. 333-334). 

Ma è lo stesso Freud che, in una lettera a Ferenczi, racconta delle proprie perplessità e di come fossero fondate.

Le raccomandazioni tecniche che scrissi tanto tempo fa erano d'ordine essenzialmente negativo. Mi pareva che la cosa più importante fosse sottolineare quello che non si deve fare e segnalare le tentazioni di scegliere direttive contrarie all'analisi. Lasciai al tatto tutto ciò che di positivo si dovrebbe fare (...).
È accaduto, per tutto risultato, che gli analisti docili non hanno afferrato la elasticità delle regole che avevo proposto e vi si sono sottomessi come se si trattasse di altrettanti tabù.
Un giorno o l'altro tutto questo andrà riveduto, senza che gli obblighi di cui ho parlato debbano però andare ignorati. (Citato da Jones, p. 297). 

Sembra quindi che non si possa parlare di tecnica classica riferendosi a Freud. Si può però ritenere con quest'ultimo che, quelli che dovevano - ambiguamente, però - essere dei consigli per principianti, delle indicazioni di massima, siano diventate, forse solo per «analisti docili», «le regole», «la tecnica classica».
In questa prospettiva, un esempio significativo di «tecnica classica» può essere quello descritto da Kubie (1959, pp. 56, 57, 58). È curioso notare come non si discosti molto dalla tecnica del primo analista di Cremerius (vedi oltre).

L'analisi come processo - scrive Kubie - designa una situazione abbastanza standardizzata per consentirci di condurre osservazioni raffrontabili su una stessa persona in momenti diversi, ed anche su persone diverse. Questo assetto mantiene una relativa costanza di tutte le variabili esterne, rendendo possibile la ripetizione delle osservazioni un giorno dopo l'altro in un complesso di circostanze relativamente immutato. Esso riduce al minimo, anche se non può eliminarli, i cambiamenti introdotti dall'atteggiamento, mutevole dell'osservatore, cioè l'analista, e anche le deformazioni introdotte dai processi inconsci dell'analista stesso, trasformandolo nella misura del possibile in un registratore passivo e inerte delle proprie percezioni preconsce della produzione del paziente.
Da queste egli trae i propri campioni coscienti, ricavandone delle sintesi coscienti, che ogni tanto comunica al paziente sotto forma di interpretazioni, come l'analista chiama le proprie ipotesi di lavoro. Rimanendo il più indefinito possibile, nascondendo le proprie reazioni emotive, i propri gusti estetici, le proprie idee religiose e politiche, i particolari della propria vita personale, i propri sentimenti verso il paziente e le sue comunicazioni, l'analista tenta di rimanere uno spazio vuoto, a proposito del quale il paziente può immaginare tutto ciò che vuole, e sentire tutto ciò che deve. Fino a che l'analista non è per il paziente una persona reale, tutto ciò che quest'ultimo pensa, immagina a proposito dell'analista non è ancorato alla realtà: al contrario, le fantasie e i sentimenti del paziente sono prodotti del suo potenziale psicologico creativo e immaginativo. L'analista sconosciuto rimane un campione di umanità pescato a caso, e su tale immagine dell'analista il paziente può drappeggiare le proprie fantasie come potrebbe fare con un manichino in vetrina. Lo studio di questo processo dà al paziente una visione dei sottili modi con cui processi analoghi deformano tutti i suoi rapporti umani quotidiani.
Gradualmente diventa chiaro al paziente che nessuno di questi rapporti è una realtà genuina, ma sono tutti un miscuglio di realtà e di proiezioni dei propri bisogni, conflitti e fantasie inconsci. 

È da sottolineare che questa immagine così ascetica della tecnica non corrispondeva, per quel che ne sappiamo, alla pratica degli analisti. Due soli esempi: l'inchiesta di Glover del 1938 e l'articolo di Eissler del 1953.
Glover, nella sua giustamente famosa indagine su cosa facessero realmente gli analisti inglesi, aveva messo in chiara evidenza come il lavoro di questi ultimi fosse ben lontano dall'immagine che ne fornisce Kubie. Questi analisti reali usavano tecniche di gioco, prestavano libri, davano consigli e spiegazioni..., ognuno faceva a modo suo, senz'altro più vicino al Freud dell'Uomo dei topi che a quello degli Scritti sulla tecnica.

Nell'articolo Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica, Eissler introduce il concetto di «modello tecnico di base» rappresentato dalla «tecnica che si avvale dell'interpretazione come strumento tecnico esclusivo» (Eissler, 1981, p. 54). Partendo dalla definizione freudiana di Io normale come «Io che può garantire lealtà costante al patto analitico» precisa che tale Io - e solo tale Io - possiede «la capacità di rispondenza a comunicazioni verbali razionali che non contengono altro che interpretazioni» (ib., p. 63), solo tale Io può pertanto reagire correttamente al modello tecnico di base. Ma poiché un Io siffatto è solo una costruzione teorica, «mai incontrato nella pratica clinica» (ib., p. 62) risulta evidente che il «modello tecnico di base» non è mai utilizzabile o mai utilizzabile da solo. L'analista infatti fa altre cose (anche altre cose): dà consigli, ordini, rassicurazioni, introduce cioè degli strumenti terapeutici diversi dall'interpretazione, che Eissler chiama «parametro di una tecnica» (ib., p. 54).

Il parametro serve ad uscire da quelle situazioni di impasse non risolvibili con l'interpretazione. Una volta superato «il punto morto» (ib., p. 54) si può nuovamente utilizzare il «modello tecnico di base». Non entriamo nel merito del discorso di Eissler. Ci limitiamo a sottolineare come da esso emerga l'implicito riconoscimento di una massa di attività non interpretative nel lavoro degli analisti (di quei tempi) e la preoccupazione di Eissler di razionalizzare, far rientrare queste attività in quello che Eissler considera l'ambito analitico, attraverso la correlazione regolamentata fra parametro e modello tecnico di base.

L'esistenza e il significato di una tecnica classica appaiono quindi molto problematici. La descrizione che ne fa Kubie, più che ideale da perseguire, ci sembra una idealizzazione (o illusione?): la realtà del lavoro analitico è un'altra.
È lecito pensare che, accanto a «docili analisti», ve ne siano stati altri che «hanno afferrato l'elasticità delle regole» e hanno lavorato con «tatto», tenendo conto della «straordinaria diversità delle costellazioni psichiche». Sicuramente l'esperienza della nostra analisi personale, come pure il nostro attuale lavoro analitico non sono riferibili all'immagine che ne fornisce Kubie. Possiamo ipotizzare almeno due caratteristiche dell'analista non docile: la prima, di aver avuto nella propria analisi una «base sicura dalla quale esplorare» (cfr. Bowlby) e la seconda di aver potuto elaborare positivamente il distacco dal proprio analista (cfr. Cremerius). È interessante ricordare che Abraham, considerato ai suoi tempi un campione di ortodossia, abbia avuto come pazienti Karen Horney e Melanie Klein che non si possono considerare certo analisti docili.

Dagli Scritti sulla tecnica nuove conoscenze si sono fatte strada: la teoria strutturale dello stesso Freud, la psicologia dell'Io di Hartmann, gli studi della Klein sui primi sviluppi della vita mentale, quelli di Kohut sul narcisismo... Al lavoro tecnico sugli impulsi dell'Es e sui loro derivati si è aggiunto quello sulle difese, al transfert il controtransfert, al ricordo la costruzione, all'intrapsichico l'interpersonale... Tutti questi concetti ed altri ancora hanno influenzato e influenzano il nostro modo di pensare e di operare come analisti. Tuttavia, a parte la docilità di cui parlava Freud e l'ortodossia e il settarismo cui faceva riferimento Greenson, è chiaro che le modifiche tecniche in psicoanalisi non avvengono in modo lineare ed indolore.
Da un punto di vista generale possiamo ritenere con Galli che

problemi clinici come il transfert, il controtransfert, lo storia del loro uso rispetto alla loro scoperta, l'arco di tensione che ancor oggi è parte integrante del singolo intervento terapeutico così come della elaborazione teorica, non sono comprensibili nei soli termini di idee guida in cui il livello di formalizzazione dei concetti è stato «sporcato» dagli affetti. La forza propulsiva degli affetti per l'approfondimento della conoscenza, l'efficacia dell'angoscia che ha condotto all'elaborazione teorica ed alla comprensione della stessa, le esperienze terapeutiche condotte nel rischio dell'infezione psichica, sono elementi costitutivi della fondazione della nostra disciplina.(Galli, 1985, p. 3). 

In particolare ci sembrano ancora attuali ed utili i fattori che Racker (1958, p. 44) poneva alla base delle divergenze tecniche degli analisti:

1) La tecnica dipende dalla estensione delle conoscenze psicologiche generali e specificamente tecniche (Freud, 1910). Questa estensione è diversa nei diversi periodi della psicoanalisi nel suo insieme ed è diversa nei singoli analisti.
2) Le nuove scoperte ed idee vengono accettate da alcuni analisti e respinte da altri e poiché molti fatti vengono valutati con criteri diversi si giunge a differenti concetti, a differenti «principi secondari», che producono una applicazione differente dei principi di base, che sono invece condivisi da tutti si giunge così in ultima analisi a delle differenze tecniche.
3) Un fattore individuale (o personale): la tecnica dipende ovviamente dalle diversità di carattere, di capacità di comprensione, e di controtransfert dei singoli analisti. È anche evidente come ogni paziente «crea» un diverso analista (come ogni figlio differenti genitori), attraverso la richiesta di grandi o piccole variazioni tecniche.
4) Un fattore genealogico, che è rappresentato dall'influenza dei padri, nonni e bisnonni analisti sulla tecnica dei loro figli, nipoti e bisnipoti (Balint, 1948).

Note sul transfert e il controtransfert

Nell'Uomo dei lupi, Freud, con un'incredibile tenacia («Si tenga presente che il compito di interpretare questo sogno si protrasse per parecchi anni», Freud, 1914, p. 510) ricompone il puzzle della nevrosi infantile fino alla realistica descrizione della scena primaria:

Dunque il bambino aveva dormito, nel suo lettino, nella camera dei genitori e si era svegliato durante il pomeriggio, probabilmente a causa della febbre che aumentava; e forse proprio alle cinque (...). Concorda con la nostra ipotesi che si trattasse di un caldo giorno d'estate se supponiamo che i genitori, semisvestiti, si fossero ritirati in camera per un sonnellino pomeridiano. Al suo risveglio il bambino assistette a un coitus a tergo ripetuto tre volte, riuscì a vedere sia l'organo genitale di sua madre sia il membro del padre (...) (Freud, ib., p. 515).

Nell'Uomo dei lupi Freud è il terapeuta scienziato che, dall'esterno, osserva, indaga, collega fatti e situazioni per arrivare a costruire una storia:

(...) queste scene infantili non vengono riprodotte nell'analisi sotto forma di ricordi (...), ma sono il frutto della costruzione analitica (Freud, ib., p. 526). 

Il transfert non viene utilizzato da Freud se non come minaccia:

Il paziente di cui stò per occuparmi si trincerò per parecchio tempo dietro un atteggiamento di docile indifferenza. Stava a sentire, capiva, ma restava inattingibile, (...). Il suo orrore di un'esistenza indipendente era talmente grande da controbilanciare tutte le pene della malattia. Non c'era che un modo per superarlo. Dovetti attendere che l'attaccamento alla mia persona fosse diventato abbastanza forte da equiparare quell'orrore, poi giocai questo fattore contro l'altro. Quando da indizi inequivocabili mi resi conto che era giunto il momento di farlo, palesai al paziente la seguente decisione: a una certa data, indipendentemente dai progressi compiuti, il trattamento avrebbe dovuto concludersi (Freud, ib., pag. 490). 

Nell'Uomo dei topi, invece, Freud utilizza il transfert come strumento terapeutico:

Così arrivò a convincersi che il suo atteggiamento verso il padre rendeva necessario quell'apporto supplementare proveniente dall'inconscio soltanto attraverso la penosa via della traslazione. Ben presto infatti nei sogni, nelle fantasie diurne e nelle associazioni il paziente cominciò ad indirizzare a me e ai miei le ingiurie più sudice e volgari (...) (Freud, 1909, p. 45). 

L'Uomo dei topi e l'Uomo dei lupi esemplificano, a nostro avviso, due modalità di Freud di intendere l'analisi: nella prima l'analista costruisce un puzzle, nella seconda l'analista è il manichino sul quale il paziente drappeggia il transfert, sorta di macchina del tempo, «apporto penoso», ma indispensabile perché l'Uomo dei topi si renda conto del proprio passato. In entrambe le modalità l'analista non c'entra con la storia del paziente, essa è già scritta: si tratta di decifrarla o di permettere al paziente di riviverla.
L'arte dello psicoanalista ricorda l'educazione di Socrate come «arte della levatrice»: l'uomo porta in sé la verità e occorre solo qualcuno - il filosofo-levatrice - capace di estrarla dalla sua anima. Da Freud in poi il transfert è stato al centro dell'interesse della psicoanalisi. Si è a lungo discusso se il transfert fosse un fenomeno specifico della relazione analitica o meno, se dovesse o no comprendere tutti gli aspetti della relazione fra l'analista e il paziente l'approccio ai casi gravi ha portato ad individuare forme particolari di transfert ..., ma fondamentalmente non ci si è discostati dalla concezione del transfert come riedizione del passato. Da qualche tempo tuttavia si comincia a pensare al transfert non solo come ripetizione. d esempio, Schafer:

Nella tradizionale narrazione legata al transfert, si dice come l'analizzando stia rivivendo o rifacendo esperienza, in modo ripetitivo, del passato nella relazione attuale con l'analista. Si dice che entro il transfert ha luogo una regressione alla nevrosi infantile o matrice nevrotica, che dunque diviene visibile all'analista. Ma è una spiegazione di scarso valore. In essa la biografia pare qualcosa di statico, un archivio di cose, lineare, reversibile e letteralmente recuperabile. Dal punto di vista epistemologico questa storia pone grossi problemi.
Una versione a mio avviso migliore è quella che parla di cambiamento dell'azione lungo certe direttrici, che sottolinea il nuovo vissuto e il nuovo ricordo del passato che, inconsciamente, non è mai diventato passato. In misura via via crescente, il supposto passato deve essere esperito consciamente come interpenetrazione reciproca di passato e presente, visti entrambi in termini organizzati e coordinati psicologicamente. Se analisi significa muoversi in una certa direzione, è un muoversi verso nuovi modi di costruzione dell'esperienza. Dunque è necessario rinarrare la storia della regressione alla nevrosi infantile nel transfert; infatti, anche se buona parte della cosa può essere definita in termini della versione presente del passato, la cosiddetta regressione è necessariamente una progressione. Il transfert ben lungi dall'essere una macchina del tempo con cui si può viaggiare a ritroso per vedere da cosa si è venuti fuori, è una chiarificazione di certe costituenti delle proprie attuali azioni psicoanalitiche. Chiarificazione che viene ottenuta mediante lo studio circolare e coordinato del passato e del presente (Schafer, 1983, p. 212). 

Il transfert pone, ovviamente, innumerevoli problemi tecnici sui quali si discute da decenni.
Ne accenneremo alcuni.
E' utile ritenere che, all'interno della relazione paziente-analista, esista quella componente non transferale nota come «accordo terapeutico»?
Le interpretazioni efficaci in termini di insight sono solo le interpretazioni di transfert date nell'hic et nunc (l'interpretazione «mutativa» di Strachey, ad esempio) o anche le cosiddette interpretazioni extratransferali hanno uguale importanza?
È utile ritenere che tutto ciò che il paziente porta in seduta sia riferito al rapporto analitico in termini di transfert ed interpretare di conseguenza oppure «Il transfert non deve essere ignorato né considerato in maniera esclusiva, né lasciato fuori dal lavoro analitico, né trascinato dentro per i capelli»? (Brenner, 1976, p. 108).;

Un'altra questione: il rapporto transfert-controtransfert:

Se qualcosa di nuovo è avvenuto nella psicoanalisi di questi ultimi decenni, è da ricercare sul versante del pensiero di coppia. Questo ci permetterà di liberare la teoria freudiana da un sentore di solipsismo.
(...) il controtransfert non si limiterebbe più alla ricerca dei conflitti non risolti - o non analizzati - dell'analista, suscettibile di falsarne l'ascolto diventa il corrispettivo del transfert che cammina al suo fianco, a volte inducendolo, e per taluni precedendolo (Green, 1983, p. 40). 

Cercheremo di approfondire meglio il discorso di Green attraverso due autori, Karl Menninger e Heinrich Racker, che, negli anni 1950, operano rispettivamente negli Stati Uniti e in Argentina. Menninger afferma:

La psicoanalisi non è un processo che interessa una sola persona e che si svolge sotto l'occhio osservatore e con l'aiuto occasionale di una seconda persona, ma (...) è un rapporto bilaterale di scambio (...). Non bisogna mai stancarsi di ripetere che in nessuna occasione è corretto affermare che una certa reazione è della persona «A» verso la persona «B» (ma che) «A» e «B» interagiscono reciprocamente (Menninger, 1958, p. 107). 

Tuttavia, dopo queste premesse, nel paragrafo «Scoperta e correzione della controtraslazione» nei confronti di quest'ultima Menninger assume fondamentalmente la posizione di Freud:

Un'analisi personale (...) non è mai sufficiente a sradicare tutte le manchevolezze (...) alcune di queste tendenze rimangono sempre in agguato (...) dobbiamo supporre che quegli elementi nevrotici persistenti (...) siano già stati richiamati all'attenzione dell'analista (...) se così non è, non vi è altra soluzione che un'ulteriore analisi personale (Menninger, ib., pp. 110-111). 

È da notare peraltro che, in una parte del paragrafo scritta a carattere più piccolo, Menninger nota di sfuggita che «il controtransfert può attirare l'attenzione dell'analista su temi e impulsi non verbalizzati dal paziente» (Menninger, ib., p. 111).;
Racker va oltre il discorso della psicoanalisi come interazione fra due partner precisando:

La prima distorsione della verità nel mito della situazione analitica è che l'analisi sia l'interazione tra una persona malata ed una sana. La verità è che essa è l'interazione tra due personalità, nell'una e nell'altra delle quali l'Io si trova sotto la pressione dell'Es, del Super-io e del mondo esterno; ognuna delle due personalità ha sue proprie dipendenze (...) le sue ansie e le sue patologiche difese (...) (Racker, 1953, p. 177). 

A partire da queste premesse Racker in una serie di scritti, riuniti in un libro nel 1968, dopo la sua morte, discute ed esemplifica in modo chiaro ed esaustivo l'impiego del controtransfert «come strumento per la comprensione dei processi mentali del paziente».
Due autori quindi che pur basandosi sulle medesime premesse - la psicoanalisi è un'interazione fra partner - arrivano a conclusioni opposte. Per Menninger sembra valere la lezione freudiana: anche se la psicoanalisi è un'interazione fra partner, sarebbe meglio che non lo fosse; Racker parte dall'articolo della Heimann (1950) e ne prosegue il discorso: la psicoanalisi; è un'interazione fra due partner nevrotici, questo permette all'analista di utilizzare per il lavoro analitico le proprie reazioni controtransferali. Anche se questi due autori esemplificano il dibattito sul problema del controtransfert non ci sembra che esauriscano il discorso di Green. Racker infatti utilizza il controtransfert - e su questo crediamo vi sia accordo generale - come strumento di conoscenza dei processi mentali del paziente, laddove Green avanza anche l'ipotesi che proprio l'interazione fra i due partner (il paziente e l'analista) comporti delle novità è un altro interrogativo che ci rimanda alla comunicazione inconscia. Nel suo articolo del 1950, Paula Heimann, afferma testualmente che

l'inconscio dell'analista capisce quello del paziente. Questo rapporto umano a livello profondo giunge in superficie in forma di sentimenti che l'analista nota come la propria reazione al paziente, cioè come il proprio controtransfert (Heimann, 1950, p. 82). 

Freud nel 1912, aveva già parlato dell'«inconscio del medico capace di ristabilire (...) questo stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato» (Freud, 1912 pp. 536-537). Ma per Freud il paziente comunicava tramite «derivati dell'inconscio» (Freud, ib., p. 536). Come può avvenire questa comunicazione da inconscio a inconscio? Quali meccanismi sono messi in gioco in questa trasmissione: meccanismi proiettivi (l'identificazione proiettiva?) o siamo nel campo delle «percezioni extrasensoriali»?
E se esiste la comunicazione da inconscio a inconscio perché deve procedere solo dal paziente all'analista e non anche viceversa? E questo cosa comporta? In questo contesto quale diventa lo statuto dell'interpretazione verbale?

Abbiamo posto le due domande seguenti a psicoanalisti di grande esperienza e di varia nazionalità, membri della Società internazionale di psicoanalisi:
1) Quali sono le modifiche tecniche attualmente più significative e di quali conoscenze e/o teorie sono espressione?
2) Rispetto al suo inizio della pratica psicoanalitica ha introdotto modifiche nella sua tecnica e per quali motivi?

Ciascuno è stato invitato a scegliere a quale delle due rispondere. È interessante notare che tutti abbiano preferito la seconda domanda, quella cioè riguardante la propria esperienza. Pubblichiamo le risposte [vedi i contributi inglesi, americani, di lingua tedesca, e italiani], collocabili tra due poli: Calvesi introduce come modifica della tecnica l'uso dell'esperienza extrasensoriale, Pollock l'uso del litio.

Bibliografia

Brenner C. (1976). Tecnica psicoanalitica e conflitto psichico, Firenze: Martinelli, 1978.

Eissler R.R. (1953), Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica, Psicoterapia e scienze umane, 1981, XV, 2: 50-79; anche in Genovese C., a cura di, Setting e processo psicoanalitico. Milano: Cortina, 1988, pp. 3-35).

Freud S. (1909), Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (caso clinico dell'Uomo dei topi), Osf, vol. 6, Torino: Boringhieri, 1974.

Freud S. (1911-12), Tecnica della psicoanalisi, Osf, vol. 6, Torino: Boringhieri, 1974.

Freud S. (1913-14), Nuovi consigli sulla tecnica in psicoanalisi, Osf, vol. 7, Torino: Boringhieri, 1975.

Galli P.F., Conversazione su «La tecnica psicoanalitica e il problema della psicoterapia», Il ruolo terapeutico, 40, agosto 1985, 3-8.

Glover E. (1954), La tecnica della psicoanalisi, Roma: Astrolabio, 1971.

Green A. (1983), Il narcisismo e la psicoanalisi, ieri ed oggi, Quaderni di psicoterapia infantile, 9, Narcisismo, Roma: Borla.

Greenson R.R. (1967), Tecnica e pratica psicoanalitica, Milano: Feltrinelli, 1974.

Racker H. (1968), Studi sulla tecnica psicoanalitica, Roma: Armando, 1970.

Schafer R. (1983), L'atteggiamento analitico. Milano: Feltrinelli, 1984.

Heimann P. (1950). On counter-transference, Int. J. Psycho-Anal., 31, 81-84.

Jones E. (1953), Vita e opere di Freud, Milano, Garzanti, 1977.

Kernberg O.F. (1984), Les changements intervenus dans la nature de la formation psychanalytique, sa structure et ses normes, in Wallerstein R.S., Les changements intervenus chez les analystes et dans leur formation, A.P.I., Série de Monographies, n. 4.

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Menninger K. (1958), Teoria della tecnica psicoanalitica. Torino: Boringhieri, 1973.

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