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La malattia mentale tra scienza e politica.
Intervista a Giovanni Berlinguer.
a cura di Albertina Seta.

  • INTRODUZIONE
  • La 180 , il '68 e il Pci
  • Iter istituzionale e principii della legge. Il referendum radicale, la legge Mariotti .
  • La discussione sulla malattia mentale tra compromessi e occasioni mancate
  • La 180 e l'attività dei partiti di sinistra e del sindacato
  • Problemi vecchi e nuovi nell'applicazione della legge

  • Problemi vecchi e nuovi nell'applicazione della legge

    D: Cosa è successo nella pratica dei servizi all'indomani dell'applicazione della legge? quando si sono cominciati a vedere i limiti di quella legislazione?
    R: Più che ai limiti della legislazione, penso ai limiti applicativi, perché il fatto più rilevante dopo il 1978 fu il cambiamento del clima politico e culturale. Mentre fino a quell'anno c'era stata una situazione di affermazione di diritti, tolleranza, espansione delle attività sociali, a partire dal 1979-80, ci fu un cambiamento sostanziale sul piano mondiale. Una svolta che si può datare con la vittoria della Thatcher in Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti, ma che ha radici profonde nelle distorsioni dello stato sociale e nel sistema delle relazioni internazionali. Non voglio attribuire a questo la mancata applicazione della legge, ma sicuramente ha influito molto. E ha influito negativamente anche un'altra distorsione dei gruppi psichiatrici innovatori: la tesi che il compito della psichiatria fosse quello di reinviare alla società le proprie contraddizioni. Formulata in questi termini: "Le malattie mentali sono un risultato delle contraddizioni della società, dobbiamo evitare che la società riesca a segregarle nei manicomi". Il che contiene un nocciolo di verità, ma non tutte le malattie mentali sono un prodotto sociale, ci sono un'infinità di cause; in secondo luogo, se si reinviano alla società senza aiutare la società a risolverli, si determinano dei forti disagi, come poi è avvenuto. Il primo inconveniente è che i malati vengono abbandonat a se stessi, o rimandati alle famiglie. A partire dagli anni Ottanta, si assiste a una ribellione delle famiglie, che cominciano a fondare associazioni per denunciare disagi crescenti. Posizioni che arrivano a negare la validità della legge, ma che hanno motivazioni profonde. A questo si associò l'inerzia delle amministrazioni pubbliche, che non approntavano i servizi paralizzando l'attività, non capendo che questo era un terreno importante di lavoro. Si determinarono delle forti differenze locali, ossia si passò dalla situazione relativamente omogenea dell'epoca manicomiale, a uno stato di cose che presentava punte avanzatissime accanto a siuazioni molto arretrate.
    D: Di solito l'insuccesso, diciamo così, della legge viene attribuito alla cecità delle amministrazioni. Ma credo che il punto che debba interessare noi psichiatri, e probabilmente la medicina in generale, è come si sia potuto pensare che una malattia (o delle malattie) con le caratteristiche che sappiamo, venisse rimandata nelle case, alle famiglie.
    R: Una linea irresponsabile, tipica ideologia. Il punto fu che questa linea di gestione territoriale, di integrazione sociale, che è una linea di straordinaria umanità e apertura al diverso, a tutti i diversi - e il malato mentale è forse uno dei più diversi - richiede una maturazione culturale profondissima. Adesso sembra esserci una situazione nuova, caratterizzata da un ricambio generazionale e da un maggiore impegno delle amministrazioni. Però io vedo due buchi neri in questa situazione: uno è l'accademia, ovverossia la formazione degli psichiatri italiani, l'altro è il proliferare di case di cura private, che sono come i manicomi: un esempio è Napoli, dove c'è un vero e proprio manicomio privato e lì nessuno può mettere il naso. Bisogna aprire gli occhi su queste situazioni.
    D: Riprendendo tutto l'arco della nostra intervista, si può dire che partendo dall'autocritica e dalla messa in discussione della propria identità intellettuale, una parte della psichiatria si è trovata a fare un percorso per così dire suicidario, arrivando a minare, se non a distruggere, la propria identità.
    R: Si, all'identità dello psichiatra si è sostituita quella dell'operatore sociale, più o meno combattente politico.


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