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I
vent'anni della legge 180.
di
Franca Ongaro Basaglia.
Nello
scorso mese di maggio si è celebrato il ventennale della legge "180".
Non si è trattato di una celebrazione formale ma dell'occasione
per un ulteriore impegno di tutti nell'attuazione di ciò che, in
questi vent'anni, doveva essere fatto e in troppi luoghi non è stato
fatto.
Pur riconoscendo
- anche nei suoi limiti di legge quadro - l'importanza della "legge180"
quale punto forte nella conferma della necessità e della possibilità
di una psichiatria senza manicomio, siamo consapevoli delle difficoltà
vissute in questi anni da malati e famigliari, a causa della totale assenza
di governo della riforma. E' stato infatti approvato solo nel 1994 il progetto
per la tutela della salute mentale che prevede gli strumenti necessari
alla realizzazione della riforma, controlli sulla creazione dei servizi
e sul reale superamento dei manicomi.
Non si è
trattato, dunque, di celebrare il ventennale di una riforma in parte abortita,
quanto di riconoscere che dopo quasi trent'anni hanno vinto le esperienze
pratiche che, da Trieste in poi, hanno continuato nel tempo a dimostrare
la possibilità concreta di rispondere alla sofferenza mentale senza
ricorrere all'internamento, alla violenza implicita nella sua logica e
senza abbandono dei malati. La testimonianza di tali esperienze sempre
più numerose ha impedito che la "180" fosse cancellata, favorendo
anche l'orientamento della maggior parte delle Associazioni dei famigliari
dei malati, verso la richiesta di servizi adeguati ai problemi, anziché
prolungare le astratte discussioni - che si protraevano da più di
quindici anni - sulla modifica della legge. In tal senso possiamo dire
di celebrare una data molto importante perché si è resa esplicita
ed ufficialmente riconosciuta la validità di queste realtà,
confermandone uno dei punti di forza: il primato della pratica.
E' questo infatti
il nodo problematico dal quale poter leggere il perché della sopravvivenza
della lotta al manicomio, anche in tempi in cui si sono chiusi sempre più
gli spazi di espressione sia del soggetto individuale che di quello collettivo.
Primato di una pratica intesa non solo come mero fare, ma come produttrice
di altre realtà e di altra cultura, quando ci si trovi ad agire
contemporaneamente sulla struttura materiale dell'istituzione, sul pregiudizio
sociale rispetto al malato mentale, sul pregiudizio scientifico rispetto
alla malattia. Non si è dunque trattato di un semplice cambio di
teoria interpretativa, rimpiazzabile con una nuova ideologia di ricambio
che facilmente lascia inalterata la situazione di base, ma della demolizione
pratica di una cultura, possibile solo se contemporaneamente costruisci
altro: altro sostegno, altro supporto, altro concetto di salute e di malattia,
di normalità e di follia. Possibile, cioè, se insieme allo
smantellamento dei vecchi ospedali, non ci si è limitati ad organizzare
semplici servizi ambulatoriali, ma si è creata, per i vecchi e i
nuovi malati, la possibilità di vivere e condividere in modo diverso
la propria sofferenza, vista come il prodotto di un insieme di fattori
e non solo come segno di pericolosità sociale da reprimere. A questa
sofferenza, che risulta più complessa e insieme più semplice,
occorre cioè rispondere con strutture e servizi che, oltre a garantire
cura e assistenza, siano insieme luoghi di vita, di stimolo, di confronto,
di opportunità, di rapporti interpersonali e collettivi diversi,
puntando ad un cambio di cultura e di politica prima sociali che sanitarie.
Si tratta,
tuttavia, di una conquista culturale e sociale che, come ben sappiamo,
non si impone per legge. La cultura della popolazione, degli utenti reali
e potenziali dei servizi, così come delle loro famiglie, può
mutare solo se la qualità delle risposte è capace di produrre,
insieme, cura assistenza qualità di rapporti e progetti di vita
tali da modificare anche la qualità delle domande individuali e
sociali. Tali, quindi, da promuovere una diversa normalità.
Potremmo incominciare
a dire che ciò che è avvenuto nelle prime esperienze fin
dall'inizio degli anni '60, a Gorizia e successivamente a Trieste, e che
sarà poi fondamento della "legge 180", è stato essenzialmente
lo spostamento della responsabilità professionale e istituzionale
dalla tutela della società dalla presunta o reale pericolosità
della malattia, alla tutela del malato nella società. Questo spostamento
richiedeva e richiede tuttora un dovere professionale qualitativamente
e quantitativamente diverso nei confronti della persona sofferente, un
diverso ruolo di responsabilità che si sostituisce al ruolo di potere,
di forza, di dominio, di manipolazione tradizionalmente implicito nell'esercizio
delle discipline deputate a tali problemi.
Non sempre questa
assunzione di responsabilità si è verificata. Ma dove c'è
stata la presa in carico complessiva della persona sofferente, c'è
stato il mutamento culturale che ha prodotto altra realtà, altro
tipo di cura, di sostegno, di assistenza. Quindi un altro tipo di tutela
che non si appropria più dei corpi ma che ne stimola l'autonomia
e la responsabilizzazione.
Parlo, dunque,
di servizi aperti 24 ore su 24, tutti i giorni della settimana, diversificati
sulla base dei bisogni; servizi che non abbiano un carattere strettamente
ospedaliero dato che, superato il momento della crisi, raramente un disturbato
psichico ha bisogno di un letto d'ospedale, visto che l'organizzazione
ospedaliera agisce sempre in funzione della malattia e non di progetti
di vita.
Il punto
di partenza è stato comunque duplice: da un lato l'indignazione
provocata dalle condizioni disumane in cui erano trattati gli internati
nei manicomi (accettare quella situazione significava esserne complici);
dall'altro la necessità, se si voleva incominciare a capire i bisogni
reali delle persone, di accettare il conflitto che ogni soggetto produce,
senza difendersi dietro schemi interpretativi diventati ormai dogmi.
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