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I
vent'anni della legge 180.
di
Franca Ongaro Basaglia.
Si
è trattato e si tratta di un processo di liberazione contemporaneo
per il malato e per l'operatore.
Il primo
nell'uscire dalla prigionia della irrecuperabilità della malattia
data per scontata, dalla violenza dell'istituzione, nella conquista di
diritti perduti o mai avuti; il secondo, nell'uscire dalla prigione del
pregiudizio scientifico, riconoscendo la necessità di una ricomposizione
di tutti gli elementi (biologici, psicologici e sociali) presenti non tanto
nella malattia di cui l'operatore continua a riconoscere solo i sintomi,
quanto nel malato, cioè nella persona che si pretende di curare.
Ricomposizione, dunque, di bisogni negati anche dalla parcellizzazione
delle discipline. Accettando il rischio della libertà del malato
e assumendosene la responsabilità attraverso il sostegno del gruppo,
diventa allora possibile reggere la sofferenza, accettarne ogni espressione,
per spostare il conflitto ad un livello diverso. Conflitto di potere e
di interesse fra l'istituzione e l'assistito, fra il medico e il paziente,
ma anche fra il paziente e la famiglia, fra l'adulto e il giovane, il docente
e lo scolaro, l'uomo e la donna, l'individuo e la società. Se il
conflitto scompare o è appiattito è sempre il più
debole a soccombere.
Il processo necessario
a questa trasformazione culturale non è dunque semplice e richiede
una formazione degli operatori che tenga conto di tutti gli elementi emersi
nelle pratiche di questi anni. Una formazione capace di misurarsi e confrontarsi
con questa complessità, riconoscendo che se il manicomio ha risposto
ad un'esigenza della società nell'espellere gli elementi di disturbo
(i più deboli, i più svantaggiati, i più poveri perché
solo questi erano internati), la psichiatria l'ha avallata e confermata
scientificamente. E' dunque con questo fallimento che deve misurare i propri
paradigmi, mentre nella formazione degli psichiatri e degli psicologi -
salvo rarissime eccezioni - non c'è finora traccia di quanto è
avvenuto nel settore in questi trent'anni ed il silenzio si fa sempre più
paradossale.
Da parte
nostra, intendo da parte di chi ha creduto e operato secondo questa linea,
si può dire che a vent'anni di distanza dalla riforma, la cultura
va mutando soprattutto nelle esperienze che sono passate attraverso il
superamento del manicomio: il che significa dove si è vissuta la
passione civile, etica e politica del cambiamento e la convinzione
forte della disumanità e inutilità dell'internamento, di
fronte alla trasformazione di persone in precedenza annientate da una logica
di controllo sostenuta solo dalla forza e dalla sopraffazione. Restano,
certo, sofferenza, disagi, inadeguatezze (non è stata mai negata
questa sofferenza), ma con un aspetto umano che ponendo altre domande,
richiede altre risposte e ricevendo altre risposte pone altre domande.
Chi non conosce
direttamente il potere di trasformazione della liberazione che vale tanto
per il malato quanto per l'operatore, penso difficilmente possa rompere
la logica in cui è stato formato e la funzione che per tradizione
gli compete. Per questo è utile continuare a parlare di manicomio,
non solo perché di fatto ancora esiste, ma anche perché non
ci sono sufficienti strumenti culturali e sociali per non ricostruirlo.
L'operazione di smantellamento di mura reali e metaforiche, di grate e
di rigide codificazioni ha infatti richiesto il rispetto dei diritti della
persona, sana o malata, e un confronto della propria disciplina con questi
diritti: il che a sua volta esige la capacità di reggere il conflitto
che questo confronto produce, senza cancellarlo. Nell'accettazione dell'altro
e nel conflitto che ne deriva c'è sempre il rischio di una perdita
di se quando il ruolo non ti difende, non ti ripara. Ma è questa
uscita dal ruolo pur giocandolo che consente di passare ad un livello più
alto, più comprensibile, più condivisibile per entrambi i
poli dell'incontro: che consente dunque di passare da una domanda all'apertura
di un'altra domanda qualitativamente diversa.
Per queste
ragioni, ora che il superamento del manicomio è dato per accettato
anche se non concretamente ovunque attuato, in un momento in cui disoccupazione,
impoverimento materiale e culturale di fasce sempre più vaste di
popolazione possono alimentare nuove forme di disagio e di sofferenza,
quindi di esclusione ed emarginazione, si fa più acuta la necessità
di riprendere alcuni elementi problematici delle prime esperienze, di riprendere
a domandarci se il rapporto fra discipline individuali e collettivi non
richieda una messa in discussione più profonda di queste discipline,
in nome della necessità di una formazione degli operatori più
adeguata ad una realtà che ormai corre su altri binari.
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