Una psichiatria separata, divisa e manesca
ovvero la nuova proposta Burani-Naro (febbraio 2004)
di Luigi Benevelli
Il testo, ormai il quarto in ordine di tempo, presentato agli inizi di questo febbraio al Comitato ristretto della XII° commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, è risultato di unoperazione di innesto dei contenuti della proposta di legge dellon. Naro (UDC) sullelaborazione precedente dellon. Burani.
Alla ricerca di una difficile coerenza interna fra lesigenza di mantenere limpianto sanzionatorio e stigmatizzante per le situazioni gravi e quella di far convivere nel Dipartimento di Salute Mentale (DSM) percorsi per il trattamento della depressione (questi ultimi a carattere volontario), larticolato si è fatto più complesso e faticoso. Alla fine, la proposta assume i tratti di un progetto obiettivo psichiatria (non per la salute mentale) prevedendo e prescrivendo il cosa debba accadere in tutte le regioni e in tutte le Aziende Sanitarie. I DSM, centrali nellofferta dei servizi alla popolazione, diventano strutturati in base alle singole patologie e alle fasi cliniche (acuzie, sub-acuzie, post-acuzie, cronicità) e sono articolati per strutture, non per funzioni.
Ne risultano DSM divisi in spazi e operatori dedicati alle situazioni gravi (per lo più persone con diagnosi di psicosi schizofrenica), e spazi e operatori dedicati alla depressione, ai disturbi da attacchi di panico, ai disturbi del comportamento alimentare ecc.. Anche le regole proposte sono diverse a seconda della diagnosi e le modalità di intervento coatto diventano ben quattro: Accertamento Sanitario Obbligatorio (ASO), Accertamento Sanitario Obbligatorio Ospedaliero (ASOO), Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), Trattamento Sanitario Obbligatorio Prolungato (TSOP).
Sono possibili due tipi di trattamenti: il Trattamento Intensivo Prolungato e Trattamento Intensivo Limitato agli episodi di malattia.
La proposta intende sostituire le norme vigenti che sono quindi abrogate.
Ma la "situazione grave", i "pazienti gravi" sono altro rispetto all'idea che se ne è fatta l'on. Burani. Come afferma Carmine Munizza (2002) Il paziente grave non è (
) un fenomeno nicchia, definito una volta per tutte e solo da alcune diagnosi (psicosi), istituzioni (famiglie, servizi) e discipline (dentro la psichiatria), ma è il coaugulo (spesso il precipitato) di una miscela complessa e variabile ( anche nel tempo e nei contesti), a seconda degli angoli di osservazione, delle priorità, dei bisogni, delle speranze, delle paure, delle emozioni, dei fallimenti di persone, gruppi, istituzioni, tecniche e campi sociali".
Le argomentazioni del presidente della più importante associazione scientifica nazionale degli psichiatri fanno giustizia del modo approssimativo e rozzo con cui l'on. Burani definisce "chi è il paziente grave".
In sintesi, lessere paziente psichiatrico in carico ad un DSM consente allo stesso ed alla sua famiglia di beneficiare di opportunità di:
- lavoro tramite l'inserimento nelle liste di collocamento obbligatorio per portatori di handicap, con l'intesa che tale condizione non debba comportare alcuna discriminazione. Non meglio specificate "strutture curative" (DSM, Strutture protette, servizi ospedalieri?) devono supportare le attività lavorative (pare di capire di natura ergoterapica) e collaborare con le Cooperative sociali. Non sono previste opportunità di occupazione diverse dalle Cooperative Sociali, né la formazione Professionale. Prescritto il subappalto. La scelta secca del collocamento obbligatorio comporta il dare per persa, impercorribile la strada dell'inserimento lavorativo e abbandonare i percorsi difficili, ma straordinariamente ricchi, degli inserimenti personalizzati e guidati, uno dei nuovi e più promettenti ambiti di attività per i DSM.
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libertà di scelta delle strutture, dei medici e del DSM presso cui curarsi
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possibilità di associarsi liberamente in gruppi di auto-mutuo aiuto
Il medico di famiglia
Il coinvolgimento dei medici di famiglia nel lavoro di salute mentale non è impedito dalla legislazione in vigore, tanto che è da qualche anno in corso di sperimentazione in molti DSM. E certamente un obiettivo di grandissima importanza che comporta interventi nellarricchimento della formazione di base e di quella permanente, la predisposizione di sedi, programmi, incentivi. Esso richiede quindi tempi che non possono essere imposti da una legge.
Chi decide le politiche di salute mentale. A livello locale il comma 6 dell'articolo 7 afferma che "Le associazioni (delle famiglie) devono essere consultate, in via preliminare, dalle strutture del CSM, in tutte le decisioni relative alla politica della salute mentale svolta sul territorio". Anche questo, non solo non è impedito dalla legge in vigore, ma addirittura indicato fra gli obiettivi del progetto obiettivo nazionale 1998-2000.
La prevenzione e il rapporto fra DSM e UONPI. L'articolo 2, comma 13, prevede che i DSM si occupino della prevenzione delle malattie mentali e dell'informazione del "corpo insegnante" e l'articolo 14 assegna al Ministero della Salute il compito di stabilire le modalità di realizzare programmi di intervento nelle scuole. E' detto anche che il DSM si occupa della "psichiatria adulti", e si specifica che fino al compimento del 18° anno di età siano le UONPI a occuparsi delle attività di prevenzione e cura dei disturbi mentali. Non si capisce perchè perché non si debba affidare alle UONPI tale attività: cosa ne sa il DSM adulti della salute mentale infantile e in età evolutiva e cosa ne sa il Ministero della Salute di pedagogia?.
L'on. Burani ripropone esplicitamente modelli, culture professionali e circuiti tipicamente manicomiali perché escludenti, ossessionati dalla finalità del controllo e del contenimento, separati secondo lo "stadio" della malattia.
La proposta Burani privilegia il potere degli psichiatri contro quello dei pazienti, ma poi fa uscire la gestione dell'assistenza dal circuito dei servizi di sanità pubblica e della psichiatria professionale per assegnarla alla discrezionalità e all'arbitrio di imprese che lavorano a basso costo, senza dover rispondere del proprio operato. Le conseguenze prevedibili sono che si moltiplicherebbero le situazioni di degrado delle condizioni della vita quotidiana dei pazienti ricoverati nelle residenze protette.
Il termine "salute mentale" è estraneo all'ispirazione dell'on. Burani, che invece vuole una psichiatria solo come attività di controllo e contenimento della follia, sganciata dalle comunità e dai territori di riferimento del paziente. Partendo da intenzioni di difesa sociale, con tragica coazione a ripetere, ripropone scenari e situazioni già viste che hanno portato a veri e propri disastri nella qualità di vita e dei trattamenti dei pazienti, nonché isolamento ed emarginazione delle loro famiglie.
Burani nega qualsiasi valore alle culture ed alle pratiche sulla quali è stata costruita e si è consolidata l'esperienza della riforma psichiatrica italiana. Anzi, volta radicalmente pagina rispetto alla legge 180, ai progetti obiettivo, a documenti quali il parere del Comitato Nazionale per la bioetica del novembre 2000, la Carta degli Intenti di Milano o i pareri espressi dalla Società Italiana di Psichiatria e da importanti e rappresentative associazioni di famigliari quali UNASAM e DIAPSIGRA sulle proposte di legge in discussione alla XII Commissione. Ma ignora anche le nuove e ricche declinazioni che i temi della formazione professionale e del lavoro dei cittadini disabili hanno assunto negli ultimi venti anni con importanti riscontri anche dal punto di vista legislativo come nella legge 68/99 di riforma del collocamento, la Classificazione Internazionale delle Disabilità e dellHandicap del 1999, né porta traccia dei lavori della Conferenza nazionale per la salute mentale e della Giornata mondiale per la salute mentale del 7 aprile 2001. Parlo di esperienze, elaborazioni, piattaforme, programmi che mettono al centro il tema della salute mentale, dei diritti di cittadinanza, la lotta allo stigma, la valorizzazione della partnership di utenti e famiglie e dell'empowerment come obiettivo del lavoro in psichiatria. Evidentemente un altro linguaggio, un'altra scienza, un'altra civiltà.
Ai problemi dei pazienti e delle famiglie che vedono ancora negate opportunità di promozione della propria salute mentale si può rispondere in altri, ben diversi modi. Questi altri modi sono stati resi possibili e praticabili proprio grazie alle esperienze aperte da legislazioni, come la legge 180, che pongono al centro il rispetto della persona.
Nonostante lon. Burani e i suoi ispiratori, la psichiatria italiana non è allo sbando, i dati, la maturità delle riflessioni, la ricchezza delle esperienze lo dimostrano.
La psichiatria è tutt'altro che onnipotente e quando ha ritenuto di esserlo ha combinato enormi disastri nelle vite delle persone e delle comunità. Le esperienze nel mondo hanno dimostrato che, per funzionare bene, la psichiatria deve poter contare, oltre che sulle strutture proprie, su una rete di opportunità (formazione, lavoro, cultura, casa ecc.) la cui gestione deve rimanere autonoma, non può essere affidata agli psichiatri, pena la riproposizione di una psichiatria asilare, miserabile, ignorante e coercitiva. Per queste ragioni bisogna ripartire in Italia dal Progetto obiettivo nazionale (che affronta le questioni OPG, salute mentale in carcere e salute mentale in età evolutiva e adolescenti) con vincolo di risorse da parte delle Regioni e sanzioni sulle aziende inadempienti, dalla valorizzazione dei circuiti dei welfare locali (v. legge 328/00).
Il testo presentato non consente un confronto serio e civile perché non parte da una valutazione responsabile della situazione come essa è e, di conseguenza, non può dare un contributo alla soluzione dei problemi dell'assistenza psichiatrica in Italia e perché è una proposta che fa arretrare la psichiatria italiana di più di un secolo, e per taluni aspetti a prima di Pinel.
Nelle situazioni gravi, quelle che non possono essere abbandonate, i programmi riabilitativi a lungo termine (con adeguato trattamento farmacologico, opportunità di residenze protette, disponibilità di terapie di gruppo, avvio alla formazione professionale, attivazione di gruppi di self-help e di reti sociali nelle aree di residenza) danno un esito significativamente migliore rispetto all'internamento, specie per ciò che concerne i livelli di disabilità sociale.
La diagnosi medica, da sola, non può predire quali saranno le limitazioni alla partecipazione nei diversi ambiti di vita; invece, la partecipazione delle persone disabili è condizionata dalle legislazioni, dalla qualità delle politiche e delle pratiche sociali, dalle mentalità e dagli stereotipi di giudizio della popolazione.
Le persone con gravi problemi di salute mentale, assai frequentemente e facilmente, anche in ragione dei pregiudizi che li colpiscono, tendono a rinchiudersi in una situazione di non-attività e di isolamento. Ma lo stigma che colpisce le persone disabilitate arreca svantaggio alle stesse e priva la società di utili contributi. Per questo le persone disabilitate dovrebbero essere accettate come persone nella pienezza dei loro diritti, capaci di dare un utile contributo nel lavoro e nella società.
Mantova, 29 febbraio 2004