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  • INTRODUZIONE
  • UNA GRANDE CONFUSIONE
  • RIFIUTARE L'INTEGRAZIONE?
  • I PRESUPPOSTI DELL'INTEGRAZIONE
  • SOMMINISTRARE "LA GIUSTA TERAPIA"
  • TERAPIA INTEGRATA
  • CONCLUSIONI
  • BIBLIOGRAFIA

  • TERAPIA INTEGRATA

    In realtà la psichiatria in azione si confronta con un'eterogeneità di livelli e fattori tecnici, teorici, istituzionali; l'enfasi posta su un unico livello ne trascura inevitabilmente altri e questo é intanto un primo grado di disarmonia. Non c'è dubbio che chi segue un modello teorico-operativo specifico, quale che esso sia, trascura certi aspetti della realtà e dell'esperienza. Lo scopo di un modello è proprio quello di consentire un'elaborazione di certi fatti, ponendone altri in condizioni di trascuratezza, fuori dall'ordine che il modello istituisce. Da ciò l'utilità e i limiti di ogni modello. L'adesione a un modello preferenziale conferisce una certa sicurezza operativa, e avere a che fare con un operatore sicuro del fatto suo è spesso preferibile al riferirsi a un operatore che oscilla confusamente fra possibili procedimenti diversi.
    Potremmo benissimo immaginare una prassi clinicoterapeutica in cui tutti gli operatori sono d'accordo nel mettere tra parentesi ogni riferimento personale e mirano tutti alla realizzazione di una prescrizione psicofarmacologica. Possiamo immaginare, per esempio, che la potenza terapeutica sia concentrata nelle mani di un unico prescrittore, rispetto al quale il resto dell'équipe svolge solo funzioni diagnostiche (o divinatorie: qui l'analogia con le terapie tribali tradizionali si impone). Una simile procedura fa scadere proprio la scientificità del procedimento adottato, ma non necessariamente la sua efficacia. Ci pensa comunque la realtà, cioè i molti scacchi delle nostre consuetudini clinico-terapeutiche e di comprensione, a mostrarci i limiti dei modelli adottati, di ogni modello. D'altra parte non disponiamo di un supermodello che li unifica tutti. I punti di vista neurobiologici, psicologici e sociali possiedono ciascuno una autonomia di metodi e linguaggi, ma non conosciamo una unificazione teorica di queste diverse prospettive, peraltro assai travagliate esse stesse da disomogeneità al loro interno.
    In qualche modo una forma di unificazione dei livelli considerati avviene nella pratica, anche inconsapevolmente: ad esempio, dico una parola d'aiuto, insieme prescrivo un farmaco, e intervengo su una condizione economica precaria del medesimo soggetto. Manca una “camera di compensazione' teorica universalmente condivisa per il pareggio dei diversi valori messi così in gioco. La somministrazione di una parola adeguata può valere quanto un farmaco, ma comunque è una cosa diversa, come è diversa da un aiuto in denaro. Se pensiamo che ciascuno di questi momenti può nell'istituzione essere erogato da una persona diversa, con un ruolo differente entro l'istituzione-macchina, ci accorgiamo che la frammentarietà è la condizione ordinaria della risposta clinico-terapeutica standard. I modelli e le concezioni che guidano ciascuno di questi interventi possono essere tantissimi e in netto contrasto fra loro. La combinazione di questi vari momenti rischia dunque non l'eclettismo, ma l'accozzaglia, la confusione sistematica e l'arbitrio.
    La parola “integrazione” ha una grande tradizione concettuale nel nostro campo. Penso solo all'integrazione nervosa”: strutture e elementi morfologicamente e funzionalmente diversi concorrono alla costituzione di un'unica funzione, che non può essere localizzata da nessuna parte, se non appunto nell'integrazione del tutto. Monakov e Mourgue (1928) facevano l'ottimo paragone del S.N.C. con un carillon, fatto di tante parti: il rullo, la molla, la manovella, il pettine accordato, i dentini, ecc. E si chiedevano: dove si localizza in questa macchina la melodia? Da nessuna parte e dappertutto, evidentemente. Cioè nel funzionamento integrato delle parti. Se qualche parte non funziona correttamente, la melodia ne risente in vario modo.
    Risposte integrate da parte di istituzioni terapeutiche significa risposte melodiche. Ma che dire di un carillon che pretendesse di suonare melodie con ciascuna delle sue parti? Purtroppo i modelli clinico-terapeutici aspirano ciascuno a un certo imperialismo, dove si giocano il potere terapeutico e i conflitti relativi. La soluzione non sta certo nell'eclettismo (per esempio: un sotto-servizio per ogni indirizzo e metodo, per ogni gruppo nosologico e i relativi psicofarmaci), che produce rigidità e un'identità professionale asservita ai modelli e cangiante. Comunque forse le posizioni culturali possono essere eclettiche, ammettere un certo pluralismo di vedute coesistenti; ma al medico si richiede l'integrità personale della presenza, che vaglia tutte le valutazioni e assume la responsabilità finale della posizione terapeutica. Questo principio di integrità, che credo anche Jaspers condividerebbe, non va mai dimenticato.
    A livello istituzionale il problema diventa culturale: l'integrazione è il risultato di un cemento culturale dell'insieme. Un orientamento del singolo, dell'équipe, dell'insieme deve accompagnarsi a una consapevolezza dei momenti ideologici e parcellarizzanti del lavoro, che rimanda alla necessità di una “metacritica” dei vari modem emergenti e assicuri la costituzione di un continuum, di un'intesa e di un'identificazione reciproca. Ogni cultura psichiatrica deve essere consapevole, cioè attenta al metalinguaggi con i quali descrive la propria esperienza e a come la elabora nel tempo. Il suo compito non è soltanto applicare uno o più modelli, ma rendersi conto di come i modelli vengono via via proposti e impiegati.
    Anche il nesso fra tipo di intervento attuato in base a un “modello” e “miglioramento” clinico del paziente è problematico e può fornire indicazioni fuorvianti sulla bontà del modello come tale. Procedure terapeutiche ossessive, oppure di stile paranoico di singoli o di intere équipes possono benissimo registrare successi terapeutici di vario genere, senza bisogno di porsi il problema dell'integrazione. L'integrazione è una questione di correlazioni di ipotesi sul caso e di stili omogenei di comprensione, particolarmente necessari se, per esempio, pensiamo di dover contenere e ricomporre frammentazioni e scissioni del paziente, realizzando dal lato del terapeuta e per Il paziente continuità e una presenza personale e istituzionale che non si distoglie e non si scoraggia.

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