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CONCLUSIONI Infine un ultima considerazione dà a tutto il problema dell'integrazione una prospettiva diversa e apre un nuovo ambito di importanti riflessioni. Il medico anche più biologisticamente disintegrato ha il potere di introdurre e ordinare la sofferenza del malato in un sistema mitico molto potente, che oppone malato e medico a un sistema del male: di un male che il medico conosce e contro il quale gli è offerta l'opportunità di mobilitare uno, due, o più farmaci mirati. La partizione fra bene e male, entro la quale la malattia-che-si-ha è naturalmente integrata, attiva verso la sofferenza tutta una geografia morale con le sue divisioni e i suoi confini, che consentono di combattere la battaglia terapeutica e obbligano Il malato a definire da che parte sta. Questo gioco, se vediamo le cose così, mette in atto implicitamente un sistema psicologico assai complicato, che tuttavia si risolve e condensa pienamente nelle mosse localizzatorie e interattive della prescrizione e dell'assunzione di farmaci, dell'assenso o del rifiuto alla cura. Occorre comprendere quanto siano caricate e come concentrate sul medico prescrittore una serie di funzioni che, comunque le si denomini, vanno molto al di là del giudizio tecnico che l'esperto può formulare sul farmaco. Se vediamo le cose in questi termini, ci accorgiamo che l'atteggiamento più impersonalmente biologico è in psichiatria già in qualche modo integrato con una visione etica, con un lavoro di definizione e localizzazione del positivo e del negativo e delle forze in gioco, che implica transazioni, prese di posizione e scambi, personificazioni, obiettivazioni alle quali il medico concorre variamente, insieme al paziente, in forme che possono essere le più varie. In questa prospettiva esistono due livelli generali dell'integrazione: un livello generalissimo, che non può non essere attivo in ogni forma di scambio anche più impersonalmente biologizzante, e che fa capo a quella ontologia del male che ogni riferimento alla malattia mette in atto. Una componente che in psichiatria ha potenti effetti simbolici e strutturali su tutta la sua pratica. E un livello specifico, che, rilevando le scissioni entro cui si attua la nostra conoscenza dei fatti, vede nell'integrazione un'aspirazione a un significato unitario del comportamenti. In conclusione vorrei dire qualcosa sul metodo che ritengo necessario mobilitare. Sul piano clinico il metodo che noi adottiamo (parlo qui a nome del mio gruppo di lavoro) non è quello di una lettura psicoanalitica dei sintomi o delle vicende del paziente, che si affianca a altre letture possibili. Si tratta di promuovere attorno al caso clinico una visione condivisa, che includa anche le eventuali divergenze. Per realizzare questa finalità il gruppo di discussione entro un campo istituzionale capace di autorappresentazione e elaborazione della conflittualità emergente mi sembra uno strumento fondamentale. Le singole concezioni e specificità professionali devono qui trovare il loro banco di prova. Diversamente i conflitti fra modelli rischiano di generare delle forme di patologia istituzionale Incompatibili col compito del trattamento di un grande numero dl casi. Appartengo al tipo di psichiatra che crede molto al fatto che una buona parte del suo lavoro debba essere dedicato alla creazione di un buon osservatorio istituzionale, caratterizzato da una particolare attenzione alla qualità del clima entro cui si svolge il lavoro, con le sue varie proposte e ipotesi. Da qui l'importanza per tutti della supervisione a ciò finalizzata. La tematica dell'integrazione (del paziente, degli operatori) dovrebbe essere trattata entro questa prospettiva gruppale, istituzionale, entro un campo che va costruito attraverso un lavoro comune, con gli strumenti del gruppo e della supervisione. E' la mia formazione psicoanalitica che naturalmente ha determinato quest'impostazione, del resto condivisa da molti, pur con una varietà di accenti che non toglie a questo criterio una sua fondamentale unità. L'inevitabile eclettismo della psichiatria trova in questo modo l'opportunità di perdere i tradizionali difetti dell'eclettismo per diventare un discorso e una pratica adeguata alla complessità del caso. Ritengo questa impostazione una premessa indispensabile del mio lavoro. Ma sono certo che le proposizioni sopra enunciate non necessariamente sono condivise da tutti i miei lettori. Esse mirano in definitiva a tenere aperto e in discussione il problema del potere terapeutico: non aspirano ad abdicare a esso, ma a intenderne la natura e soprattutto la funzione.
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